Le basi cerebrali delle abitudini

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 20 settembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

 

(Seconda Parte)

 

Molti ricercatori si chiedono se il comportamento compulsivo dei tossicodipendenti, così come tutta la gamma di condotte ripetitive che si osserva in psicopatologia, abbia un nucleo in comune con le abitudini fisiologiche, e in quali elementi neurali consistano somiglianze e differenze. Una lunga, consolidata ed utile tradizione clinica ha descritto i sintomi caratterizzati da ripetizione nel quadro delle sindromi di appartenenza, riferendoli alla causa nota o presunta, alla disfunzione adattativa nel complesso delle altre manifestazioni, ed al valore in termini di economia psichica. Ogni psichiatra conosce la necessità e l’utilità della distinzione fra manifestazioni quali condotte ripetitive derivanti da automatismi psicomotori tipici dell’autismo infantile, comportamenti stereotipati delle psicosi schizofreniche, rituali del disturbo ossessivo-compulsivo, insistenza per restrizione del pensiero depressivo, perseveranza verbale e ideativa da lesione del lobo frontale, e così via[1]. Anche la semplice analisi fenomenico-comportamentale da parte di un osservatore attento ma non dotato di un bagaglio di conoscenze medico-scientifiche, consente ad esempio di notare la differenza fra la focalizzazione esistenziale del pensiero di un depresso su idee di rovina, fallimento e impossibilità di vita, e la concentrazione motivazionale del tossicodipendente, simile all’imporsi di un imperioso bisogno naturale che richiede solo di essere soddisfatto e, apparentemente, non modifica la visione del mondo.

Non crediamo, perciò, che ogni tendenza alla ripetizione di atti mentali o materiali debba essere riportata al concetto di abitudine, ma ci sembra ragionevole supporre, con numerosi ricercatori, che il mantenimento e la ripetizione di un setting funzionale possa avere un sostrato neurale comune con i comportamenti abituali, e, per questa ragione, l’identificazione delle basi neurali delle abitudini potrebbe gettare luce anche sulla fisiopatologia di un gran numero di sintomi caratterizzati da ripetitività.

 

Decifrare il profilo neurale delle abitudini. “Il lupo perde il pelo ma non il vizio”, recitava un adagio popolare tratto da antiche favole moratorie che avevano gli animali per protagonisti. La riflessione dei filosofi e la saggezza del popolo conosceva fin dall’antichità la forza delle abitudini e il rischio di contrarne di cattive, perciò non meraviglia che espressioni culturali risalenti all’antica Grecia e all’antica Roma testimonino un’attenzione pedagogica in questo senso. Gli antichi sapevano che il vizio, inteso come cattiva abitudine, è difficile da perdere e può condizionare l’intera vita di una persona. Perciò si dava rilievo, nel pensiero filosofico antico, alla prevenzione delle cattive abitudini. In Seneca, il vizio è definito come “ignoranza dei beni e dei mali”, contrapposto alla virtù, identificata con la conoscenza di ciò che è bene e ciò che è male. Se la conoscenza si era rivelata spesso insufficiente a correggere le cattive tendenze, sicuramente aveva confortato i pensatori nel mostrare tutta la sua efficacia preventiva.

Dunque, un carattere che accomuna i comportamenti abituali è il loro essere “resistenti”, come se fossero sostenuti da un’intenzione tenace. Alcune abitudini sembrano quasi essere indelebili: la forza dell’abitudine può farci sbagliare strada o esporci al rischio di comportamenti inadeguati. Proprio questo radicamento tenace, ha costituito una traccia importante per l’identificazione dei principali circuiti cerebrali responsabili della formazione e del mantenimento delle abitudini.

Una parte della “forza dell’abitudine” sembra essere dovuta ai meccanismi di formazione dell’apprendimento e, in particolare, alle “contingenze di rinforzo”. In altri termini, la presenza anche casuale di gratificazione o ricompensa nell’adozione di un comportamento, associata all’assenza di associazione positiva o alla presenza di frustrazione nell’adozione di un comportamento alternativo, fa pendere la bilancia verso la ripetizione del primo.

Questo apprendimento associato al rinforzo è stato riconosciuto sulla base di segnali cerebrali rilevati originariamente negli studi condotti presso l’Università di Fribourg, in Svizzera, da Wolfram Schultz e Ranulfo Romo, e poi schematizzato in modelli computazionali. Particolarmente importanti sono i segnali di errore relativi alla previsione di ricompensa. Tali segnali, prodotti dopo il verificarsi dell’esperienza, derivano da una valutazione cerebrale del grado di precisione con il quale è stato previsto un rinforzo. Queste ed altre valutazioni sono elaborate dal cervello, che su tale base definisce le aspettative e aggiunge o sottrae un peso negativo o positivo ad una particolare esperienza. Si ritiene che, monitorando le nostre azioni internamente e aggiungendo loro un peso negativo o positivo, il cervello rinforzi specifici comportamenti, spostando le azioni da deliberate ad abituali.

All’inizio dell’iter sperimentale più recente, i ricercatori si sono posti questi due quesiti: quali sono i processi all’interno delle connessioni cerebrali responsabili dello spostamento da azione deliberata ad abituale? Possiamo interrompere questa funzione per isolarla e verificarne l’identità?

La sperimentazione animale ha preso le mosse da un paradigma creato negli anni Ottanta da un ricercatore britannico, Anthony Dickinson, che ha fornito un modello sperimentale nei ratti per rilevare se si è formata un’abitudine comportamentale. Usando varianti del test di Dickinson, vari ricercatori, fra i quali Bernard Balleine dell’Università di Sidney e Simon Killcross dell’Università di South Walles in Australia, hanno rilevato che differenti circuiti cerebrali assumono un ruolo di guida funzionale quando azioni deliberate sono convertite in comportamenti abituali.

Sebbene lo studio nella nostra specie e nella scimmia sia differente per procedure e metodologie, ha fornito anche di recente risultati che sembrano convergere con quelli ottenuti nei roditori. In tutte le specie studiate, infatti, sembra che all’origine della formazione di abitudini vi siano cambiamenti in vari importanti circuiti che pongono in connessione la neocorteccia con lo striato, ossia le sedi, rispettivamente, del più alto livello di integrazione funzionale e delle maggiori procedure esecutive del cervello dei mammiferi. Tali circuiti diventano più o meno attivi, ovvero sono più o meno impegnati, se si compiono azioni spontaneamente decise o indotte da abitudine.

 

[continua]

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-20 settembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] La nostra scuola non concorda, in proposito, con Kyle Smith e Ann Graybiel che considerano forme estreme di abitudine le condotte autistiche e le stereotipie schizofreniche.