Differenze sessuali di risposta agli psicofarmaci ignote o ben note e trascurate

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 20 settembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Le differenze genetiche, biochimiche e anatomo-funzionali fra i sessi, in grado di influenzare l’azione, il metabolismo e la tossicità dei farmaci psicotropi, sono numerose ed ancora notevolmente sottovalutate o addirittura ignorate, sia in fase di ricerca sia di applicazione clinica. In questo breve scritto, che riflette le intenzioni espresse di recente dalla Commissione Scientifica della nostra società, si vogliono porre alcuni dati e fatti all’attenzione di studiosi di neuroscienze, medici psichiatri e studenti - quali ricercatori del domani - allo scopo di accrescere la sensibilità verso il problema e fornire un sia pur piccolo contributo di motivazione al cambiamento.

Già due decenni fa, si sentiva ripetere ai corsi di formazione e di aggiornamento presso gli istituti internazionali di ricerca psiconeurofarmacologica più attivi e prestigiosi, che ormai si andava verso la personalizzazione dei farmaci. Il trend, si diceva, avrebbe anche consentito di superare il problema delle differenze fra i sessi che, se in generale nei mammiferi è rilevante, diviene massimo nello specifico umano della terapia psichiatrica. Intanto, negli anni Novanta la rimozione negli USA del divieto per le donne di partecipare a trials clinici, sembrava avere avviato un nuovo corso per la sperimentazione. Il cambiamento era previsto per un futuro prossimo, quasi immediato.

Quel futuro non è ancora venuto e, se i dati che provano differenze legate al sesso di sensibilità, biodisponibilità ed effetti pro dose, terapeutici, tossici e collaterali crescono sempre più, spesso nell’allestimento degli esperimenti e nella pratica clinica della somministrazione terapeutica di farmaci non si tiene conto nemmeno di quanto era già noto tre decenni fa. Infatti, dalla sperimentazione animale ai trials clinici, nella maggior parte dei casi, le nuove molecole da impiegare come medicamento per disturbi del sistema nervoso sono testate solo nei maschi.

Si tratta di un grave limite metodologico, concettuale e pratico, la cui incongruità è particolarmente evidente se si pensa che il numero delle donne alle quali sono prescritti psicofarmaci è all’incirca doppio di quello degli uomini. Una componente di questa differenza è nota fin dagli albori del trattamento su base scientifica dei disturbi psichici e del disagio esistenziale: le donne sono più propense degli uomini a chiedere aiuto. All’incongruità dovuta al numero maggiore di pazienti di sesso femminile, si aggiunge quella relativa al fatto che gli effetti collaterali si manifestano nelle donne con una probabilità dal 50 al 70% maggiore che negli uomini.

La sperimentazione prevalente o quasi esclusiva su roditori maschi e su pazienti di sesso maschile contrasta anche con evidenze come quelle discusse in un report per il governo degli Stati Uniti, nel quale, ad esempio, si rilevava che l’80% dei farmaci che la FDA aveva ritirato dal commercio fra il 1997 e il 2001, rappresentava un rischio molto più elevato per la salute delle donne che per quella degli uomini.

La prevalenza del sesso maschile nei campioni sperimentali non può essere considerata alla stregua di una gigantesca bias, ossia di una tendenza inconsapevole, perché è la risultante di varie componenti che includono scelte deliberate e razionalmente motivate. Infatti, le complesse modificazioni biochimiche ed istofisiologiche che seguono la ciclicità ormonale legata al ciclo mestruale, sono considerate come “una variabile in grado di ingenerare confusione”, e la presenza di una gravidanza, per ovvie ragioni di sicurezza, costituisce una controindicazione assoluta all’assunzione del ruolo di volontario per la sperimentazione di farmaci.

In effetti, il primo dei due problemi dovrebbe essere superato studiando i parametri farmacologici (farmacodinamici, farmacocinetici, ecc.) in rapporto a fasi ormonali e condizioni funzionali, ricavandone quadri analitici - se esistono - per le singole circostanze fisiologiche, e dati sintetici o medie per verificare l’andamento in previsione di somministrazioni protratte. Il secondo problema, ossia quello dell’esclusione delle donne in gravidanza dai trials, dovrebbe essere conservato con qualche eccezione, costituita da molecole per le quali si prevede un impiego in corso di gestazione.

Il problema è molto delicato e si è riproposto lo scorso anno in tutta l’evidenza delle sue contraddizioni, in occasione di uno studio su donne incinte affette da disturbo bipolare e in terapia farmacologica: al fine di controllare la loro fase depressiva erano necessarie dosi molto più elevate di Lamictal.

Conseguenze attualmente sconosciute possono derivare dall’interazione con gli psicofarmaci di farmaci assunti esclusivamente dalle donne, come le molecole per l’ormonoterapia contraccettiva, cioè le pillole anticoncezionali.

Qui di seguito si propongono, come annunciato nelle righe iniziali, alcuni dati e fatti ripartiti per categorie farmacoterapeutiche.

 

1. Antiepilettici e Psicofarmaci. Evidenze emerse in vari studi hanno spiegato perché alcuni farmaci anticonvulsivanti erano molto meno efficaci in campioni clinici di sole donne. L’enzima epatico CY P3A4, particolarmente attivo nelle donne giovani, è in grado di rendere molto meno efficaci alcune molecole, fra cui farmaci impiegati nella terapia di sindromi convulsive. Ricerche preliminari suggeriscono che numerosi enzimi epatici agiscono ad una velocità notevolmente diversa fra uomini e donne; tale differenza temporale nell’attività enzimatica potrebbe condizionare importanti differenze nella risposta dell’organismo ad antidepressivi, ansiolitici, analgesici e numerose altre categorie di farmaci.

 

2. Antipsicotici. Un’osservazione clinica che ha trovato innumerevoli conferme negli ultimi tre decenni, consiste nella maggiore efficacia nelle donne rispetto agli uomini degli antipsicotici tipici o di prima generazione (neurolettici classici), nella riduzione di deliri ed allucinazioni. Su questa base si giustifica l’indicazione e l’efficacia di neurolettici a basse dosi per dominare stati deliranti in donne affette da sindromi psicotiche anche di tipo eccitatorio e non schizofrenico.

 

3. Ipno-induttori. Lo scorso anno la Food and Drug Administration (FDA) ha annunciato la pubblicazione delle prime “Linee Guida” per la posologia sesso-specifica di un farmaco. Si tratta dell’Ambien, una molecola frequentemente prescritta negli USA contro i disturbi del sonno. Molte osservazioni cliniche riportavano una potenza pressoché doppia del farmaco nelle donne rispetto agli uomini.

Gli enzimi epatici nei maschi metabolizzano farmaci come l’Ambien, ed altre molecole facilitanti il sonno, molto più rapidamente che nelle femmine. Probabilmente, questa differenza ha un ruolo causale importante nel determinare una conseguenza frequente: alla stessa posologia di trattamento (dose minima efficace), gli uomini sono in genere lucidi ed attenti il giorno dopo l’assunzione, mentre le donne presentano spesso una sonnolenza che compromette l’efficienza lavorativa o la guida di un’automobile.

 

4. Antidepressivi. Una considerevole mole di studi conferma una differenza sessuale rilevata da decenni: gli inibitori super-selettivi della ricaptazione di serotonina o SSRI (ossia la categoria di antidepressivi più prescritta al mondo), e in particolare lo Zoloft, non presentano negli uomini la stessa efficacia rilevata nelle donne; anzi, nella massima parte dei casi, risultano totalmente inefficaci nel sesso maschile, sebbene la sperimentazione animale su roditori maschi abbia dimostrato effetti notevoli nel combattere lo stato ritenuto equivalente alla depressione umana. Negli uomini, i vecchi antidepressivi triciclici (Imipramina, Amitriptilina e derivati) rimangono più efficaci, forse perché la componente catecolaminergica della depressione (deplezione di catecolamine), sulla quale agiscono i triciclici ma non gli SSRI, è più importante negli uomini.

La maggiore potenza di alcuni antidepressivi nelle donne è però tale da richiedere ulteriori ipotesi ed indagini sperimentali.

In generale, è noto che la capacità di legame delle proteine del plasma è minore nella donna rispetto all’uomo: tale particolarità può influenzare la farmacocinetica di farmaci antidepressivi. È ben noto che, se assunti con altri farmaci, alcuni antidepressivi triciclici, quali l’amitriptilina, non trovando una sufficiente quantità di siti di legame sulle proteine plasmatiche, fluiscono per una quota eccedente nel torrente circolatorio. L’eccesso di farmaco non legato spiega la maggiore tendenza allo sviluppo di effetti collaterali da parte delle donne.

L’acidità dello stomaco delle donne è minore di quella degli uomini. Questo pH più alto accresce la velocità e l’efficienza di assorbimento degli SSRI, determinandone una rapida concentrazione nel sangue, con accresciuto rischio di tossicità.

La massa grassa rispetto a quella magra, come è noto, è in proporzione maggiore nel corpo femminile. La capacità di trattenere farmaci da parte del grasso si ritiene abbia un ruolo nell’accumulo di antidepressivi caratteristicamente rilevato nelle donne.

 

5. Ansiolitici. Il rene maschile filtra con maggior velocità numerose classi di composti, fra cui quelle impiegate come farmaci ansiolitici. Le donne potrebbero richiedere un tempo maggiore fra una somministrazione e l’altra di una benzodiazepina (diazepam o Valium, lorazepam o Tavor, ecc.), rispetto agli intervalli calibrati prevalentemente sul potere emuntorio di reni maschili.

Come nel caso degli antidepressivi, la minore acidità gastrica femminile facilita l’assorbimento degli ansiolitici, consentendone un più rapido effetto alle dosi standard, ma più facilmente minacciando un accumulo tossico per dosi più elevate.

Le benzodiazepine, ossia i farmaci ansiolitici di gran lunga più prescritti al mondo, sono state studiate in modo tale che la loro capacità liposolubile ne consente il passaggio attraverso le membrane prevalentemente costituite da fosfolipidi e, in particolare, la barriera ematoencefalica. Questa qualità, però, presenta il limite di una notevole diffusione dal sangue nel tessuto adiposo e, per la già ricordata prevalenza del grasso nel corpo femminile, espone le donne ad un maggior rischio di accumulo, con effetti collaterali o tossici diretti, a dosi più basse che negli uomini.

 

6. Analgesici ed antidolorifici. Probabilmente a causa di una modulazione della risposta al dolore da parte degli estrogeni, le cui concentrazioni ematiche variano con le fasi del ciclo mestruale, le donne sperimentano un maggior sollievo del dolore per effetto degli analgesici oppioidi.

Gli uomini tendono maggiormente delle donne all’iperdosaggio nell’autosomministrazione di antidolorifici, esponendosi perciò maggiormente al rischio di effetti collaterali e, potenzialmente, di abitudine. Però, per le donne che abbiano preso l’abitudine ad assumere questi farmaci contro il dolore è più difficile smettere. E non solo: una donna che smette di assumere farmaci contro il dolore dopo averlo fatto a lungo per abitudine compulsiva, molto più facilmente di un uomo ricade nell’abitudine, come dimostrato da numerosi studi. La recidiva è più probabile a metà del ciclo mestruale, quando i tassi di glucosio cerebrale sono più bassi. Banalmente, basandosi sul fatto che il glucosio è il principale metabolita per tutte le funzioni del cervello che, soprattutto al livello della corteccia sono regolate dall’inibizione, si è detto che il difetto di glucosio può essere responsabile di una riduzione dell’autocontrollo. Ma la vera ragione, che probabilmente consiste in una qualche differenza che incide nel complesso intergioco fra sistemi che legano gli stati fisiologici alle decisioni comportamentali, non è nota, e si dovrà indagare per scoprire questa e tutte le altre ragioni ancora ignote delle differenze di genere nella risposta ai farmaci.

 

Concludendo, la FDA ha recentemente annunciato di essere impegnata in uno sforzo per definire dei piani che consentano di tener conto delle differenze sessuali nella sperimentazione clinica. Potrebbe essere un primo passo.

 

L’autrice della nota ringrazia il dottor Lorenzo L. Borgia per la revisione del testo e suggerisce la lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-20 settembre 2014

www.brainmindlife.org