Memoria di riconoscimento indipendente dall’Ippocampo
NICOLE CARDON & GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 05 luglio 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Due grandi epopee hanno segnato la storia della ricerca sulla memoria: lo studio dei casi di lesioni cerebrali e l’identificazione delle basi molecolari della ritenzione a breve e a lungo termine di un’esperienza. La prima, che aveva avuto inizio con le osservazioni neurologiche e neuropsicologiche di pazienti amnesici, ha avuto nel secolo appena trascorso un grande protagonista nel paziente di Brenda Milner, H. M., al quale era stato asportato chirurgicamente l’ippocampo[1]. La seconda, nata in seno agli studi di neurobiologia molecolare del comportamento, ha avuto nel laboratorio di Eric Kandel il principale punto di riferimento per la scoperta, nel mollusco Aplysia californica, del meccanismo a breve termine mediato da AMP-ciclico, e di quello a lungo termine che richiede sintesi proteica.
La memoria è una “caratteristica di sistema” - ripete sempre Gerald Edelman - e ciascun sistema, da quello molecolare degli acidi nucleici a quelli delle reti neuroniche, ha la sua memoria; ma, quando si parla di memoria umana, prevalentemente ci si riferisce alla nostra capacità di conservare ricordi autobiografici (memoria episodica) e nozioni di utilità scolastica, professionale, esistenziale (memoria semantica), nelle forme esplicite o dichiarative a tutti note; un po’ meno si pensa alle forme di “memoria implicita”. Gli studi di neurofisiologia e neuropatologia della memoria umana sono stati a lungo focalizzati sull’ippocampo che, in epoca recente, ha rivelato un’estesa e complessa partecipazione a numerose funzioni cerebrali.
Il danno dell’ippocampo sembra essere all’origine di deficit di memoria per tutti i tipi di esperienza riscontrati diagnosticamente e sottoposti a verifica neuropsicologica: oggetti, suoni, parole e odori. Rimane, tuttavia, poco definito il ruolo dell’ippocampo nella memoria che consente il riconoscimento dei volti: la sua importanza nella formazione del ricordo risulta provata da numerose evidenze, ma alcuni studi non sembrano confermare questo ruolo. D’altra parte, il rapporto della funzione ippocampale con l’area corticale dei volti, il cui danno compromette l’abilità di riconoscere anche persone di famiglia, non è ancora compreso.
Infine, si ricorda che nella nostra specie, come negli altri primati, esiste un sistema neuronico dedicato per l’elaborazione dei volti: tale sistema prevede un collegamento con l’amigdala specifico per la comprensione delle emozioni espresse dalla mimica facciale[2].
Un team di ricercatori statunitensi e norvegesi guidati da Larry R. Squire ha indagato la memoria per il riconoscimento dei volti in pazienti con lesioni specificamente localizzate all’ippocampo o ampiamente estese lungo la superficie mediale del lobo temporale, e perciò includenti la formazione ippocampale. Lo studio ha evidenziato un’inequivocabile conservazione della capacità di riconoscere facce nuove da parte dei pazienti ippocampali, anche se solo per un breve intervallo temporale. In questi stessi pazienti volontari, la memoria di riconoscimento per parole, immagini di edifici, visi di persone famose e volti semplicemente invertiti nell’orientamento, era decisamente compromessa. In coloro che presentavano lesione estesa della parte mediale del lobo temporale, la memoria era deficitaria in tutte le condizioni.
Ordinariamente
i giudizi di memoria di riconoscimento dipendono dall’associazione fra gli
elementi dello studio ed il contesto dello studio stesso: Larry R. Squire,
Christine N. Smith e gli altri colleghi ipotizzano che la memoria per i volti
era risparmiata perché l’elaborazione cerebrale dell’immagine dei visi è specializzata (e allo stesso tempo olistica), e i giudizi di riconoscimento
formulati dai pazienti erano indipendenti dal contesto dello studio (Smith C. N., et al. When recognition memory is independent of
hippocampal function. Proceedings of the
National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1409878111,
2014).
La provenienza degli autori dello
studio è la seguente: Departments of Psychiatry, Neurosciences and Psychology,
University of California, San Diego, La Jolla, California (USA); Veterans
Affairs San Diego Healthcare System, San Diego, California (USA); The Center
for Child and Adolescent Mental Health, Eastern and Southern Norway, Oslo
(Norvegia); Department of Psychology and Neuroscience Center, Brigham Young
University, Provo, Utah (USA); Department of Medicine, Pulmonary and Critical
Care Division, Intermountain Medical Center, Murray, Utah (USA).
Prima di riassumere i contenuti dello studio qui recensito, si propone una breve introduzione all’ippocampo, tratta da una relazione del nostro presidente.
“Fu Giulio Cesare Aranzi, medico veneziano e neuroanatomista ante litteram, che nel 1587 descrisse per la prima volta con il nome di ippocampo, ossia cavalluccio marino, la formazione corticale situata nella profondità mediale del lobo temporale e, a quell’epoca, posta in ipotetica relazione funzionale con il senso dell’olfatto. Poiché non sono poche le origini fantasiose e improbabili del termine hippocampus, che etimologisti improvvisati propongono nella pubblicistica neuroscientifica in lingua inglese, vale la pena precisare che Aranzi non intendeva evocare chissà quale mostro marino o il mitico cavallo con coda di pesce aggiogato al carro di Nettuno, ma aveva semplicemente scelto questa denominazione per la somiglianza della formazione corticale temporale con il cavalluccio marino (Hippocampus brevirostris): il simpatico animaletto acquatico la cui testa presenta un’elegante sagoma che ricorda quella del cavallo degli scacchi. L’etimo greco della parola viene dunque da ιππος, cavallo, e χάμπη, bruco, e indica che la sembianza equina riguarda una specie più vicina per dimensioni a un bruco che a un mammifero quadrupede.
L’ippocampo o Corno d’Ammone, secondo la neuroanatomia classica, è una struttura dell’archipallio[3] che si continua in una circonvoluzione del neopallio quale il giro paraippocampico. […] Le descrizioni anatomiche più recenti considerano la formazione dell’ippocampo, costituita dal giro dentato, dall’ippocampo propriamente detto, dal complesso del subiculum e dalla corteccia entorinale. […] L’ippocampo propriamente detto è costituito da archicorteccia trilaminare, in cui un singolo strato di cellule piramidali è compreso fra due strati plessiformi. Ordinariamente è ripartito in tre regioni o campi: CA1, CA2 e CA3…”[4].
Alla luce delle conoscenze attuali, che tendono a riconoscere nella multipla e dinamica interazione fra reti di neuroni la base della cognizione, degli affetti e delle emozioni, ci si potrebbe chiedere perché nella ricerca su memoria e apprendimento si tenda a riferirsi alla regione anatomica dell’ippocampo come se fosse una sede specifica e circoscritta di queste facoltà.
Lo studio anatomoclinico del cervello, che ha avuto il suo massimo sviluppo fra l’Ottocento e il Novecento, si basava sull’identificazione della causa dei sintomi clinici nelle lesioni anatomiche macroscopiche, accertate dopo la morte mediante esame necroscopico dell’encefalo in corso di autopsia. In questo modo, Broca e Wernicke avevano riconosciuto le sedi corticali delle lesioni dell’afasia motoria e dell’afasia ricettiva o sensoriale. Questo paradigma culturale, storica base della neuropsicologia, sebbene con qualche adattamento, ha resistito a lungo. Al mutare delle metodiche di studio e diagnostiche, prima fra tutte la RMN che ha consentito valutazioni in vivo e verifiche del trattamento, sono cambiati anche i presupposti e le prospettive; tuttavia, la tentazione localizzatrice ha continuato a sedurre molti.
Di fatto, nessun ricercatore considerava l’ippocampo un “organo della memoria”, ma la massima parte delle ricerche assumeva esplicitamente o implicitamente che i processi alla base dell’apprendimento concettuale e della formazione delle memorie cognitive dell’uomo, avessero sede nell’ippocampo. È vero che ormai da lungo tempo si è compreso che l’ordinata e schematica ripartizione in centri motori e sensoriali del midollo spinale, tipica dei livelli più bassi di organizzazione del sistema nervoso centrale, non ha un equivalente per le funzioni psichiche nel cervello, ma è pur vero che se si parla di paura ed altre emozioni, si pensa ai sistemi dell’amigdala, se si considera la pianificazione temporale dell’azione o la working memory, si pensa alla corteccia prefrontale, e se si vogliono studiare le basi delle memorie semantica, episodica e spaziale[5], si pensa all’ippocampo. Infine, se si può affermare che attualmente la cultura neuroscientifica è matura abbastanza da non cadere nella trappola localizzazionista, è pur vero che in molti casi la realtà sperimentale ci dice che senza ippocampo non c’è memoria.
Numerose conferme recenti delle innumerevoli testimonianze cliniche ed evidenze sperimentali accumulate nei decenni, consolidano la nozione di una compromissione estesa della memoria per lesione ippocampale; tuttavia, alcune accurate e ben documentate osservazioni nell’uomo hanno suggerito la possibilità che la memoria per il riconoscimento dei volti potrebbe essere risparmiata in molti casi. Per indagare questa possibilità, Christine Smith e i suoi colleghi coordinati da Larry R. Squire, hanno condotto cinque sessioni sperimentali con pazienti affetti da lesione ippocampale (H, da hippocampal patients) o lesioni molto estese della parte mediale del lobo temporale (MTL, da medial temporal lobe patients), inclusi pazienti dei quali erano disponibili informazioni neuroistologiche.
Come si è accennato in precedenza, nei pazienti H, ossia coloro che presentavano lesioni circoscritte alla regione ippocampica, l’abilità di riconoscere visi nuovi era sicuramente conservata ed esercitata efficacemente, ma solo per un breve intervallo di ritenzione. Compromessa la memoria di riconoscimento per le parole, per immagini di edifici, per facce invertite e volti di persone celebri. Per i pazienti MLT, ovvero quanti erano portatori di un danno di estese proporzioni al lobo temporale mediale, la memoria di riconoscimento era totalmente deficitaria per i materiali di tutte le modalità di esperienza testate e per tutti gli intervalli di ritenzione.
Su questa base si deve supporre che strutture encefaliche diverse dall’ippocampo, quali la corteccia peririnale, supportino il riconoscimento dei volti nei pazienti H in determinate condizioni.
La riflessione concettuale sui risultati emersi dallo studio, per il cui dettaglio si rimanda alla lettura integrale del testo dell’articolo originale, ha indotto Squire, Smith e colleghi ad ipotizzare che il ruolo dell’ippocampo nella memoria di riconoscimento è in stretto rapporto con il modo in cui le decisioni di riconoscimento sono attuate. In particolare, consideriamo le ragioni che hanno suggerito questa proposta interpretativa.
Nelle tipiche prove di riconoscimento che si impiegano in questo genere di ricerca, i partecipanti procedono formando associazioni fra un elemento dello studio, ovvero uno dei volti che hanno visto in quella circostanza e l’insieme dei volti, ossia la lista intera mostrata dallo specifico software sullo schermo di un computer. In altri termini, ciascuna delle facce dovrebbe essere associata all’intera sequenza vista in quella sessione. La decisione di riconoscimento presa dal volontario quando gli si chiede di riconoscere i volti visti distinguendoli da quelli non visti prima, sostanzialmente si basa sul fatto che il volontario creda di aver già visto con la sequenza precedente quell’elemento, oppure no. In altre parole, secondo un principio più generale che costituisce la ratio di questi esperimenti, dovrà dire se l’immagine che vede al testing di verifica appartiene alla lista dello studio. Squire e colleghi sostengono che il riconoscimento dei volti costituisca un’eccezione a questo principio e che, per brevi intervalli di ritenzione, i partecipanti possono prendere le proprie decisioni senza fare esplicito riferimento alla lista dello studio, ma basandosi sulla sensazione, astratta dalla circostanza, di conoscere o meno quel volto: una sensazione che non richiederebbe la mediazione dei sistemi ippocampali. Infine, gli autori dello studio osservano che il riconoscimento delle facce potrebbe costituire un’eccezione, sulla base del fatto che importanti elementi di caratterizzazione sembra che siano elaborati olisticamente, ossia come un insieme non scomposto analiticamente nelle parti che lo costituiscono, e perciò difficile da etichettare verbalmente.
A nostro avviso, i risultati di questo studio, così come l’ipotesi interpretativa avanzata, dovranno essere presi in seria considerazione da coloro che operano in questo campo ed è auspicabile che si proceda nell’approfondimento e nella verifica dei processi che verosimilmente rendono il riconoscimento dei volti un caso neurofisiologico a parte.
Gli autori della nota ringraziano
la dottoressa Floriani per la correzione della bozza ed invitano alla lettura
dei numerosi scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] Henry Molaison, pur incontrando quotidianamente la Milner, continuava a non riconoscerla, così evidenziando la sua incapacità di formare nuove memorie in assenza di ippocampo. Deceduto nel 2008, dagli anni Cinquanta è stato studiato tanto da divenire il caso più famoso della storia delle neuroscienze. Hans-Lucas Teuber del MIT, nel 1967 consentì a Donald G. Mackay di assistere per la prima volta ad un suo testing. Mackay, autore di un celebre volume sull’organizzazione della percezione e dell’azione (1987), ha ricordato H. M. in un recente articolo bene illustrato (Sci. Am. Mind 25 (3): 30-38, May/June, 2014), ma che non ci sentiamo di consigliare perché inaccurato (si legge, ad esempio, uno strafalcione quale la collocazione dell’ippocampo nel mesencefalo).
[2] Per inciso, questo sistema è oggetto di un interessante studio recensito questa stessa settimana da Lorenzo L. Borgia: Note e Notizie 05-07-14 Neuroni selettivi per le emozioni percepite nell’amigdala umana.
[3] La differenza citoarchitettonica fra archi- paleo- e neopallio rimane un dato certo, anche se la denominazione secondo questa terminologia, dovuta ad un’interpretazione filogenetica oggi non più ritenuta valida, è caduta in disuso.
[4] G. Perrella, La Ricerca della Memoria. Appunti di storia recente, p. 16, BM&L, Firenze 2010.
[5] Dall’identificazione delle cellule di luogo da parte di John O’Keefe e colleghi (1978) il rapporto fra rappresentazione spaziale e ippocampo è stato indagato per vari aspetti. La concezione neurofisiologica esposta nel volume di O’Keefe e Nadel, The Hippocampus as a Cognitive Map (1978), ha costituito un importante riferimento teorico per la ricerca delle tre decadi successive, fino ai giorni nostri. David Olton (1979) dimostrò la compromissione dell’apprendimento spaziale in topi con lesioni dell’ippocampo. Di passaggio si ricorda che Howard Eichenbaum ha a lungo promosso l’idea che il ruolo svolto nella memoria spaziale dall’ippocampo sia un esempio della sua funzione più generale, consistente nell’elaborazione alla base della memoria dichiarativa. Eichenbaum, insieme con Neahl Cohen (1993), ha sviluppato una riflessione teorica che identifica nella qualità di elaborazione relazionale la caratteristica specifica della memoria dichiarativa, che sarebbe in comune fra l’animale (sprovvisto di una memoria dichiarativa) e l’uomo (provvisto di coscienza dichiarativa in base alla quale in neuropsicologia è stato creato il concetto di memoria dichiarativa). Per ulteriori dettagli si veda G. Perrella, op. cit.