Volete diventare sognatori lucidi?

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 01 marzo 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Molti anni fa Stephen LaBerge, fra i pionieri dello studio di quei sogni che sono detti “lucidi” perché colui che sogna è lucidamente consapevole di star sognando, aveva animato un club di “sognatori lucidi” al quale invitava ad aderire, fornendo una serie di consigli per indurre o incrementare l’esperienza di questo tipo di sogni. Proposto a molti come un gioco: “Volete diventare sognatori lucidi? Non è difficile!”, in alcuni ambienti mondani e in molti salotti collegati con istituti neurologici universitari era diventato quasi una moda. L’interesse più serio, di giovani ricercatori che indagavano i correlati elettrofisiologici delle trame oniriche allora interpretate in chiave psicoanalitica, indusse alcuni ad esplorare l’utilità di un controllo cosciente del sogno a scopi terapeutici e l’eventuale nocività derivante dal disturbo della funzione fisiologica da parte di artifici volti all’induzione nel sonno della consapevolezza tipica della veglia[1].

A distanza di molti anni, da più parti, è stata rilanciata l’idea di impiegare un particolare addestramento ad intervenire consapevolmente nella trama del sogno per trattare gli incubi ricorrenti o la tendenza cronica a sogni dal contenuto angoscioso e poi disturbante anche durante la veglia. Inoltre, si sta nuovamente sperimentando l’impiego dei sogni lucidi nel trattamento di disturbi d’ansia[2].

Approssimativamente 8 persone su 10 hanno avuto almeno una volta un sogno lucido, ma probabilmente questa esperienza è una potenzialità di tutti, ed è anche possibile accrescere la probabilità che si verifichi. Una piccola frazione di persone, difficile da stimare con precisione perché non sono stati condotti studi su grandi numeri, riferisce di fare sogni lucidi una o due volte la settimana. Il sogno lucido può considerarsi uno stato fisiologico particolare, se non proprio distinto, in quanto studi di neuroimmagine funzionale hanno dimostrato che esistono correlati tipici: ad esempio, parti del cervello che tendono a funzionare in sincronia più intensamente durante l’esperienza cosciente di star sognando.

Il lavoro di registrazione dei dati in questo campo non è semplice, perché bisogna fare affidamento sui resoconti dei volontari che spesso non sono accurati e, dunque, devono essere esclusi. Ad esempio, non molti sono in grado di distinguere fra un vero sogno lucido e le allucinazioni fisiologiche temporanee che possono verificarsi durante la fase di addormentamento e di risveglio, semplicemente perché non sono edotti dell’esistenza di questo fenomeno. Per evitare questi errori nei “laboratori del sonno”, una quarantina di anni fa fu escogitato un modo efficace e, per questo, ancora in uso: si istruiscono i volontari, che dovranno dormire alla presenza dei ricercatori, a fare un segnale, come volgere gli occhi due volte da sinistra a destra, quando si accorgono di stare sognando. Colui che sogna, anche se in genere non può muovere altre parti del corpo senza svegliarsi, può compiere questo movimento degli occhi che è ben diverso e facilmente distinguibile dai rapidi movimenti oculari (rapid eyes movement, REM) che caratterizzano il sogno. I ricercatori possono così vedere il segnale del movimento oculare volontario e confrontarlo con il tracciato elettroencefalografico che registra la fase del sonno: se il soggetto è in fase elettroencefalografica REM, corrispondente al sogno, allora si tratta di un sogno lucido.

Le prime osservazioni, sulla base delle conoscenze e delle metodiche del tempo, si limitavano ad accostare il sogno lucido all’attività cerebrale cosciente durante la veglia.

Nel 2009, sulla scorta degli studi sui correlati elettrofisiologici della coscienza che avevano impegnato personalità del calibro di Francis Crick e Christof Koch, un gruppo di ricerca dell’Università di Francoforte, guidato da Allan Hobson e del quale faceva parte Ursula Voss, cercò di identificare un marker elettrico del sogno lucido[3]. I rilievi indicavano questo segno distintivo nell’aumento dell’attività della frequenza γ, primariamente in corrispondenza dei lobi frontali, notoriamente implicati nei principali processi cognitivi coscienti. La banda di frequenza γ dell’elettroencefalogramma (EEG), corrispondente all’incirca ai 40 hertz, era stata messa in relazione con la coscienza, e considerata un correlato dei processi di elaborazione cognitiva della percezione visiva, prevalentemente da ascriversi all’attività dei neuroni piramidali degli strati profondi della corteccia. Le onde della banda γ, paragonate a quelle delle altre fasi di attività dell’EEG, sono onde di alta frequenza, e si rilevano in associazione con lo sforzo cosciente di concentrarsi su un particolare oggetto.

Un altro parametro esaminato nello studio della Voss era la coerenza. Con questo termine si indica una misura approssimativa del grado di coordinazione dei sottosistemi corticali in varie aree del cervello. La coerenza è lievemente ridotta durante la fase REM dell’EEG, cioè durante i sogni. Voss e colleghi rilevarono, durante i sogni lucidi, l’assenza della riduzione di coerenza della fase REM. Per rendere la differenza registrata in quello studio, l’esempio che si propone nelle trattazioni divulgative è quello di un ricevimento all’americana (party) in una sala enorme in cui gli ospiti sono distribuiti ad occupare tutto lo spazio: nel sonno REM ordinario si assiste ad una condizione paragonabile a quella in cui tutti gli invitati parlano ad alta voce contemporaneamente generando un elevato rumore di fondo; nel sogno lucido l’attività è paragonabile a quella di piccoli gruppi i cui membri conversano fra loro a mezza voce generando un rumore di fondo notevolmente più basso.

Nello stesso anno in cui fu realizzato questo studio, vide le stampe un libro di Stephen LaBerge che ancora costituisce un riferimento per coloro che vogliono approfondire questi studi: Lucid Dreaming: A Concise Guide to Awakening in Your Dreams and in Your Life (Sounds True, Inc. 2009). Nel volume, oltre a fare il punto delle conoscenze in questo campo, si dimostrano le possibilità e l’efficacia dell’impiego delle risorse della coscienza durante il sogno a scopo terapeutico.

In realtà, per molto tempo, i sogni lucidi sono stati considerati una mera curiosità e solo negli ultimi dieci anni è aumentato il numero di professionisti della salute mentale che ha scelto di mettere alla prova la possibilità di addestrare all’intervento cosciente i propri pazienti affetti da disturbi dei sogni. Uno studio, pubblicato nell’ottobre del 2006 sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics, aveva rilevato che coloro che avevano imparato ad aumentare la frequenza dei sogni lucidi riportavano una frequenza più bassa di episodi onirici spaventosi o sgradevoli. Questo effetto, riferito anche in vari resoconti aneddotici non pubblicati, non ha ancora avuto una spiegazione scientifica. Ursula Voss propone l’esistenza di un effetto di “distanziamento emozionale dal contenuto”. Giuseppe Perrella, considerando i sogni dal contenuto emotivo spaventoso, minaccioso, angoscioso e disturbante come il prodotto di un’elaborazione che determina l’attivazione bottom-up di circuiti emozionali privi del controllo inibitorio esercitato dalle aree percettive e cognitive legate alla coscienza, ipotizza che i sogni lucidi possano agire ripristinando, almeno in parte, questa inibizione attraverso un funzionamento simile a quello dell’esame di realtà collegato alla veglia[4].

Un’altra proposta di uso terapeutico del sogno lucido è quella dell’impiego artificiale del suo contesto per cercare di determinare l’estinzione di un’associazione fobica. Ad esempio, una persona che ha paura dei topi potrebbe provare a sognarli sperimentando nello stato mentale del sogno lucido la loro innocuità mentre pensa: “È soltanto un sogno”. Non mi soffermo sulle numerose critiche che sono state sollevate per questa proposta, perché sono veramente intuitive.

I sogni lucidi sono stati impiegati in pazienti affetti da disturbo post-traumatico da stress (PTSD), con qualche risultato positivo, sempre scontando la difficoltà di indurre lo stato e la refrattarietà di molti al training che dovrebbe aumentare la probabilità di questo tipo di esperienza onirica. Daniel Erlacher, uno psicologo dello sport della Università di Heidelberg, in Germania, ha sperimentato il training per incrementare i sogni lucidi nell’apprendimento di complesse sequenze motorie, come quelle richieste per le attuali tecniche di salto in alto, riferendo risultati positivi.

Nel 2010 è stato condotto un piccolo studio presso la John Moores University in Inghilterra, allo scopo di testare gli effetti dei sogni lucidi sulle abilità intellettive. I risultati indicano un’utilità, sia pure contenuta, per migliorare le prestazioni in esercizi quali l’invenzione di metafore, mentre sembra che i sogni lucidi non abbiano alcuna efficacia in esercizi quali la soluzione di piccoli problemi logici che richiede il compimento di precise operazioni cognitive.

In realtà, si sa ancora poco sui sogni lucidi e, ad avviso di chi scrive, una certa sopravvalutazione del loro potenziale terapeutico è da ascriversi alla mancata considerazione dei fattori psicologici generici che si attivano nel training e nelle prove, e ad una estrema difficoltà nel realizzare un confronto reale con altri mezzi di terapia su un numero significativo di persone. Un po’ di sopravvalutazione può derivare anche dalla bias dovuta al fatto che la massima parte - se non tutti - gli autori degli studi sono degli entusiastici fautori del loro impiego.

Concluderei sintetizzando, con parole mie, alcune osservazioni recenti del nostro presidente. Un dato certo è che nell’adolescenza è stato riscontrato il numero maggiore di sognatori lucidi e, in particolare, sembra che intorno ai 16 anni di età, in ragazzi dalle prestazioni cognitive superiori alla media, si abbia il massimo picco. Questo depone per un effetto del processo di integrazione dei lobi frontali durante la maturazione dell’encefalo che interessa particolarmente la corteccia cerebrale in questo periodo della vita. Ma ancora non sappiamo in quali circostanze neurofunzionali si produce un sogno lucido, se il suo apparire abbia un valore e un senso per la fisiologia del cervello o costituisca un mero “errore del sistema del sogno”.

Per queste ragioni è più saggio restituire la parola alla ricerca e saper attendere le risposte necessarie ad affrontare con maggiore consapevolezza e lucidità tutto l’argomento.

 

L’autore della nota suggerisce la lettura di recensioni e aggiornamenti riguardanti il sonno e il sogno che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-01 marzo 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Il nostro presidente, da giovane studente interno di psichiatria, si mise in contatto con Stephen LaBerge ed avviò alcuni studi di osservazione per esplorare potenzialità terapeutiche e limiti dei sogni lucidi, partendo da competenze sia di “sogno da svegli guidato”, sia di EEG del sogno.

[2] Sul sito del Lucidity Institute (www.lucidity.com) si trova un breve elenco di espedienti o tecniche per accrescere la probabilità di fare sogni lucidi: nella sostanza coincidono con i vecchi consigli di Stephen LaBerge.

[3] Voss U., et al., Sleep (2009) 32 (9): 1191-1200.

[4] Per completezza devo osservare, però, che Perrella ha sempre espresso prudenti riserve circa la pratica di addestrare persone al sogno lucido, probabilmente temendo il crearsi, attraverso il formarsi di memorie, di un’interferenza permanente con processi fisiologici.