Le basi della creatività: nuovi esiti e riflessioni critiche
LORENZO L. BORGIA
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 17 maggio 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
RASSEGNA E DISCUSSIONE]
(Sesta ed Ultima Parte)
Vari studi sembrano supportare l’idea che anche la distanza fisica da altre persone, oltre che la distanza psicologica, accresca la creatività. Questa nozione entra in contrasto con i propagandati ed insegnati “brainstorming di gruppo”[1], organizzati dalle aziende per risolvere problemi ed accrescere la capacità creativa, e conseguentemente la produttività competitiva, dei propri dipendenti. Sembra che questo metodo possa portare esiti positivi solo dopo che un singolo abbia trovato da solo poche soluzioni per un problema complesso, come è emerso di recente[2]. Inoltre, il brainstorming sembra avere più possibilità di successo nel contesto di occasioni sociali casuali, brevi e semi-strutturate, come una colazione di lavoro o un’occasione sociale neutra, piuttosto che in lunghi incontri programmati per questo scopo[3].
Da questo genere di studi è emerso anche che l’incontro fra persone che abbiano seguito iter formativi diversi, che siano impegnate in attività o campi del sapere differenti ma collegati o, infine, che lavorino in luoghi distinti e distanti, favorisce sintesi e sviluppo di nuove idee[4].
5. Riconoscere mediante valori di senso condivisi o crearne di nuovi, creando la creatività? In quest’ultimo paragrafo, avviandoci alle conclusioni, discuteremo brevemente altri aspetti relativi alle difficoltà che nascono dal modo in cui la ricerca psicologica sulla creatività considera ed interpreta il suo oggetto di indagine.
Le capacità di immaginazione e di ragionamento secondo procedure non convenzionali, nel senso del “pensiero laterale” di Edward De Bono, potrebbero portare molte più innovazioni e cambiamenti se non si scontrassero con una tendenza (bias) psicologica contrapposta, che è stata oggetto di specifici studi[5]. Più specificamente, sembra che la paura del rischio sia alla base della maggior parte degli atteggiamenti mentali di resistenza al riconoscimento del valore di idee e possibilità innovative. Si teme il nuovo in quanto è percepito come elemento che ci allontana dalle certezze protettive di una consuetudine sperimentata come sicura.
Questo argomento, ancora una volta, è affrontato dalla maggior parte degli studiosi di creatività di ambito psicologico senza una precisa distinzione fra concezione di una nuova idea, intesa come elaborazione creativa, sua realizzazione, decisioni (abilità e capacità decisionale), forza e determinazione attuativa, tenacia e perseveranza necessaria a superare ostacoli e a conservare energie e motivazioni fino alla realizzazione di un progetto. Se in molti studi, come abbiamo visto, è necessario e sufficiente indicare un modo non convenzionale per risolvere un problemino logico per essere considerati creativi, in questo caso sembra che la “creatività” si abbia solo con il successo sociale di un progetto pienamente realizzato ed altamente remunerativo, come nel caso di Amazon. La Chrysikou, infatti, nel discutere la bias a resistere all’innovazione, illustra il caso dell’ingegnere informatico Jeff Bezos che, con la moglie Mackenzie, ha fondato il primo “quartier generale” di vendita informatica di libri tramite internet, rinunciando ad un lavoro sicuro nel settore finanziario. La ricercatrice osserva che i due coniugi hanno avuto il merito di gettare alle ortiche le loro carriere per avventurarsi in un’impresa dal futuro incerto. Poi conclude affermando che abbandonare una soluzione soddisfacente per seguire un nuovo concetto può essere la più grande sfida per capitalizzare il potenziale creativo, e aggiunge, citando Bezos: “Innovazione è rottura”[6].
Questo riferimento ci riporta alla questione relativa a cosa esprima creatività e cosa non la esprima: un dipinto di arte informale che presenta una striatura colorata mai vista prima è una creazione d’arte? E se le stesse strie si reperiscono sulla superficie di un ciottolo trovato in fondo al mare? E se il pittore ha copiato il ciottolo?
Anche se sulle prime sembra semplice rispondere, riflettendo sui problemi sollevati dall’insufficienza di simili oggetti a costituire evidenza della propria natura[7], si comprendono le difficoltà. La novità, è chiaro, non può costituire valore assoluto; ma nemmeno relativo, perché se non è rapportabile ad un soggetto che ne è l’autore secondo una definita intenzione, non può essere parametro per stabilire se vi è stata un’operazione creativa. In una concettualizzazione astratta, che è stata affrontata filosoficamente in modo adeguato nella storia del pensiero e che qui si sintetizza in maniera estremamente semplice, si può dire che coloro che credono in un Dio Creatore[8] riconoscono come opera di creazione ogni elemento della natura, ma per coloro che non credono tutto il mondo naturale è conseguenza del caso e della necessità, così che solo i prodotti degli artefici umani sono espressione di creazione.
Con queste considerazioni torniamo all’osservazione del nostro presidente, riferita nel primo paragrafo: la novità di un’idea, come altre qualità e valori astratti, non emerge quale evidenza assoluta, ma risulta sempre da una relazione con un contesto psichico, culturale o tecnico.
Storicamente, il giudizio del valore creativo ha una sua tradizione espressa nel modo più formale ed istituzionale possibile dalle commissioni delle accademie, che attribuivano premi dai quali dipendeva spesso la carriera di un artista. Si pensi al “Prix de Rome” più volte negato e poi concesso a Jacques-Louis David per il suo Antioco e Stratonice del 1774.
In epoca contemporanea abbiamo la “critica ad arte”, secondo la locuzione di Achille Bonito Oliva, esponente italiano di una schiera di critici che, rivendicando fra la provocazione e l’artificio letterario il diritto di essere creativi, di fatto propone le nuove forme di un potere di attribuzione di senso e di valore, più legato ad una autorevolezza vera o costruita del critico, che a criteri oggettivi ben definiti, come quelli tecnici trasmessi dagli artisti e insegnati nelle accademie.
Questa tentazione contemporanea di agire creativamente, originata in parte dalla perdita dei vincoli derivati da valori classici non più riconosciuti, non sembra abbia riguardato solo i critici dell’arte, ma pare abbia interessato anche gli psicologi, che mi sembra abbiano creato “ad arte” una nuova categoria per creatività e processi creativi. Un’operazione che per ampiezza inclusiva ed approssimazione ricorda la deriva del concetto di narcisismo.
La nostra scuola neuroscientifica segue, come criteri operativi e ipotesi di lavoro, varie tracce concettuali riferite alla creatività, fra le quali prevale quella esposta qui di seguito:
“In passato, ho descritto il processo creativo come un’operazione mentale che determina una fusione di strutture simboliche pre-esistenti con produzione di elementi o entità originali, che si possono considerare quali nuove configurazioni di simboli. Un tale paradigma si può applicare all’analisi della creatività nel campo delle arti figurative, della musica, della letteratura e di varie altre espressioni della capacità umana di concepire e realizzare nuovi oggetti astratti o concreti, dotati di un valore comprensibile e riconoscibile grazie alla sensibilità spontanea ed educata, oltre che alle conoscenze culturali”[9].
Questo modo di intendere il processo creativo, anche se come abbiamo visto appare lontano dalla concezione che fonda la ricerca psicologica corrente, ha il pregio di introdurre una netta distinzione fra semplici operazioni cognitive riconducibili a generici atti mentali dell’intelligenza e processi particolari che meritano la definizione di creativi. In questa ottica si affronta anche la questione del riconoscimento del valore: “In alcuni casi, un problema di grandi proporzioni, e senz’altro di rilievo filosofico oltre che psicologico, è dato dall’attribuzione di valore e dal giudizio di senso degli oggetti simbolici neoprodotti, sia astratti sia concreti”[10]. Operativamente si sceglie di seguire il criterio adoperato nella ricerca psicopatologica classica sulla creatività degli psicotici.
Sostanzialmente, in questo genere di studi, si considerava prodotto della creatività un lavoro artistico, nella massima parte dei casi di tipo pittorico o grafico, che nascesse dall’esigenza di rappresentare qualcosa di profondamente sentito dal paziente, e non come compito commissionato. Il giudizio del suo valore era, per la parte estetica, rapportato ai prototipi artistici più prossimi e probabilmente influenti sul gusto dell’autore; per la parte simbolica, era derivato dalle principali chiavi di lettura teoriche in auge.
In proposito, si ricorda che Silvano Arieti, nella sua approfondita disamina delle attività creative dei pazienti schizofrenici, aveva notato, come tratto comune a molti, la fusione di forme, parole e figure, con l’esito suggestivo di neologismi e neomorfismi[11]. Notevole la documentazione fotografica della straordinaria produzione di nuove figure e parole da parte di un paziente di Bobon e Maccagnani, che da sei elementi originari (pesce, ragazza, succhiotto, bruco, mucca e locomotiva) crea per fusioni progressive, in pochi minuti, 15 chimere, l’ultima delle quali include tutte le componenti. Anche se Arieti giudica “del tutto inaccettabile”[12] il risultato, molti degli psicologi che oggi si occupano di creatività, non esiterebbero a riconoscere un grado di elaborazione e di originalità di gran lunga superiore a quello messo in mostra attualmente dalle agenzie pubblicitarie.
Mettendo a parte il caso della creatività in corso di disturbi psicopatologici, che meriterebbe una specifica trattazione, la traccia della fusione, ricombinazione o montaggio di strutture mentali quali forme con valore di concetto, alla base dei processi creativi, ci sembra ancora valida e stimolante per indagare un’identità distinta da quella di altre operazioni cognitive.
L’autore della nota, che
ringrazia il presidente della Società Nazionale di Neuroscienze con il quale ha
studiato e discusso l’argomento trattato e dal quale ha ricevuto correzioni e
integrazioni preziose, suggerisce la lettura di tutti gli scritti di argomento
connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il
motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] Brainstorming è un termine introdotto nel 1955 per definire una tecnica di problem-solving di gruppo, che implica il contributo spontaneo di idee da parte di ciascun membro del gruppo.
[2] Cfr. Evangelia G. Chrysikou, op. cit., p. 93, 2014.
[3] Cfr. Evangelia G. Chrysikou, op. cit., ibidem.
[4] Cfr. Evangelia G. Chrysikou, op. cit., ibidem.
[5] Cfr. Mueller J. S., Melwani S.,
Goncalo J. A., The Bias Against Creativity: Why People Desire but Reject
Creative Ideas. Psychological Science
23 (1): 13-17, 2012.
[6] Evangelia G. Chrysikou, op. cit., p. 93, 2014.
[7] Problema che non sussisterebbe se le domande fossero del tipo: “Questa è una tela?” o “Questo è un ciottolo?”.
[8] Ricordiamo che nelle dottrine monoteistiche, e particolarmente nella fede cristiana, “creare” vuol dire “generare dal nulla” e, pertanto, solo Dio può creare.
[9] Giuseppe Perrella, Introduzione al lavoro del Gruppo di Studio sulla Creatività, p. 14. (relazione tenuta il primo marzo 2014). BM&L-Italia, Firenze 2014.
[10] Giuseppe Perrella, op. cit., ibidem.
[11] Cfr. Silvano Arieti, L’Interpretazione della Schizofrenia, Vol. I, p. 494, Feltrinelli, Milano 1978.
[12] Cfr. Silvano Arieti, op. cit., ibidem.