La coscienza e un interessante nuovo libro di Dehaene
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 13 settembre 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RASSEGNA
INTRODUTTIVA / RECENSIONE / AGGIORNAMENTO]
1. Al modo di un’introduzione: cosa si intende e si è inteso per coscienza. La coscienza, comunque la si concepisca e la si voglia definire, costituisce la dimensione oggettiva e soggettiva della nostra esperienza mentale che maggiormente ci distingue dagli animali[1]. Prima dell’avvento dello studio scientifico, che l’ha considerata espressione di un’attività neurale cerebrale, la coscienza è stata interpretata in chiave filosofica, religiosa e, nelle epoche più recenti, psicologica[2]. Oggi, l’accezione più comune, ci riporta a due significati da dizionario: 1) sentimento che l’individuo ha di se stesso, delle proprie sensazioni, dei propri pensieri; consapevolezza; 2) facoltà dello spirito umano di formulare giudizi normativi e immediati sul valore morale di determinati atti individuali (Sansoni). Questi due valori semantici non costituiscono solo il senso prevalente in quella moneta di scambio che corrisponde al linguaggio di tutti i giorni, ma, in qualche modo, rappresentano anche un approdo di un percorso di esperienza/conoscenza umana.
È molto difficile, se non impossibile, esporre in sintesi la filosofia della coscienza del secolo appena trascorso, senza delineare sia pur sommariamente i principali orizzonti della speculazione ed illustrare a grandi linee le prospettive teoriche degli autori più influenti. In altri termini, si dovrebbe realizzare un breve compendio filosofico: impresa disperata per le competenze di chi scrive, e di dubbia utilità per il fine di introdurre le principali tesi della concezione scientifica contemporanea della coscienza. Mi limiterò, pertanto, a riportare qui di seguito solo qualche spunto utile al confronto con la prospettiva scientifica e di facile comprensione, anche per noi che non abbiamo una specifica formazione filosofica.
Uno dei problemi affrontati dalla filosofia del Novecento è la determinazione del rapporto dell’essere con la coscienza. Un altro grande tema di speculazione ha riguardato la possibilità della coscienza di entrare in relazione con la parte del reale da cui si sarebbe differenziata e, in particolare, come la coscienza in senso teorico-conoscitivo e pratico-operativo si rapporta alla natura. La maggior parte dei filosofi ha ritenuto e ritiene che la coscienza non sia natura, tuttavia la riflessione ha portato alcuni ad ipotizzare la fondazione dell’essere naturale nell’essere della coscienza.
Durante il secolo appena trascorso, la filosofia della coscienza entra in crisi per una serie di ragioni: in primo luogo, sembra avere inciso in modo significativo l’elaborazione del tema della trascendenza da parte di Heidegger e dei suoi epigoni; un altro fattore importante si ritiene sia stato il ritorno al concetto di estraneità del reale; infine, gli studi basati sull’analisi del linguaggio ordinario e sulle trappole semantiche in cui sarebbero caduti gli stessi filosofi, hanno condotto alla formulazione del concetto di “mito della coscienza di sé”.
I fenomenologi hanno dedicato alla coscienza studi attenti ed elaborazioni originali che, in contrapposizione teorica con il positivismo, hanno condotto a formulazioni dal profilo metafisico e talora spiritualistico. Per Bergson la coscienza è la “realtà […] che noi tutti cogliamo dal di dentro, per intuizione e non soltanto per analisi”[3]. Ma Maurice Merleau-Ponty osserva, studiando gli sviluppi della ricerca bergsoniana: “… accade a Bergson di considerare la coscienza come una sostanza disseminata nell’universo, sostanza che gli organismi rudimentali «comprimono in una specie di morsa» e che gli organismi più differenziati lasciano invece che si schiuda. Che cos’è dunque questa «larga corrente di coscienza» senza organismo e senza individualità, di cui Bergson dice che attraversa la materia? Divenuta fattore cosmologico la coscienza non è più riconoscibile”[4].
Merleau-Ponty riporta, invece, l’esperienza della coscienza, come di tutta la vita psichica, al cardine della percezione: “La materia, la vita, Dio, non sarebbero «interiori a noi», come dice Bergson, se si trattasse della materia in sé […] della vita in sé […]. Non può trattarsi che della materia, della vita, di Dio che sono da noi percepiti”[5].
Fra Bergson e Merleau-Ponty vi è Edmund Husserl che, opponendosi alle tesi del naturalismo positivistico, rilancia con efficacia il tema della coscienza, determinando un’influenza di notevole portata sul pensiero filosofico di quegli anni. La sua fenomenologia della dimensione consapevole della psiche umana, lo porta a riconoscerle un fondamento in quella che definisce “coscienza assoluta”. Tralasciando le profonde riflessioni di questo autore, ricordiamo che Husserl propone una fenomenologia della coscienza contrapposta a una scienza naturale della coscienza che, secondo lui, avrebbe fallito il suo scopo, perché i presupposti fisicistici avrebbero impedito il rendersi conto della diversità essenziale dello psichico, con la conseguente reificazione (cosalizzazione) della coscienza stessa.
L’analisi fenomenologica, nonostante il suo notevole successo in ambito filosofico, non è mai riuscita a contendere alla psicoanalisi il primato di cultura egemone nell’ambito psicologico-psichiatrico, dove il paradigma psicoanalitico, con le precise e dettagliate implicazioni cliniche legate ai criteri della diagnosi e alla tecnica della terapia, è rimasto a lungo il riferimento prevalente, anche grazie al “ritorno a Freud” propugnato nella seconda metà del Novecento in Europa da istituti influenti come l’École Freudienne di Jacques Lacan.
Quando Freud fondò la psicoanalisi, elaborando con il metodo analitico il modello topologico ed il modello energetico (libidico) della psiche, la tendenza culturale dominante identificava la mente con i processi psichici coscienti. Pertanto, dopo la “scoperta” dell’inconscio, le dinamiche della parte non cosciente della psiche hanno costituito a lungo il principale oggetto di interesse teorico per tutto il movimento psicoanalitico che, come lo stesso Freud, tendeva a considerare e definire la coscienza nei termini dell’esperienza comune.
Il concetto di coscienza, nella storia del pensiero, è quasi sempre connotato come dote squisitamente umana, a differenza di altre facoltà psichiche, quali quelle cognitive. Si pensi all’intelligenza nella cultura greca classica, la cui presenza nel mondo animale non costituiva una semplice metafora, ma rappresentava un solido riferimento analogico per prototipi e paradigmi di forme di astuzia ed ingegno umani, come nel caso della metis della volpe e del polpo[6]. Nei secoli di evoluzione della cultura occidentale, soprattutto per effetto dell’ordinata coerenza derivata dalle radici giudaico-cristiane europee, anche quando la dimensione mentale consapevole in oggetto non era la coscienza morale, si dava per implicito il riferimento all’uomo. Se si escludono le tesi del panpsichismo, così come teorie filosofiche e teosofiche di origine orientale, la possibilità di concepire e studiare la coscienza fuori dell’ambito umano è introdotta dal sapere scientifico e, in particolare, dalle scienze cognitive e neurobiologiche[7].
Steven Rose, uno dei fondatori della neurobiologia come branca specializzata del sapere biologico, negli anni Settanta affronta il problema delle basi biologiche della coscienza tracciando una linea di sviluppo filogenetico continuo, che porterebbe all’emergere di particolari funzioni dalla quantità di neuroni e sinapsi e dalla loro specializzazione: “… il fenomeno, descritto al suo appropriato livello gerarchico come «coscienza», è in correlazione con i fattori delle dimensioni della neocorteccia e del numero di cellule; non esiste quasi certamente una relazione lineare fra loro, ma in un modo o nell’altro sarebbe possibile scrivere una relazione del tipo C = f1(n) f2(s) in cui la coscienza (C) è una funzione del numero di cellule neuroniche (n) - forse dei neuroni della corteccia associativa - e del numero di connessioni (s)”[8]. Più avanti Rose precisa: “L’aumento quantitativo della funzione C = f1(n) f2(s) tra l’uomo e i primati è sufficientemente grande per determinare una trasformazione qualitativa. Ma non è così grande da costringerci a respingere una sua spiegazione scientifica…”[9].
Il neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux così si esprimeva oltre trent’anni fa: “Al grado di integrazione in cui ci situiamo, ciò che si è convenuto chiamare la «coscienza» si definisce come un sistema di regolazione globale che poggia sugli oggetti mentali e i loro calcoli. Una maniera di affrontare la biologia di questo sistema di regolazione consiste nell’esaminare i diversi stati e nell’identificare i meccanismi che fanno passare da uno stato all’altro.”[10].
Il biologo molecolare e neuroscienziato Gerald M. Edelman, nella sua teoria biologica della mente basata sulla selezione dei gruppi neuronici, sulla categorizzazione percettiva e sul rientro fra mappe neuroniche, indica le probabili basi neurali per una coscienza primaria e una coscienza di ordine superiore. Entrambe le forme o livelli costituirebbero degli assetti funzionali evoluti specificamente e non sarebbero epifenomeni dell’organizzazione del cervello per i fini biologici fondamentali. La coscienza primaria, secondo Edelman, non può andare oltre il “presente ricordato”[11] ed apparterrebbe ad un ordine di processi presenti in varia forma nei mammiferi. La coscienza di ordine superiore, capace di progettare il futuro e legata ad astrazioni concettuali prodotte grazie al linguaggio verbale, è tipicamente umana ed è caratterizzata dalla “coscienza di essere coscienti”.
Edelman, con vari collaboratori, ha creato modelli artificiali schematici di cervelli basati sui principi della sua teoria, realizzando degli automi (Darwin I-IV, Nomad, ecc.), ed ha promosso lo sviluppo di una scuola di pensiero sulla neurobiologia della coscienza, dalla quale proviene Giulio Tononi.
2. Idee sulla coscienza e vere teorie. Attualmente circolano varie ipotesi o congetture sulla coscienza, spesso proposte come “teorie”, anche se in genere prive di un dimostrato fondamento sperimentale nelle funzioni cerebrali e di nessi logici diretti fra interpretazione e fenomeni. Proprio recensendo il nuovo libro di Dehaene, Christof Koch, ex collaboratore di Francis Crick negli studi sulla coscienza, ha ricordato che Wolfgang Pauli, uno dei padri della teoria dei quanti, soleva etichettare simili costruzioni teoriche come “nemmeno sbagliate”, intendendo dire che non erano neppure degne di essere prese in considerazione, in quanto prive dei requisiti minimi di scientificità.
Una di queste elaborazioni, fra le più note e diffuse presso il grande pubblico, è la cosiddetta “teoria quantistica della coscienza”. Si tratta di un lavoro per il quale non è improprio adoperare l’etichetta di genere “fantascienza”, perché per il momento non esistono spiegazioni di funzioni psichiche al livello delle particelle atomiche elementari e, per quanto ne sappiamo, il livello funzionale costituito dalla struttura del cervello e dalla forma e funzione dei singoli circuiti è indispensabile per i processi percettivi, cognitivi, affettivi ed emotivi. Gli esiti delle lesioni che si osservano in clinica neurologica, con disturbi della coscienza, della memoria e del linguaggio, dimostrano che il livello di organizzazione molecolare, cellulare e dei sistemi di neuroni è indispensabile per il prodursi e il mantenersi di tutte quelle funzioni che, nel loro insieme, costituiscono ciò che chiamiamo la mente umana.
Cosa diversa è ipotizzare che i vari gradi di organizzazione della materia vivente possano avere un riflesso nelle unità elementari che le costituiscono: in altre parole, che le particelle degli atomi che formano le cellule e gli organi di un corpo posseggano traccia di questa appartenenza. Una tale suggestiva idea dovrebbe essere posta al vaglio di rigorosi esperimenti controllati, se la sperimentazione desse esito positivo si potrebbe avviare un iter sperimentale per conoscere il modo in cui livelli tanto distanti quanto, ad esempio, gli elettroni di un atomo di idrogeno di un aminoacido di una molecola di gastrina e la funzione di digestione di una bistecca, siano in rapporto. Non tutti sanno che l’idea di un’influenza della struttura elettronica sulle proprietà dei composti biologici era venuta allo scopritore della vitamina C, Szent-Györgyi, il quale, dopo un entusiastico avvio della sperimentazione, peraltro rimasta sempre priva di risultati, decise di abbandonare il progetto riconoscendone l’inconsistenza teorica.
Un altro esempio di quelle costruzioni ipotetiche sulla coscienza che Pauli avrebbe definito “nemmeno sbagliate” è un’azzardata idea nello stile di certe interpretazioni antropologiche o paleontologiche sull’origine di abilità tipiche della nostra specie. Secondo tale speculazione, la coscienza non sarebbe conseguenza della progressiva evoluzione cerebrale nei primati, ma sarebbe emersa nella specie umana soltanto poche migliaia di anni fa, in conseguenza del costituirsi del pensiero verbale. Gli esseri umani avrebbero creduto che il prodursi di pensieri fatti di parole nella propria mente (spoken narratives) fosse di origine metafisica ed avesse una provenienza divina (gods), fino ad una data epoca in cui si sarebbero resi conto dell’appartenenza a se stessi di tali voci. Questo improvviso riconoscimento rappresenterebbe l’evento fondamentale nella nascita della coscienza. Naturalmente non si spiega come persone in grado di compiere astrazioni quali quella di attribuire a delle divinità di tipo pagano dei messaggi prodotti dalla propria mente, non avessero la capacità di distinguere il sé psichico dal non-sé: abilità che è risultata presente a vari livelli in molte specie animali.
Non ci sentiamo di biasimare quegli scienziati che liquidano come nonsense tali congetture.
Passando, invece, ai seri sforzi di elaborazione teorica compiuti in seno alla ricerca neuroscientifica, per comprendere cosa sia la coscienza e come sia prodotta dal cervello, si possono riconoscere due grandi quadri di riferimento teorico ai quali è possibile ricondurre la maggior parte delle ipotesi con un preciso fondamento sperimentale:
Integrated Information
Theory (IIT) e
Global Workspace Model (GWM).
2.1. Integrated Information Theory (IIT). In breve, la IIT impiega un’espressione matematica per rappresentare l’esperienza cosciente e deriva previsioni circa quali circuiti cerebrali siano essenziali per produrre questa esperienza. Fra i maggiori sostenitori della IIT vi è Giulio Tononi, psichiatra e neuroscienziato che conosciamo ed apprezziamo da tempo, da quando era alla Scuola Normale Superiore di Pisa, prima dei suoi studi alla Wisconsin-Madison sulla genetica del sonno e sui modelli artificiali delle connessioni talamo-corticali. Tononi, che è stato a lungo collaboratore di Gerald Edelman, ha lavorato a questa teoria con il già menzionato Christof Koch dell’Allen Institute for Brain Science di Seattle.
2.2. Global Workspace Model (GWM). Il modello funzionale GWM della coscienza si sviluppa in direzione opposta, perché il suo punto di partenza è costituito da esperimenti comportamentali che manipolano l’esperienza cosciente di persone volontarie, in una condizione di prova rigorosamente definita e minuziosamente controllata, durante la quale si cerca di identificare le aree dell’encefalo attive.
La prima formulazione di un modello funzionale della coscienza basato su uno “spazio di lavoro globale” si deve a Bernard Baars, uno scienziato cognitivo del prestigioso Neurosciences Institute di La Jolla in California, il quale ha concepito la sua idea prendendo spunto da un’esperienza sviluppata in seno all’Intelligenza Artificiale (IA). In sintesi, in un progetto di IA, un insieme di programmi specializzati poteva accedere ad un deposito comune di informazioni detto “lavagna” (blackboard): Baars ha ipotizzato che la “messa in onda dei dati della lavagna” attraverso un sistema di computazione, sia cibernetico sia biologico, che metta a disposizione di sistemi specializzati e integrati il contenuto informativo, costituisca il nucleo funzionale della dimensione consapevole dell’agire psichico. In altri termini, la coscienza consisterebbe nella condivisione estesa a tutto il cervello dell’informazione che è nel buffer di memoria della “lavagna”.
Un tale buffer neurale, che possiamo immaginare come una memoria a breve termine attiva o come una working memory globale, secondo il GWM non si limita ad elaborare gli stimoli sensoriali in entrata, ossia l’input percettivo recente, ma costituisce un sistema in grado di richiamare memorie, anche risalenti ad un passato remoto, riportandole nell’attualità funzionale. Una volta che l’informazione è stata “caricata” in questo spazio di lavoro, uno spettro di potenti processi cognitivi ne può fare uso. Ad esempio, oltre a generare azioni finalizzate, può essere inviata ad un set di circuiti specializzati per l’elaborazione del linguaggio verbale, consentendone l’uso per la comunicazione, o trasmessa ai sistemi neuronici dedicati alla pianificazione, perché la impieghino in un ragionamento in proiezione futura o, infine, immagazzinata nella memoria a lungo termine.
Stanislas Dehaene, autore del volume che ha motivato questo scritto e del quale dirò nel prossimo paragrafo, è considerato il principale sostenitore del GWM.
3. La coscienza e il cervello: decifrare come il cervello codifica i nostri pensieri (Stanislas Dehaene, Consciousness and the Brain: Deciphering How the Brain Codes Our Thoughts. Viking Adult, 2014). Stanislas Dehaene, che attualmente svolge attività didattica e di ricerca neuroscientifica presso il Collegio di Francia a Parigi, è un matematico di talento progressivamente passato alla neuropsicologia e alle neuroscienze cognitive anche grazie ad una formazione con Jean-Pierre Changeux in neurobiologia, con Laurent Cohen in neuropsicologia e Jacques Mehler in psicologia cognitiva. Dehaene, che negli anni Novanta ha avuto un periodo di grande notorietà per un saggio sulle basi mentali e cerebrali dell’aritmetica[12], ha dedicato la maggior parte della sua carriera allo studio dei processi che costituiscono la coscienza.
Consciousness and the Brain è in massima parte centrato sulle ricerche condotte da Dehaene e i suoi collaboratori, che Christof Koch ha efficacemente introdotto prendendo le mosse dal rapporto fra il workspace della coscienza e i processi cognitivi non coscienti che integrano quelli consapevoli[13].
Lo spazio di elaborazione globale, che corrisponderebbe alla base neurofunzionale della coscienza, sembra avere una capacità di ritenzione molto limitata. D’altra parte, è tanto una nozione classica quanto un’esperienza comune, che si può essere coscienti di uno o pochi elementi per volta, a dispetto della nostra capacità di includere o escludere rapidamente dalla coscienza una grande quantità di cose. Le nuove informazioni possono entrare in competizione con le vecchie e, come si verifica nei sistemi elettronici, può accadere che si sovrascrivano.
Questo limite è stato interpretato come un’inevitabile conseguenza delle caratteristiche di struttura e configurazione di qualsiasi sistema di elaborazione dell’informazione che sia sovraccaricato da flussi di dati in entrata, e sia concepito per concentrare le sue più preziose risorse nel trattamento più veloce possibile di un paio di elementi critici per volta. Il cervello, secondo l’interpretazione corrente, compensa l’insufficienza della base di elaborazione cosciente reclutando delle routines di processi neurali non coscienti in grado o di aggirare i sistemi del GWM o di interagire con questi al di sotto del livello della coscienza. Una vasta mole di dati subliminali è responsabile, ad esempio, della conversione di suoni vocali in parole e discorsi di senso compiuto, o di fotoni legati all’immagine nell’identità di persone conosciute. Tali processi non coscienti valutano e ponderano l’evidenza, giudicano e sincronizzano i movimenti avviati dal sistema muscoloscheletrico, favorendo la sopravvivenza di un organismo in un mondo in costante e rapida evoluzione. Caratteristica di queste sofisticate e rapide routines funzionali, in condizioni ordinarie, è la mancanza sia di condivisione delle informazioni che di trasmissione allo spazio di lavoro globale: sembra che tali trasferimenti avvengano solo su una base di stretta e specifica necessità.
Si ritiene che una miriade di tali processi, in gran parte automatici e del tutto non coscienti[14], diano forma all’agire psichico e comportamentale della nostra vita quotidiana. Non è superfluo notare che la mancanza di accesso ha determinato una straordinaria sottovalutazione di questa dimensione subliminare, fino a quando non è stata indagata dalla ricerca neuroscientifica.
Dehaene ha messo alla prova l’importanza di questi processi non coscienti nell’elaborazione di stimoli visivi mediante una tecnica di mascheramento (masking) classica che, prima dell’avvento dei computer, era posta in essere grazie all’impiego del tachiscopio, uno strumento in grado di presentare immagini per una frazione di secondo, cioè un tempo troppo breve perché un osservatore possa riuscire realmente a vedere l’immagine mediante la percezione cosciente, ma sufficiente all’elaborazione non consapevole. Negli esperimenti tipici, la riproduzione di un volto o di una parola scritta con caratteri ben evidenti, sono presentati su uno schermo per una durata temporale critica in millisecondi che li rende virtualmente invisibili, e sono preceduti e seguiti da “maschere”, ovvero nubi di “x” o ammassi di linee con orientamento casuale, coscientemente percepiti dall’osservatore. In tali condizioni, chi osserva lo schermo riferisce di aver visto solo le maschere, ma i suoi processi inconsci hanno rilevato, registrato e brevemente elaborato, anche l’immagine invisibile.
Dehaene e i suoi colleghi hanno adottato varie versioni di questa tecnica in esperimenti effettuati con volontari monitorati per varie forme di disturbo epilettico mediante elettrodi che consentono la registrazione profonda dell’attività cerebrale momento per momento. In tal modo, hanno rilevato e provato oltre ogni ragionevole dubbio, che il cervello elabora inconsciamente stimoli visivi secondo conoscenze linguistiche, semantiche e cognitive tipiche dell’elaborazione cosciente. Ad esempio, i sistemi neuronici cerebrali rispondono a “happy war” (guerra felice) diversamente che a “happy love” (amore felice), in modo tale da suggerire l’avvenuto rilievo di una incongruenza fra la prima parola (in inglese l’aggettivo “felice”), dal valore semantico positivo in senso affettivo, e la seconda parola legata a morte e distruzione.
Nei loro studi, Stanislas Dehaene e Jean-Pierre Changeux si sono prefissi l’obiettivo dell’identificazione dell’esatta base neurobiologica del GW, cercando di definire le popolazioni neuroniche e le aree cerebrali specificamente implicate nei processi coscienti. La ricerca che stanno conducendo da tempo[15], impiegando l’imaging funzionale e le registrazioni elettroencefalografiche dell’attività cerebrale, ha riconosciuto degli specifici contrassegni neurali nelle regioni che sembrano corrispondere a quello spazio di lavoro teorizzato.
In uno studio del 2001, Dehaene e colleghi, registrarono un correlato funzionale della coscienza ponendo a confronto l’elaborazione cosciente e non cosciente di parole, come si legge nella trascrizione di una nostra relazione del 2003: “Questi due eleganti profili di ragazza, perfettamente delineati sul grigio sfumato dalla luce della risonanza magnetica funzionale, mostrano il confronto fra lo stato di attivazione dell’emisfero sinistro nell’elaborazione cosciente e non cosciente di parole. Nella prima scansione sono evidenziate in verde, oltre al giro fusiforme, varie aree distribuite sulla superficie cerebrale, dalla corteccia prefrontale ai territori posteriori, corrispondenti alla rete di circuiti locali attivi nei processi coscienti. Nella seconda scansione, tutta la superficie emisferica è spenta, ad eccezione di una piccolissima area parietale e del giro fusiforme, evidenziato in rosso per la sua attività nell’elaborazione verbale non cosciente”[16].
In un esperimento classico, Dehaene e colleghi presentarono su uno schermo di computer una sequenza di parole, ciascuna per 29 millisecondi, a dei volontari sottoposti a scansione cerebrale mediante risonanza magnetica: le parole mascherate evocavano un’attivazione minima, mentre quelle giunte alla coscienza dei soggetti inducevano l’attività di molte aree distribuite sulle superfici encefaliche esplorate. Le regioni attivate componevano, principalmente mediante i neuroni piramidali, una sorta di mosaico di densi gruppi di cellule nervose interconnesse che teneva insieme la corteccia prefrontale, il lobo parietale inferiore, le porzioni mediali e anteriori dei lobi temporali ed altre aree minori. Verosimilmente, gli assoni cortocifughi dei neuroni piramidali di proiezione, che dalla corteccia vanno ai nuclei e alle altre formazioni grigie del sistema nervoso centrale, estendono la rete dello spazio di lavoro oltre la superficie corticale.
Nell’ambito di questo insieme di aree si è concentrato lo studio volto a definire sia il “blocco per appunti” o “lavagna funzionale”, sia il modo in cui il flusso di segnali prodotti all’interno di questo sistema è trasmesso al resto dell’encefalo.
Si è accertato che, quando uno stimolo è percepito coscientemente, la sua impronta neuronica, costituita da un particolare tipo di attività cerebrale, si manifesta in molte aree della corteccia cerebrale. Si prenda ad esempio l’intensa attività elettrica generata da un’immagine nella corteccia visiva primaria del lobo occipitale (V1 o area 17 di Brodmann) e, progressivamente, nelle altre zone di elaborazione corticale che seguono[17]: quando i segnali raggiungono le regioni anteriori dei lobi frontali, crescono talmente in ampiezza da aver indotto Dehaene a parlare di un effetto a “valanga neuronica” (neuronal avalanche).
Un tale effetto è ben noto, e da molto tempo, ai ricercatori che indagano i potenziali elettrici corticali evocati da eventi e, in particolare, l’onda positiva (P) che si generalizza dopo 300 millisecondi (P300) da uno stimolo cognitivamente rilevante, e perciò detta anche potenziale cognitivo, in contrasto con i potenziali evocati puramente percettivi (visivi, uditivi) che rimangono confinati intorno a tempi non lontani dai 100 millisecondi. Sembra che la P300 non sia un indice generico di attività cerebrale in risposta a stimoli percettivi. Se dico: “Le monete si mettono nel portamonete”, apparirà un’onda positiva dopo circa trecento millisecondi (P300) nel cervello di un mio ipotetico ascoltatore sottoposto a rilievo di potenziali evocati. Se dico: “Le monete si mettono nella minestra”, dopo altri cento millisecondi dalla P300 comparirà un’onda negativa (N400) che esprime il correlato neurale dell’incongruità semantica. L’onda P300 compare, naturalmente, nell’elaborazione di immagini appena percepite.
Questo reperto classico della neurofisiologia corticale ha rapporto con l’attività del GW? Secondo quanto emerso dagli esperimenti condotti da Dehaene e colleghi sembra proprio di si: seguendo il divenire cosciente di una percezione visiva o acustica, mentre viene trasmessa al resto del cervello dalle aree appartenenti al GW secondo Dehaene, si è visto che il processo va spesso di pari passo con la formazione della P300 nella corteccia prefrontale, regione cerebrale associata ai processi cognitivi più elevati. Più precisamente, si è rilevato che l’elaborazione cosciente dello stimolo è associata allo sviluppo dell’onda P300 nei territori della corteccia prefrontale e, in altri esperimenti, si è accertato che la preclusione alla genesi della P300 distintiva di uno stimolo, quale un’immagine, non ne consente la percezione cosciente. Verosimilmente, senza i processi che si manifestano attraverso l’onda positiva dopo circa 300 millisecondi, l’informazione non riesce ad entrare nel GW e così rimane subliminale.
Dehaene, con Sid Kouider del Laboratorio di Scienze Cognitive e Psicolinguistiche della Scuola Normale Superiore di Parigi e vari altri colleghi danesi e francesi, ha impiegato questo marker elettrofisiologico di percezione cosciente per studiare il comportamento elettrico del cervello di 80 bambini, divisi in tre gruppi per età: 5 mesi, 12 mesi e 15 mesi. Gli interessanti risultati di questo studio, presentati da alcuni editorialisti scientifici come la prova dell’esistenza della coscienza già nelle fasi più precoci della vita, sono stati discussi lo scorso anno in uno scritto al quale si rimanda il lettore[18]; qui si vuole solo ricordare il rischio insito nell’attribuire alla P300 il significato di marker della coscienza: è stato provato solo nell’adulto che quell’onda si associa ad elaborazione cosciente, nel bambino potrebbe riflettere un processo simile ma non identico nell’aspetto della consapevolezza.
Il nuovo libro di Dehaene riferisce di un altro importante obiettivo perseguito dall’autore con i suoi colleghi: realizzare un test per valutare la funzione di coscienza in quei pazienti con i quali non è possibile, per un grave danno cerebrale, stabilire una comunicazione mediante le parole, i gesti o gli occhi. Partendo dall’ipotesi che il potenziale positivo che segue l’elaborazione percettiva dopo circa trecento millisecondi sia un segno rivelatore di attività della coscienza, i ricercatori hanno provato ad identificare un profilo normale di risposta agli stimoli mediante l’onda P300, per poi verificare se questo è presente in alcuni casi di coma.
Lo studio ha preso le mosse da un aspetto caratteristico della fisiologia delle nostre risposte coscienti: un nuovo stimolo percettivo che funge da segnale, come udire lo squillo del telefono o il campanello della porta mentre siamo intenti in un’attività che assorbe la nostra attenzione, induce la genesi di un’intensa P300 diffusa a tutto la superficie dell’encefalo. Se decidiamo di non reagire allo stimolo, ignorando il richiamo acustico che si ripete, l’onda elettrica si riduce, fino a quando non sarà più rilevabile. L’onda elettrica associata all’attività cosciente si produce anche quando ad una breve serie monotona di stimoli uguali segue uno stimolo diverso.
Ad esempio, in laboratorio è stata sperimentata la sequenza di cinque brevi suoni come piccoli segnali acustici, costituiti da quattro toni uguali seguiti da uno diverso: beep, beep, beep, beep, boop. Il boop generava un’estesa P300. Come era facile prevedere, anche a questo schema il cervello risponde con un adattamento; interessante notare che la risposta adattativa intervenga dopo solo tre ripetizioni: alla terza ripetizione della sequenza, il boop non era più in grado di evocare l’onda associata alla coscienza. E se si ripristina la sequenza originaria senza il boop? I ricercatori hanno rilevato che al quarto invio dei segnali, la successione con i 5 beep, con l’ultimo beep induceva la P300: evidentemente, il cervello aspettandosi il boop, registra come “segnale” il beep.
Complessivamente, questo schema di risposte è stato riscontrato come pattern normale nei soggetti studiati e, pur non disponendo di conferme su grandi numeri, Dehaene e colleghi hanno deciso di sperimentarlo come test per studiare le risposte in condizioni patologiche. I risultati preliminari sembrano incoraggianti: i pazienti ai quali era riconosciuto un livello di coscienza minimo, sulla base di evidenze neurologiche, presentavano questo schema di risposta della P300; al contrario, coloro che erano in coma non facevano registrare nulla di simile.
Il prosieguo della sperimentazione si propone il fine di ottenere un test della P300 in grado di risolvere almeno una parte di casi dubbi, e sensibile al punto di rilevare, quando presente, una sia pur minima attività di coscienza nei casi di coma considerati irreversibili sulla base dei criteri clinici attuali. Una risposta positiva ad un affidabile test della P300 in un paziente in una condizione comportamentale apparentemente senza uscita, potrebbe costituire un’indicazione prognostica favorevole ed incoraggiare gli interventi volti a stimolare il recupero della coscienza.
Intanto, per acquisire una migliore conoscenza del significato neurofunzionale di base delle onde associate alla coscienza umana, si stanno conducendo esperimenti volti a verificare, nella scimmia e nel topo, l’esistenza di uno schema di risposta simile a quello del test della P300 in sperimentazione sull’uomo.
Ritornando alla tesi di fondo di Consciousness and the Brain, ossia che ciò che noi sperimentiamo coscientemente può essere definito come la conseguenza della capacità del cervello di trasmettere l’informazione dal buffer di memoria della “lavagna” alle altre regioni dell’encefalo, notiamo che questa concezione solleva vari interrogativi.
Seguendo Cristof Koch possiamo formulare le domande in questo modo: perché e come l’informazione “mandata in onda” dal GW dà origine alla coscienza? In cosa consiste il messaggio che viene trasmesso? Tutto il sistema di segnalazione chimica che va dagli ormoni ai neurotrasmettitori e quello di segnalazione elettrica che consente la trasmissione sinaptica, costituiscono nel loro insieme un livello di informazione e messaggio del quale non siamo consapevoli, dove si situa e in cosa consiste la specificità fisiologica che crea la coscienza?
Invece, non seguiamo Koch quando pone questa domanda: può essere considerata attività cosciente l’informazione trasmessa lungo il sistema nervoso di un verme o attraverso internet? Quest’ultima domanda è per noi improponibile perché, sebbene non si abbia una definizione scientificamente precisa, il concetto di coscienza per noi - e per Dehaene - non coincide con quello di semplice informazione trasmessa, ma si riferisce ad un particolare stato dell’agire mentale che esprime, in varia misura, consapevolezza di sé, del mondo e del tempo.
Gli altri interrogativi rimangono in campo, come parte di una domanda unica, che rappresenta la maggiore sfida per le neuroscienze di questa epoca e alla quale si sta cominciando a dare qualche prima generica risposta: quali sono le basi neurofunzionali della nostra esperienza cosciente?
L’autore della nota ringrazia i
professori Perrella e Lanfredini (lo scritto avrebbe potuto e dovuto recare
anche la loro firma), con i quali ha lungamente discusso l’argomento trattato e
dai quali ha ricevuto correzioni ed integrazioni significative, ed esprime la
sua gratitudine alla dottoressa Isabella Floriani che, nella correzione della
bozza, è intervenuta migliorando notevolmente lo stile della prosa e
l’organicità del testo. Infine, l’autore invita alla lettura dei numerosi
scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] Si tratta di un’evidenza, come già faceva notare il Premio Nobel Sir John Eccles nel suo celebre saggio Facing reality (affrontare la realtà), pubblicato a New York nel 1970: la capacità di coscienza ed autocoscienza costituisce un divario incolmabile fra noi e le altre specie animali. Molti ricercatori hanno però letto nelle tesi di Eccles una forma di “dualismo cartesiano” fra anima (coscienza) presente solo nell’uomo e corpo (cervello) condiviso con gli altri animali.
[2] Dopo William James, che concepì per la prima volta la coscienza come un processo, lo studio psicologico ha avuto nel Novecento una sua identità che può essere metonimicamente rappresentata dalle due edizioni di un saggio di Daniel C. Dennet (Content and Consciuosness, Routledge & Kegan Paul, London 1969; 1986).
[3] Bergson H., Introduzione alla metafisica (1903), p. 9., Editrice La Scuola, Brescia 1970.
[4] Merleau-Ponty M., Elogio della filosofia (1953), pp. 14-15, Paravia, Torino 1958.
[5] Merleau-Ponty M., op. cit., p. 21.
[6] Cfr. Detienne M. & Vernant J. P., Les ruses de l’intelligence – La mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974.
[7] Tutti i temi appena accennati in questa introduzione sono svolti approfonditamente nella raccolta di scritti del Seminario sull’Arte del Vivere (BM&L-Italia, Firenze 2005-2014).
[8] Rose S., Il cervello e la coscienza (The conscious brain), p. 164, Mondadori (EST), Milano 1973. La s in parentesi sta per sinapsi.
[9] Rose S., op. cit., 165.
[10] Changeux J.-P., L’uomo neuronale, p. 173, Feltrinelli, Milano 1998 (sesta edizione; prima ed. ital.: 1983, da L’homme neuronal, Libraire Arthème Fayard, 1983). Questo libro nacque da un colloquio di Jean-Pierre Changeux con lo psicoanalista lacaniano Jacques-Alain Miller e i suoi colleghi della rivista “Ornicar?”: uno degli scopi era misurare e ridurre la distanza fra le scienze del cervello e il sapere sulla mente sviluppato in seno alla psicoanalisi.
[11] Cfr. Edelman G. M., Il Presente Ricordato. Una teoria biologica della coscienza. Rizzoli, Milano 1991 (The Remembered Present. A Biological Theory of Consciousness, Basic Books, New York 1989). Edelman ha illustrato le sue tesi sulle basi biologiche della coscienza in numerose opere, fra cui Neural Darwinism. A Theory of Neuronal Group Selection, Basic Books, New York 1987 [ed. It.: Einaudi, Torino 1995]; Bright Air, Brilliant Fire: On the Matter of the Mind, Basic Books, New York 1992 [ed. It.: Adelphi, Milano 1993]. Un volumetto di più facile lettura, privo di riferimenti bibliografici nel testo, è consigliato ai lettori non specialisti: Edelman G. M., Più grande del cielo. Lo straordinario dono fenomenico della coscienza. Einaudi, Torino 2004.
[12] Dehaene S., The Number Sense. How the Mind Creates Mathematics. Penguin Books, 1999 (prima edizione negli USA per conto della Oxford University Press, New York 1997).
[13] Cfr. Koch C., Keep it in mind.
Scientific American Mind (May-June) 25
(3): 26-29, 2014.
[14] Oggi si tende a definirli inconsci, facendo riferimento ad un modello neurobiologico della mente che considera inconscio tutto ciò che non è cosciente, senza alcun riferimento all’inconscio della psicoanalisi.
[15] Il progetto è ancora in corso e si spera possa fornire a breve nuovi risultati.
[16] Perrella G., et al., Correlati neurofunzionali della coscienza, p. 3, BM&L, Firenze 2003; in riferimento allo studio: Dehaene S., et al., Cerebral mechanisms of word masking and unconscious repetition priming. Nature Neuroscience 4 (7): 752-758, 2001.
[17] Si ritiene che almeno 32 aree cerebrali elaborino la percezione visiva.
[18] Note e Notizie 02-11-13 La coscienza a cinque mesi e fino a un anno e tre mesi. Si raccomanda vivamente la lettura di quella nota che, oltre a recensire il lavoro di Dehaene, nella discussione sui correlati neurofunzionali della coscienza cita un’illuminante riflessione di Giuseppe Perrella.