Una nuova era nella terapia cellulare del Parkinson
DIANE RICHMOND & LUDOVICA R. POGGI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 28 giugno 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]
Lo scorso venerdì 27 giugno si è tenuto un incontro di
aggiornamento sulla terapia cellulare della malattia di Parkinson, curato dal
gruppo strutturale della Società che studia lo sviluppo di nuovi neuroni e la
sperimentazione terapeutica con cellule staminali neurali. In ideale
prosecuzione dell’incontro del 14 giugno, questa sessione di studi ha avuto il
suo focus principale nella relazione
delle professoresse Richmond e Poggi, qui di seguito presentata in una sintesi
curata dalle stesse autrici (Isabella
Floriani).
Un decennio fa, il bilancio della terapia sperimentale della malattia di Parkinson con cellule staminali, era decisamente negativo; poi, negli anni seguenti, i progressi della ricerca di base hanno fornito strumenti importanti per nuovi sviluppi del trattamento mediante impianto di cellule. Attualmente sembra si sia in presenza di una svolta decisiva, che merita di essere conosciuta, almeno per ciò che concerne i passi che hanno immediatamente preceduto il determinarsi dello scenario attuale.
Shinya Yamanaka e colleghi dell’Università di Kyoto in Giappone, nel 2007 trovarono il modo di produrre staminali dalle cellule di tessuti di organismi adulti. La procedura, inizialmente applicata a cellule cutanee di topo pienamente differenziate, consisteva in una riprogrammazione biochimica in grado di far andare a ritroso il processo di differenziazione, conferendo le proprietà e i caratteri delle cellule staminali embrionali. Da queste “staminali artificiali” si poteva promuovere lo sviluppo di qualsiasi nuova linea di cellule mature, quali ad esempio i neuroni dopaminergici che vanno incontro a degenerazione nella malattia di Parkinson. Lo straordinario risultato di Yamanaka non fu recepito subito, ma, appena confermato ed accettato dalla comunità biologica internazionale, impose all’attenzione dei bioeticisti e dei legislatori di tutto il mondo la possibilità di superare tutti i problemi etici connessi con l’impiego di staminali embrionali. Infatti, il metodo consente di sviluppare una quantità potenzialmente illimitata di cellule staminali dalla cute della stessa persona che ha bisogno del trattamento[1].
Nel 2012 Yamanaka ottenne il Premio Nobel “per la Fisiologia o la Medicina”. Le cellule riprogrammate sono state battezzate “cellule staminali pluripotenti indotte” (induced pluripotent stem cells).
Intanto nel 2008, l’anno successivo alla prima sperimentazione della metodica ideata dal ricercatore giapponese, Isacson e colleghi riuscirono a creare neuroni dopaminergici del tipo A9 partendo da questi elementi cellulari artificialmente indotti ad assumere i caratteri delle cellule totipotenti dell’embrione. In modelli animali (topi e ratti) di malattia di Parkinson fu sperimentata la prima terapia sostitutiva con queste cellule A9 ottenute dalla cute degli stessi animali: i parametri funzionali e comportamentali equivalenti ai sintomi della malattia umana, presentarono un apprezzabile miglioramento.
Isacson e colleghi decisero, allora, di avviare la sperimentazione su primati “non-umani”. In una scimmia affetta da sintomatologia parkinsoniana farmacologicamente indotta, i ricercatori raccolsero le cellule cutanee, le riprogrammarono secondo la procedura di Yamanaka, portandole allo stato di pluripotenza, poi le differenziarono in neuroni dopaminergici equivalenti a quelli della substantia nigra umana, e le impiantarono nella sede encefalica dei neuroni degenerati.
La scimmia è stata monitorata per 2 anni: già dopo circa 8 mesi la sintomatologia parkinsoniana era del tutto scomparsa. Le scansioni PET dimostravano che i neuroni dopaminergici trapiantati erano in larga misura sopravvissuti, e si erano sviluppati formando numerose connessioni sinaptiche. In una conferenza tenutasi alla fine del 2013, Isacson e colleghi hanno presentato una sintesi dei risultati rilevati nella loro scimmia e, in particolare, lo studio istologico post-mortem che mostrava l’esteso sviluppo delle connessioni delle cellule dopaminergiche impiantate con i neuroni locali, attraverso tutta l’area interessata dalla patologia e dal trattamento.
Nello stesso tempo in cui sono stati comunicati gli esiti di questo studio, altri due gruppi dei quali facevano parte Su-Chun Zhang dell’Università di Wisconsin-Madison e lo stesso Yamanaka con il suo collega Jun Takahashi, hanno condotto esperimenti nelle scimmie con cellule staminali derivate da elementi differenziati adulti e poi riprogrammate come “cellule staminali pluripotenti indotte”. Tutti e tre i gruppi hanno di fatto dimostrato, pressoché inequivocabilmente, che le cellule trapiantate possono sopravvivere in numero elevato, completare la differenziazione nel tipo neuronico specifico da rimpiazzare ed integrarsi strutturalmente nelle reti encefaliche, in continuità anatomica e fisiologica con le strutture neurali e gliali presenti.
Si deve tuttavia osservare che la scimmia di Isacson è ancora l’unico esempio di risultato pienamente soddisfacente, perché ha presentato un reale recupero funzionale con guarigione della sintomatologia ed è stata osservata per due anni, ossia un periodo sufficientemente lungo perché si possa ritenere stabile e consolidato l’effetto terapeutico prodotto dalle nuove cellule.
Intanto, sono stati avviati nuovi studi con un maggior numero di scimmie, per testare sia l’innocuità che l’efficacia curativa dei neuroni derivati dalla “staminali di Yamanaka”. Solo dopo gli esiti, prevedibilmente favorevoli di questa sperimentazione su primati, si potranno ipotizzare trials clinici su volontari umani.
Le staminali “personali” non hanno però soppiantato quelle embrionali nelle scelte dei ricercatori, e presentano un aspetto problematico legato alle regolamentazioni di impiego. Le cellule non sono farmaci, né dispositivi medici quali protesi o apparecchi, pertanto l’autorizzazione al loro impiego è, in un certo senso, sui generis. Attualmente, le cellule staminali sono approvate per l’uso come linee cellulari: un set di elementi rinnovabili coltivati in un laboratorio e stimati innocui. Di fatto, le cellule nervose derivate dalle cellule di Yamanaka ottenute dal singolo paziente, costituiscono un nuovo tipo cellulare che richiede una specifica approvazione. Se si procedesse in clinica secondo questo criterio, la terapia avrebbe costi proibitivi. È necessaria una modificazione legislativa che recepisca in termini di buon senso la realtà biologica, e non si irrigidisca nell’applicazione formale delle norme vigenti. Una soluzione a questo problema potrebbe essere la definizione di un nuovo criterio, quale l’approvazione generica del processo di sviluppo delle “cellule staminali indotte” e dei loro derivati, invece di sottoporre ad approvazione, come fossero dei nuovi farmaci, le singole linee cellulari, ciascuna delle quali sarà impiegata solo nel paziente dal quale proviene.
Anche in considerazione di questi problemi si continua a guardare con interesse alla ricerca sulle staminali embrionarie, ossia le cellule pluripotenti naturali.
Lorenz Studer, biologo del Memorial Sloan Kettering Cancer Center, e i suoi collaboratori, nel 2011 sono riusciti ad indurre con successo la differenziazione di cellule embrionali umane in neuroni dopaminergici. Queste cellule, trapiantate in topi, ratti e scimmie con sintomi parkinsoniani, sono sopravvissute ed hanno determinato recupero funzionale.
Studer, che ha pianificato il primo studio clinico di terapia del Parkinson con cellule derivate da staminali embrionarie, ha recentemente ricevuto un finanziamento di 15 milioni di dollari per perfezionare la sua tecnica e generare linee cellulari basate sulle linee-guida GMP (good manufacturing practice).
In un trial in preparazione, il gruppo di Barker dell’Università di Cambridge impianterà cellule originate da staminali embrionarie nel cervello di 20 pazienti e seguirà, come controllo, 130 altri pazienti la cui malattia di Parkinson evolve naturalmente. Questi ricercatori, avendo fatto tesoro di errori e limiti delle precedenti esperienze[2], impiegano ancora tessuto fetale, ma hanno affinato la procedura di selezione dei pazienti, migliorato preparazione tessutale e tecnica di impianto, e ripensato durata e modalità del follow-up multicentrico che realizza il progetto. La ricerca cui afferisce questo lavoro, il TransEuro Study, è finalizzato alla dimostrazione dell’efficacia della terapia cellulare[3].
La ricerca e la sperimentazione terapeutica con staminali proseguono e si spera che in tempi non troppo lunghi possano fornire migliori risposte al bisogno di cura di una malattia neurodegenerativa tanto frequente e che in tutto il mondo è stata riconosciuta, nel suo devastante potere di generare sofferenza, attraverso la sublime immagine del Papa Giovanni Paolo II, recentemente canonizzato.
Le autrici della nota invitano
alla lettura dei numerosi scritti di argomento connesso che appaiono sul sito
e, in particolare, delle recensioni di lavori pubblicati nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] In proposito, non occorre sottolineare l’eliminazione di qualsiasi problema di compatibilità immunitaria.
[2] Si veda anche la menzione nella lettera di Stuart Butler pubblicata sul sito nella sezione “IN CORSO”.
[3] La terapia cellulare potrebbe essere a breve superata da quella genica. All’inizio di quest’anno sono stati pubblicati i primi risultati della sperimentazione clinica della terapia genica della malattia di Parkinson. All’Imperial College di Londra sono stati introdotti nei neuroni dello striato di pazienti parkinsoniani geni codificanti enzimi che catalizzano la produzione di dopamina. I risultati fanno ben sperare.