Creatività geniale o abilità esercitata?

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 15 marzo 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

(Seconda Parte)

 

1. Percezione di autonomia. Agli educatori esperti sono ben noti gli effetti positivi del conferire responsabilità a bambini e ragazzi cui si richiede di svolgere dei compiti o assumere un ruolo: una parte di questi effetti si ritiene sia dovuta alla percezione della fiducia e della stima dell’educatore, che agisce come gratificazione affettiva, un’altra parte sembra si possa attribuire alla percezione di autonomia, che accrescerebbe la motivazione.

È opinione diffusa, che sentirsi investiti di un incarico o riconoscersi un ruolo con un obiettivo che si desidera perseguire e si ritiene di poter raggiungere, accresca la disposizione mentale ad agire e crei un atteggiamento favorevole verso il “da farsi” legato all’incarico o al ruolo. Per verificare questo assunto, gli psicologi Edward L. Deci e Richard M. Ryan dell’Università di Rochester hanno valutato studenti, atleti ed impiegati, rilevando che il grado di autonomia percepita corrispondeva al livello di energia impiegata per il perseguimento dello scopo, costituito dal compito sperimentale.

Collaborando con Arlen C. Moeller, Deci e Ryan nel 2006 hanno elaborato vari protocolli sperimentali volti a confrontare gli effetti del sentirsi controllati con quelli del sapersi auto-diretti. Un esperimento particolarmente interessante dava la possibilità ad un gruppo di volontari di scegliere un “corso d’azione”, ossia un tipo di comportamento, basato su una propria opinione, come, ad esempio, tenere un discorso a favore o contro l’insegnamento della psicologia nelle scuole superiori. Ad un altro gruppo veniva imposta la scelta, mentre  un terzo gruppo veniva posto sotto pressione affinché scegliesse in un modo o nell’altro. Subito dopo il compito principale, tutti i partecipanti all’esperimento venivano sottoposti ad un’impegnativa attività di soluzione di un puzzle. In assoluto, il gruppo che aveva potuto scegliere il comportamento conforme alla propria opinione e non aveva agito contro di essa o avvertendo la pressione di una volontà diversa dalla propria, persisteva più a lungo nel tentativo di svolgere il compito impegnativo e poco gratificante. Gli autori dello studio ne desumono che agire sotto pressione o imposizione è penalizzante, mentre perseguire uno scopo conforme alle proprie idee è energizzante[1].

Senza rischiare di sottovalutare l’apprezzabile sforzo di analisi e verifica di effetti psicologici comuni in esperimenti formalizzati e controllati, osserviamo che il risultato di questo studio, ritenuto fra i più rilevanti in questo campo, non  aggiunge molto a quanto le persone di buona cultura ed esperienza umana già sapevano, e a quanto, probabilmente, era intuito dall’uomo fin dagli albori della civiltà. Come ha osservato in passato il nostro presidente: “Un’opinione profondamente sentita, una convinzione radicata, un desiderio da tempo elaborato in termini coscienti, corrispondono a potenzialità mentali che, in misura maggiore o minore, sono il risultato di processi che hanno implicato la partecipazione di componenti funzionali necessarie al mantenimento del senso di identità[2]. Non meraviglia che la loro esecutività sia in grado di attivare routines accessorie che esprimono risorse di motivazione, forza e determinazione. L’essere appassionati ed apparire tali, in una circostanza della vita, implica che si sia in condizione di disporre di energie psichiche, sia pure latenti, e mobilitarle nell’esprimere uno stato funzionale facilmente riconoscibile dalla costellazione di segni che vanno dalle più sottili e sfumate manifestazioni mimico-gestuali alle più caratteristiche modificazioni della voce, del lessico, della struttura verbale e del paradigma comunicativo, fino a comportamenti eclatanti con manifestazioni dalla forte componente affettivo-emotiva, in una gamma qualitativa che va dall’esultanza all’aggressività distruttiva. In altre parole, sembra che la registrazione di un’esperienza mentale come propria, conservi potenzialità di attivazione dei sistemi encefalici mediatori di processi che esprimono energie di motivazione e di esecuzione, in misura proporzionale al grado di appartenenza che le è stato attribuito”[3].

Non si può certo essere sorpresi che seguire una propria opinione, come negli esperimenti citati, costituisca uno stimolo in grado di selezionare uno stato funzionale complessivamente caratterizzato da maggiore attività ed energia esecutiva.

Il modesto parere di chi scrive, ritiene che non si debba correre il rischio di isolare la percezione di autonomia dal contesto di fattori motivanti o deterrenti cui è normalmente esposta una persona, perché quando non ci si sente già propensi, motivati, competenti od ottimisti circa il risultato, soprattutto nelle persone che vivono uno stato o un periodo di depressione o scarsa autostima, l’autonomia può essere percepita come solitudine, isolamento, mancanza di sostegno, supporto, condivisione e approvazione[4].

Mi sembra interessante interrogarsi su come accada che un’attività imposta nell’infanzia da un genitore, dalla condizione familiare o da una circostanza sociale – è il caso di molti artisti – possa generare grande motivazione. In quel caso si può ritenere che il motore principale sia dato dall’effetto premiale del risultato per un certo numero di anni, e poi intervenga anche una componente di autonomia, quando l’allievo supera i maestri e diventa capace di innescare circoli virtuosi di motivazione attraverso l’iniziativa e l’intraprendenza operosa.

 

2. Valori e motivazione. La consapevolezza del valore di un compito o di uno scopo, soprattutto quando si tratta di un valore morale universale, ma spesso anche nel caso in cui sia in gioco un oggetto di alto pregio o un valore venale considerevole, determina un aumento della motivazione. In proposito, un esempio frequentemente proposto nelle aule universitarie fiorentine è quello dei cosiddetti “angeli del fango”, ossia i soccorritori che nell’alluvione del 1966 giunsero in Firenze da ogni dove per contribuire al salvataggio di persone e cose dalla furia delle acque. Fra questi straordinari volontari non furono pochi i giovani che nelle condizioni ordinarie della propria vita erano pigri, indolenti, poco intraprendenti e generosi, ma che in quel caso, nella prospettiva di compiere un’impresa importante sul piano umano, si erano trasformati in solerti, solleciti ed operosi “angeli”, pronti ad ogni sforzo al servizio degli altri. Il riconoscimento di un valore astratto come fatto oggettivo, verosimilmente determina una reazione psichica accostabile a quella del riconoscimento di un valore percettivo universale, quale la positività dello splendere del sole contrapposta al negativo delle tenebre notturne. Un tale stato, seguendo le tesi della nostra scuola neuroscientifica, implica in sé una latenza motivazionale, pertanto il valore può costituire di per sé un evocatore di motivazione.

Non sono di questo avviso molti psicologi, che considerano l’effetto motivante del valore dipendente dal senso di autonomia. In questa ottica, l’attribuzione di valore ad un compito si ritiene che ripristini il senso di autonomia in una persona, dal quale deriverebbe la motivazione. Così, infatti, si esprime la Yuhas: “Assigning value to an activity can restore one’s sense of autonomy”[5].

Ritornando all’esempio dell’induzione in condizioni di dipendenza, come nel caso dei bambini avviati precocemente allo studio di uno strumento musicale o alla pratica di pittura, scultura ed altre arti visive, si deve rilevare che, in genere, gli adulti che si occupano della loro istruzione provvedono anche a fornire un patrimonio di informazioni e un bagaglio di nozioni sul valore sociale dell’arte e sulla considerazione riservata ai suoi interpreti. È verosimile che tale conoscenza crei condizioni motivanti che prescindono dall’autonomia. D’altra parte la possibilità di indurre interesse attraverso la conoscenza o la maieutica della riflessione, è ben nota a chiunque eserciti con scrupolo e competenza un’attività di insegnamento.

In linea con queste tesi sembrano essere i risultati di uno studio condotto nel 2009 da Christopher S. Hulleman dell’Università della Virginia. Per un intero semestre, si è chiesto a un gruppo di studenti di scuola superiore di scrivere su come le scienze incidessero nella loro vita, e ad un altro gruppo di studenti, equivalente per caratteristiche, si è chiesto semplicemente di redigere dei riassunti di quanto andavano imparando ad un corso di scienze.

 

[continua]

 

 

L’autore della nota invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che compaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-15 marzo 2014

www.brainmindlife.org

 

 



[1] Daisy Yuhas (2014), op. cit., ibidem.

[2] Perché solo in tal modo si può realmente definire un’appartenenza.

[3] Giuseppe Perrella, Motivazione, appartenenza, fanatismo e plagio, p.7 (traduzione italiana del breve saggio  redatto in inglese in San Francisco, 1993); testo diffuso in copie non pubblicate.

[4] Cfr. le tesi esposte al Seminario sull’Arte del Vivere sul conflitto “autonomia-dipendenza” (anno associativo 2007).

[5] Daisy Yuhas (2014), op. cit., ibidem.