Correlati neurofunzionali del rimpianto nel ratto

 

 

NICOLE CARDON

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 21 giugno 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Fino a che punto è lecito spingersi nel paragonare un sentimento umano ad un presunto o desunto stato funzionale del cervello di ratti e topi? Un roditore che si ferma e mostra di essersi accorto di aver fatto una scelta sbagliata, può davvero essere accreditato del sentimento del rimpianto? Anche una neurobiologa convinta, come me, dell’assoluta importanza dei modelli animali per la comprensione delle basi neurali delle funzioni psichiche umane, può avere qualche difficoltà nell’accettare una simile ipotesi.

La nostra scuola neuroscientifica tende a considerare le facoltà psichiche umane come il prodotto di un’evoluzione, intesa non solo in senso filogenetico, ma anche in senso antropologico, culturale, psicologico e sociale. Il risultato di questi processi può consistere in realtà qualitativamente diverse che avrebbero un semplice rapporto di origine remota con quelle degli animali, così come la realizzazione della Cappella Sistina può essere paragonata ad una sorta di grafo prodotto da uno scimpanzé con un fuscello sul terreno. In questa ottica, sapere che dall’interazione delle stesse aree corticali nel topo e nell’uomo possono aver avuto origine facoltà, abilità o sentimenti collegati da un rapporto del tipo antecedente/conseguente, può avere un senso ed una utilità scientifica. Ridurre, però, le sfumature più sottili dei sentimenti umani a ciò che prova un topo, oppure, al contrario, elevare l’affettività murina al rango di quella umana, non è di alcuna utilità.

Tanto premesso, si recensisce uno studio di Adam Steiner e David Redish che, definite delle situazioni in cui ci si aspetta che si provi rimpianto, le hanno riprodotte come circostanze sperimentali per ratti sottoposti a prove di decision-making in relazione ad un compito neuroeconomico. I correlati cerebrali degli animali sono stati paragonati a quelli rilevati mediante neuroimaging nell’uomo, ed è stato proposto un confronto con esiti sperimentali in primati non-umani. I risultati sono senz’altro interessanti, indipendentemente da una forzatura “antropomorfa” nella loro interpretazione (Adam P. Steiner & David Redish, Behavioral and neurophysiological correlates of regret in rat decision-making on a neuroeconomic task. Nature Neuroscience – Epub ahead of print doi:10.1038/nn.3740, 2014).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Graduate Program in Neuroscience and Department of Neuroscience, University of Minnesota, Minneapolis, Minnesota (USA).

La prospettiva delle grandi teorie psicologiche e psicopatologiche del Novecento è così radicalmente fondata sull’esperienza culturale che, adottarla per paragonare l’affettività umana a quella animale, vorrebbe dire solo accentuare la distanza rendendo qualsiasi confronto improponibile. La psicoanalisi, ad esempio, fin dal metodo introdotto da Freud per interpretare i sogni e i sintomi, esplora i nessi fra processi inconsci e simboli, in primo luogo quelli linguistici. La fenomenologia, pur con una diversa concezione della psiche, non è da meno. Vale la pena, tuttavia, estrarre un passo dal “Trattato di Psicopatologia” di Eugene Minkowski, per avere un’idea dell’importanza implicita di funzioni umane come l’autocoscienza per la definizione dell’affettività in termini di vissuto.

«Dovremo ancora parlare della nostalgia in questa forma generale; qui diremo soltanto che essa non è un ricordo evocato a cui viene ad aggiungersi un sentimento di rimpianto, in base a un confronto con il presente. Essa ci assale direttamente, senza che vi sia spazio per una scomposizione, per qualcosa in “due tempi”. È tutt’altro che un semplice “Che peccato!”: vissuta, essa ricollega in un solo tempo, in modo indissolubile, il passato al presente, senza ostruire, almeno completamente, la via verso l’avvenire. Essa lancia un appello e cerca la sua strada. In tale ottica, certi “ricordi” conservano tutta la loro tonalità, continuano a “parlarci”, non meno, se non addirittura di più, del presente»[1].

Se la coscienza degli animali non può andare oltre il “presente ricordato”, secondo la teoria di Edelman, difficilmente pensiamo che possa sviluppare “un sentimento di rimpianto in base a un confronto con il presente”. Si, perché questo “confronto con il presente” contiene necessariamente la consapevolezza di una impossibilità e, particolarmente, di una impossibilità futura. Ad esempio, ieri sono stata costretta per una mia inefficienza a rinunciare ad un gratificante incontro di studio, ma oggi non provo rimpianto, perché l’impegno è stata spostato a domani. Se sapessi che persa la possibilità di ieri non potrei più, ossia se avessi la consapevolezza di una impossibilità futura, molto probabilmente proverei rimpianto per non essere riuscita a cogliere quell’occasione. La consapevolezza riferita al futuro si ritiene che non sia propria degli animali. Una minima capacità di pianificazione, secondo i risultati di alcuni esperimenti, sembra esistere in primati sub-umani, ma l’interpretazione è controversa e, con ogni probabilità, i comportamenti osservati non sono il frutto di una “progettazione cosciente attraverso l’anticipazione immaginaria del tempo futuro”[2] tipica dell’ideazione umana, ma l’epifenomeno di una continuità di azione nel tempo presente secondo la stessa intenzione. Una tale esperienza creerebbe, nella working memory dei primati, una sorta di lavoro secondo una direzione intenzionale costante, che costituirebbe il precursore della dimensione cosciente del tempo futuro tipicamente umana.

Steiner e Redish introducono il loro lavoro proponendo la definizione comparativa di due termini: Disappointment (delusione) e Regret (rimpianto, rammarico). Ecco come si esprimono: la delusione deriva dal riconoscere di non avere ottenuto il valore atteso; il rimpianto deriva dal riconoscere che un’azione alternativa a quella compiuta (counterfactual) avrebbe prodotto un risultato di maggior valore.

Studi precedenti hanno mostrato che nella nostra specie (osservazioni del cervello di volontari mediante neuroimaging) la corteccia orbitofrontale è attiva durante espressioni di rimpianto. L’importanza di questa regione neocorticale è stata confermata dall’osservazione clinica di persone affette da lesione orbitofrontale, incapaci di esprimere rimpianto o rammarico. Altri studi, peraltro numerosi, condotti su ratti e primati non-umani (scimmie antropomorfe), hanno rilevato la partecipazione della corteccia orbitofrontale e dello striato ventrale al computo della ricompensa.

Negli esperimenti realizzati da Steiner e Redish, in un quadro di tipologia sperimentale economica, si registravano ampi aggregati neuronici della corteccia orbitofrontale e dello striato ventrale di ratti che andavano incontro a scelte di attesa od omissione per la ritardata erogazione di ricompense costituite da cibo di differenti sapori. Economicamente, andare incontro ad una scelta di elevato costo dopo aver omesso di prendere una decisione di basso costo, dovrebbe indurre rimpianto. In tali situazioni artificiali, i ratti si volgevano indietro, verso l’opzione perduta, e le cellule all’interno delle aree della corteccia orbitofrontale e dello striato ventrale rappresentavano l’opzione mancata. I due ricercatori hanno rilevato che aumentava la probabilità che i ratti attendessero per il lungo ritardo, e poi, dopo la lunga attesa, si precipitassero con foga a mangiare il cibo che costituiva la ricompensa.

L’esito degli esperimenti ha indotto Steiner e Redish a dedurre che processi mentali simili al rimpianto abbiano modificato il decision making di mammiferi non umani.

La nostra impressione è che l’esperienza cui sono stati sottoposti i ratti abbia indotto in loro un apprendimento associativo che ha influito sulle scelte seguenti. Perché parlare di rimpianto? È vero che gli animali possono essersi resi conto che un’azione alternativa avrebbe portato un risultato migliore, ma è pur vero che questa condizione genera rimpianto nell’uomo e non, fino a prova del contrario, nei roditori. Gli esperimenti, appunto, non forniscono alcuna traccia dello sviluppo del sentimento umano del rimpianto nel topo. L’attivazione della corteccia orbitofrontale, che avviene in una lunga lista di attività comuni e non comuni fra noi e i roditori, non è senz’altro una prova.

Un poeta diceva che se il rimpianto non è rabbia per non aver agito in modo diverso o semplice nostalgia per ciò che si è perduto, la natura del dispiacere che ci provoca va cercata in un oscuro senso di rimorso, per aver compiuto un male che forse non volevamo comprendere. Non so cosa pensino di ciò i nostri amici ratti, ma sono certa che non sono pochi quelli pronti ad attribuire loro una tale opinione sulla base di una omologia di attivazione corticale.

 

L’autrice della nota ringrazia la professoressa Monica Lanfredini per la collaborazione nell’estensione del testo ed invita alla lettura dei numerosi scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Nicole Cardon

BM&L-21 giugno 2014

www.brainmindlife.org

 

 



[1] Eugène Minkowski, Trattato di Psicopatologia, p. 216, Feltrinelli, Milano 1973. Questo trattato che, accanto al corpus freudiano, ha costituito per decenni un riferimento culturale degli psichiatri europei, era rivolto, come spiega l’autore ai “filosofi di domani”, ma “soltanto al medico a contatto diretto con gli ammalati può ispirare una concreta ricerca di dati nuovi” (p. 7).

[2] L’espressione è di Giuseppe Perrella, al quale si deve l’ipotesi interpretativa che segue nel testo.