La punizione e la sua regolazione corticolimbica nel cervello

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 13 settembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La parola punizione evoca, nella mente della maggior parte delle persone, il significato di un castigo per un errore o di una penalità inflitta per la violazione di una norma o di un dovere. Nel pensiero antropologico e sociale ci riporta alle forme di organizzazione collettiva che, allo scopo di proteggere l’integrità o il buon vivere comune mediante regole, definiscono pene a cui sottoporre i trasgressori o coloro che dall’esterno minacciano i membri di un chiefdom, di una tribù o di uno stato. Più ordinariamente, nella nostra esperienza, la punizione appartiene all’ambito pedagogico, scolastico o militare, e si configura come una misura retributiva negativa intesa a rafforzare la comprensione, l’apprendimento e il rispetto delle regole. Il termine punizione, con un significato di portata molto più limitata, nelle discipline sportive designa la penalità inflitta a chi contravviene al regolamento. In particolare, in uno sport di squadra come il calcio, è evidente il suo valore nell’ottica di una gestione equa e leale del gioco: la punizione è costituita da un atto vantaggioso, quale un tiro, concesso dall’arbitro alla squadra che è stata danneggiata dalla trasgressione di una regola da parte di uno dei membri della squadra avversaria.

Tanto premesso, è innegabile la base psicologica e il fondamento affettivo ed emotivo del pensiero che porta a concepire, temere o desiderare la punizione di qualcuno. Tale origine individuale costituisce un oggetto di studio che ha recentemente indotto a ricercare i correlati neurofunzionali dei vari aspetti di questa esperienza.

Sulla base di studi recenti, si interpreta la punizione guidata dall’emozione in chiave evoluzionistica, considerandola alla stregua di un’euristica che consente di determinare la giusta pena da infliggere al trasgressore. Per mettere alla prova questo punto di vista, non sempre supportato da dati di esperienza, uno studio condotto da Michael T. Treadway e colleghi ha esplorato la funzione cerebrale nel corso del giudizio, identificando un importante correlato neurofunzionale in una regolazione cortico-limbica (Treadway M. T., et al. Corticolimbic gating of emotion-driven punishment. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi:10.1038/nn.3781, 2014).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Center for Depression, Anxiety and Stress Research, McLean Hospital, Harvard Medical School, Belmont, Massachusetts (USA); Department of Psychology, Emory University, Atlanta, Georgia (USA); Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, Massachusetts (USA); Department of Biological Sciences, MacArthur Foundation Research Network on Law and Neuroscience, Vanderbilt Law School, Department of Psychology and Center for Integrative and Cognitive Neurosciences, Vanderbilt University, Nashville, Tennessee (USA); University of Pennsylvania Law School, Philadelphia, Pennsylvania (USA); Division of Social Sciences, Yale-NUS, Singapore (Singapore).

Sicuramente non è sfuggito al lettore che, nelle righe di introduzione al concetto di punizione, si fa implicito riferimento all’intervento di un terzo o di una figura specificamente designata per l’erogazione della pena, del castigo o della penalità: un rappresentante dello stato, un educatore, un arbitro. La specificazione non è banale, perché la punizione implica un atto di correzione, di giustizia o di equità e non può essere confusa con una vendetta. Nel castigare qualcuno si fa riferimento ad un elemento oggettivo, come una legge a tutela della comunità, e si implica un giudizio o una valutazione espressa da persone diverse dai protagonisti di una vicenda. Nella vendetta, la persona offesa giudica, condanna ed esegue da sé il proposito di rispondere al danno ricevuto con un danno arrecato.

Gli esempi storicamente più rilevanti di punizione vengono dalla cultura religiosa prevalente in Europa e in America, cioè quella biblica. In tutti i casi si tratta di una remunerazione negativa conseguente al peccato e deve essere intesa come castigo di Dio. D’altra parte, l’Altissimo era stato chiaro nel suo “nessuno tocchi Caino”: la punizione per l’omicida del fratello Abele spettava a lui solo, che aveva metaforicamente marchiato sulla fronte il colpevole per riconoscerlo come responsabile. La mediazione umana nell’esecuzione della condanna, basata su istruzioni profetiche e consistente spesso nella pena di morte, è caratteristica della Legge ebraica enunciata nella Torah e corrispondente al Vecchio Testamento della Bibbia cristiana, ma viene esclusa dal messaggio di amore assoluto che costituisce il cuore dell’insegnamento di Gesù Cristo[1].

In ogni caso, la punizione così intesa non può essere confusa con una vendetta. La breve riflessione culturale su questo punto mi è parsa doverosa perché non sempre nella letteratura psicologica su questo argomento si rispetta in modo chiaro questa distinzione.

Il genere di ricerche cui appartiene il lavoro qui recensito può essere riportato allo studio della “mente del giudice”; in altri termini, un’osservazione distinta e distante dal metodo “Milgram” che rendeva i volontari diretti responsabili di azioni da studiare[2].

Determinare la punizione appropriata per la violazione di una norma, richiede la considerazione sia dello stato mentale del responsabile, valutando ad esempio presenza o assenza di volontarietà e premeditazione, sia delle emozioni, spesso intense, provocate dal danno causato dalla trasgressione. Sulla base di numerose osservazioni, è stato ipotizzato che tali risposte affettive funzionano come un’euristica che determina la punizione appropriata.

Non si può tuttavia negare che il valore attribuito da chi giudica allo stato mentale di chi compie l’azione meritevole di castigo, abbia effetto sulle emozioni del giudicante, perché in genere il danno involontario non viene punito, indipendentemente dalla sua entità. Per comprendere come ciò sia possibile, Michael T. Treadway e i suoi colleghi hanno voluto esplorare, mediante risonanza magnetica funzionale, l’effetto sul cervello di volontari di descrizioni dettagliate delle conseguenze di azioni dannose.

L’illustrazione analitica ed emotivamente rilevante degli effetti prodotti dal danno, induceva i volontari richiesti di esprimere un giudizio ad accrescere la gravità della punizione; parallelamente nel loro cervello si aveva un incremento dell’attività dell’amigdala e il rinforzo della connettività dei nuclei amigdaloidei con le regioni prefrontali laterali implicate nel processo decisionale relativo alla scelta della punizione.

Il dato di assoluto interesse emerso dallo studio è che questo quadro poteva essere osservato solo quando l’attore che aveva compiuto l’azione dannosa aveva agito intenzionalmente. Quando le persone richieste di esprimere un giudizio erano edotte della involontarietà dell’azione nociva, entrava in funzione un circuito temporoparietale mediale-prefrontale, che agiva sopprimendo l’attività dei circuiti dell’amigdala, così che era abolito l’effetto delle descrizioni crude e particolareggiate sull’elaborazione cognitiva finalizzata a definire una punizione.

In attesa di verifiche e conferme di quanto riportato dagli autori, questo studio documenta l’esistenza di meccanismi cerebrali di attivazione e inibizione mediante i quali la valutazione dello stato mentale di un trasgressore regola le nostre spinte emotive alla punizione.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione nella stesura del testo e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-13 settembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] La differenza è evidente se si paragona la preghiera di Gesù per i propri carnefici [Luca: 23, 34] con la “Preghiera del calunniato” che si legge al Salmo 7: “Sorgi Signore nel tuo sdegno…” (v. 7) e “Poni fine al male degli empi…” (v. 10). In molti altri casi l’innocente, il “Giusto”, si arroga il diritto di punire e impetrare il castigo divino.

[2] Si vedano la successione di note a partire da Note e Notizie 10-12-11 Milgram e i suoi normali mostri da olocausto.