Un dialogo fra scienza e fede
NICOLE CARDON & MONICA LANFREDINI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XII – 01 marzo 2014.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
DIBATTITO]
Al
termine dell’incontro settimanale del “Seminario sull’Arte del Vivere” dell’8
febbraio 2014, Nicole Cardon e Monica Lanfredini hanno spontaneamente dato vita
ad un confronto di idee che ha contrapposto il punto di vista ateo a quello
cristiano, suscitando l’interesse dei presenti. La settimana seguente, il 15
febbraio, si è deciso di riprendere il dialogo dal punto in cui era stato
interrotto, questa volta registrandolo. Qui di seguito si riporta la
trascrizione della registrazione.
Nicole Cardon (NC): ritengo che credere in un’Entità creatrice ed onnipotente che in qualsiasi momento possa intervenire nella realtà materiale, superando le leggi della fisica nel compiere prodigi e miracoli, sia un limite e un freno per il pensiero scientifico e per l’atteggiamento mentale di un ricercatore.
Monica Lanfredini (ML): non credo che la fede sia un limite per un ricercatore; fra gli innumerevoli esempi di scienziati credenti che la storia ci suggerisce, mi piace citare il primo e l’ultimo, in ordine cronologico, fra quelli menzionati al Seminario sull’Arte del Vivere: Cartesio e Einstein. In generale, potrei essere d’accordo con te che credere in un’Entità che intervenga nella realtà compiendo prodigi contro le leggi della fisica, costituisca un limite, ma questo è un modo irrazionale di concepire la realtà e la fede; un atteggiamento in qualche modo infantile. Un modo in cui la religione prende il posto del pensiero magico dei primitivi, e viene usata in funzione di questo stile mentale che si rifugia nell’irrazionale. Non è questo il modo e il mondo della fede nella tradizione giudaico-cristiana.
NC: esempi posso farne anch’io di scienziati credenti: mi viene in mente Sir John Eccles, il geniale studioso delle sinapsi insignito del Nobel. Ma si tratta di eccezioni che confermano la regola, oppure di persone che vivono paradossi e contraddizioni non risolte, in apparenza, ma che di fatto agiscono “laicamente”, per dirla con un’espressione di gergo comune in Italia. In genere, un credo religioso ti chiede di “credere per fede”, il che vuol dire non indagare sulla natura delle cose e sulla loro origine. Le autorità religiose che si opposero al vero scientifico delle osservazioni di Galileo e alla realtà dell’origine delle specie animali dall’evoluzione, scoperta da Darwin, avevano paura della conoscenza originata dalla semplice e diretta osservazione della natura…
ML: questo è un errore comune, al quale sono abituata: confondere la storia del pensiero religioso e politico-religioso, con il significato e il valore essenziale di un credo e, in particolare, della rivelazione ricevuta dal popolo ebraico e, quale esperienza spirituale tramandata, origine delle grandi religioni monoteiste. Gli esponenti delle gerarchie ecclesiali del tempo di Galileo Galilei e Charles Darwin, ai quali ti sei riferita, da protagonisti di due epoche in cui imperava una sorta di fariseismo cristiano, erano uomini di poca fede, perché se avessero creduto davvero non avrebbero mai pensato di dover “proteggere” la verità rivelata, negando dati di osservazione come le macchie solari nel XVII secolo o il formarsi delle specie per trasformazioni evolutive nel XIX secolo.
NC: tu neghi che la posizione oscurantista, come conseguenza di uno zelo religioso, sia figlia della fede professata a quel tempo?
ML: Galileo era cristiano, Darwin no. Come Cartesio, che pure fu censurato anche se non processato, Galileo era più autenticamente credente dei suoi persecutori. Il concetto di oscurantismo, che in genere si applica al pensiero di quell’epoca che Francesco Petrarca battezzò “Medio Evo”, è stato rivisto e riformulato da molti storici. In ogni caso, mi sembra evidente che lo scoraggiare l’indagine della natura e l’uso dell’intelletto per l’interpretazione dei fenomeni osservabili, appartenga ad una particolare elaborazione culturale del pensiero religioso che, ritenendo di dover preservare l’ortodossia attraverso il rigore letterale e la custodia della tradizione, era giunta a vedere un pericolo in ogni scoperta, innovazione, cambiamento o progresso.
NC: sostieni che non sia un esito obbligato della psicologia religiosa?
ML: certo. Questa mi sembra un’evidenza. Esiste un innegabile collegamento probabilistico ma, ragionando anche da storici laici, per lo sviluppo di un esito antiscientifico da parte di un pensiero religioso non credo vi sia una probabilità maggiore di quella che un pensiero conservatore generi una dittatura o un pensiero progressista determini una rivoluzione.
NC: questa è una chiave di lettura storico-politica che mi allontana dalla psicologia dei soggetti, che credo non muti molto nella storia. Tu dici, dunque, che una fede come quella ebraica o come quella cristiana, nelle sue varie confessioni, non condiziona in questo modo l’atteggiamento verso la scienza e il sapere scientifico. E, allora, secondo te, in cosa consiste la differenza? Mi spiego meglio: se tu dovessi indicare un elemento della concezione della scienza da parte dei credenti che li distingua dai non-credenti, cosa indicheresti?
ML: la differenza è nella concezione dell’origine della scienza. Il non credente, consapevole di esserlo, e quello non consapevole, che spesso si proclama agnostico, ritengono la scienza…
NC: [interrompe] un prodotto della ragione che organizza la conoscenza derivata dalla percezione in forme capaci di produrre nuovo sapere, come nel caso delle teorie scientifiche, che consentono di fare previsioni su quanto ancora non si conosce empiricamente…
ML: [interrompe a sua volta] sei partita dalla ragione. È qui la differenza. Potremmo insieme cercare di esporre quanto hai appena detto, in una forma più precisa, organica, accademica e didattica, spiegando così l’episteme e l’epistemologia, cosa si intende per scienza e per scienze sperimentali, come la coerenza interna della matematica, regina di tutte le scienze, costituisca il riferimento logico di tutte le pratiche basate sull’esperimento e sulla verifica sperimentale, secondo il paradigma della fisica e nella forma della chimica, della biochimica, della genetica e delle numerose altre branche delle scienze biologiche. Saremmo d’accordo su tutto. La differenza è solo nel punto di partenza. Voi partite da quella forma d’uso delle facoltà cognitive che convenzionalmente si chiama “ragione”. Noi credenti conosciamo i sette doni dello Spirito Santo: ecco la scienza è uno di questi. La sostanza, la vera essenza che ha portato l’uomo a realizzare gli strumenti cognitivi e materiali per il progresso delle conoscenze, è dentro di noi come dono dello Spirito di Dio.
NC: “mamma mia!” Come si dice in Italia. Sono molto impressionata. Non l’avevo mai vista in questi termini. Il fondamento culturale e tutto l’apparato tecnico e tecnologico che consentono l’operatività sperimentale e l’elaborazione concettuale dei contenuti della conoscenza empirica, per me, come per la maggior parte dei ricercatori, coincidono con la scienza. Ritenere che tutto ciò abbia in sé un “core”, un nucleo di sapienza di origine trascendente, richiede fede… In altri termini, è come ascrivere anche la scienza all’ordine immateriale dei doni divini, realizzando una fagocitosi della scienza da parte della fede.
ML: dire che la natura della scienza umana è figlia della natura divina che ci viene concessa come dono, non è un far mangiare la scienza dalla fede, ma riconoscerne un’origine…
NC: [interrompe] trascendente.
ML: certo, divina. Ma questo non vuol dire negare il senso profondamente umano dell’impresa scientifica e il suo potere di cambiare la nostra vita.
NC: spostare l’origine della scienza dalla forza dell’intelletto umano che mette al servizio del suo desiderio di conoscere tutte le risorse di creatività, impegno, logica, perseveranza e sacrificio, all’arbitrio divino di concedere o meno un dono, non incita ed induce ad un atteggiamento passivo e fatalista?
ML: perché? La scienza come dono dello Spirito non include tutto ciò che appartiene all’impresa scientifica, ma costituisce l’essenza del conoscere secondo verità. Se non si è nello Spirito, non si possiede il dono del discernimento di ciò che vale e la comprensione del perché vale; tuttavia, ciò non impedisce di cercare e trovare, profondendo energie fisiche e mentali, e mettendosi alla prova. Magari scoprendo che chiunque si impegni a fondo, sapendo anche fare rinunce nella propria vita privata, può ottenere dei risultati importanti. D’altra parte, è da sempre noto che si possono rilevare dati in tanti modi. Ottenere dei risultati per virtù della tecnologia e circostanze fortunose, non è certo fare scienza. Almeno per me.
NC: ma trovare per fortuna o serendipità, come si dice, è una possibilità sempre presente… Se la verifica sperimentale conferma quanto si è trovato per caso, che male c’è?
ML: ti riferisci a serendipity, il neologismo introdotto nel vocabolario inglese sulla scorta del successo che ebbe, credo nel 1754, la novella persiana “I tre principi di Serendip”, che narrava di questi nobili curiosi che, semplicemente visitando e osservando con una buona disposizione d’animo, scoprivano cose egregie per puro caso. Certo. Ma, innanzitutto, si tratta di un’eccezione, poi, come hai detto, per stabilire che di scoperta si tratta, è necessaria la verifica e, dunque, il riferimento allo statuto metodologico e concettuale che consente di definire se è vero il ritrovamento o la scoperta.
NC: questo ci riporta alla questione nodale: cos’è la scienza?
ML: ma qui possiamo essere d’accordo…
NC: se si eccettua l’origine, dici? La scienza non è la sapienza di Salomone…
ML: infatti, è un dono diverso dello Spirito Santo [interrompe].
NC: scienza e sapienza sono due dei sette doni dello Spirito Santo?
ML: si.
NC: ottimo, non lo sapevo. Dicevo: la scienza non è la sapienza di Salomone, ma metodo e risultati presi insieme, non disgiunti. La scienza non è un sapere morale che santifica e concede la vita eterna, ma un prodotto di conoscenza fatto di vero relativo ad un metodo - come ripete il nostro presidente - soggetto a verifiche, potenzialmente all’infinito. La forza della scienza è nella sua natura profondamente umana di sapere in divenire che ha il suo connotato più caratteristico nella provvisorietà. Niente che assomiglia, mi sembra, ad un dono trascendente e perfetto.
ML: hai ragione nel distinguere ciò che correntemente si intende per scienza da ciò che ho voluto intendere poco fa. È giusto ciò che dici secondo questo modo di intendere, ma la mia prospettiva è diversa. Tu identifichi la scienza con il sapere scientifico che, con tutte le altre esperienze culturali, antropologiche e psicologiche, attraversa la storia: la precorre talvolta, ma le appartiene sempre, ed è anche parte della nostra natura, e, dunque, è provvisorio per l’una e per l’altra ragione. Senza bisogno di risalire a Platone che, nel dibattito fra opinione e scienza, dice che quest’ultima è consapevole di sé, possiamo dire che il sapere scientifico contemporaneo conosce la sua provvisorietà e ne fa metodo. Questo, per me, è prodotto del lavoro umano nel tempo; lavoro che prende tutte le caratteristiche della mentalità, dei desideri, dei bisogni del mondo umano che si costituisce - come diceva Wittgenstein - quale insieme dei fatti. Ma l’insieme dei fatti si sviluppa come una figura continuamente cangiante, che muta nel tempo e, con essa, anche la sua scienza cambia ed è provvisoria…
NC: [interrompe] la provvisorietà alla quale mi riferivo…
ML: [interrompe a sua volta] scusa, volevo completare, brevemente, poi mi precisi sulla provvisorietà. Dicevo: l’insieme dei fatti si sviluppa come una figura continuamente cangiante, che muta nel tempo e, con essa, anche la sua scienza cambia ed è provvisoria. Ma io mi riferisco alla radice che originariamente genera tutto questo: una radice che può dar luogo alla pianta della scienza del mondo che tu hai descritto, o generare un desiderio che trova il suo naturale compimento nella scienza intesa come conoscenza di ciò che fonda la vita dello Spirito.
NC: la provvisorietà alla quale mi riferisco è il prodotto del lavoro interno della scienza, del progredire delle conoscenze empiriche che generano interpretazioni, ipotesi e teorie, dalle quali viene nuova ricerca che porta nuovi dati e nuove nozioni, e così via. In una ciclicità in progresso. Non mi riferivo alla provvisorietà dettata dalle mode di pensiero o dai cambiamenti della società. E dicevo in questo senso, nella sua realtà di prodotto dell’intelligenza che crea ipotesi e teorie e di lavoro che produce confutazioni o conferme che consentono di scegliere e progredire, che si costituisce la sua natura profondamente umana di sapere in divenire e non quella divina di dono trascendente e perfetto. Con tutto il rispetto per la tua opinione, mi sembra che si fondi su un’astrazione poco adatta alla realtà contemporanea.
ML: tu intendi per scienza l’impresa scientifica e tutto ciò che appartiene a quella categoria concettuale per convenzione culturale. Ma in questo ambito eterogeneo sono inclusi elementi diversi fra loro, alcuni dei quali se separati dal contesto non appartengono alla scienza. Le procedure, ad esempio, da sole significano poco o nulla. Non fa certo scienza l’industria cosmetica quando segue rigorose procedure chimiche di saggio, analisi e preparazione per realizzare un prodotto. L’esecuzione corretta di procedure rispettose del metodo scientifico non assicura che si stia facendo scienza: è necessario conoscere i principi e perseguire un fine di scoperta o di verifica di un’ipotesi o di una teoria. Una volta il presidente mi ha raccontato che un professore di anatomia microscopica, suo maestro di istochimica in laboratorio, per far aderire meglio dei preparati al vetrino porta-oggetti del microscopio, si bagnava il dito sulla punta della lingua e lo passava sul vetrino: un’astuzia di mestiere. Tutto serve ed è importante per ottenere nuovi “oggetti di percezione” o di cognizione, per scoprire una struttura, una molecola o una regolarità di fenomeni dai quali trarre una nuova nozione. Ma non dobbiamo commettere l’errore di conferire ai singoli mezzi, cioè le procedure, le metodiche, gli strumenti e l’abilità nel loro impiego, il valore di senso di ciò che contribuiscono a produrre…
NC: d’accordo, ma non vedo il rapporto con la mia critica alla tua opinione.
ML: cerco di farti notare qualcosa che posso sintetizzare in due punti: 1) vero relativo ad un metodo è il modo con il quale possiamo spiegare il senso del prodotto del metodo scientifico, non definire la scienza; 2) ciò che tu intendi per scienza, ossia l’impresa scientifica e tutto ciò che appartiene a quella categoria concettuale per convenzione culturale, include mezzi eterogenei, spesso singolarmente necessari ma non sufficienti a rappresentare il senso della scienza. Pertanto, anche tu compi un’astrazione quando riduci la scienza a pratiche separate dal valore dei principi e degli scopi. Non tutto quello che si fa nella ricerca è realmente scienza. Così come non tutti quelli che lavorano nella ricerca sono scienziati.
NC: ma questa questione è bene presente e molto dibattuta fra i ricercatori. Ricordo che Edelman raccontava spesso che Monod non riteneva Freud uno scienziato, almeno il Freud fondatore della psicoanalisi, perché le sue congetture non si basavano su evidenze sperimentali. Ma non tutti erano della stessa opinione. Pensa all’omaggio ricevuto da Kandel, che ha fatto realizzare la copertina dei Principles of Neuroscience con la fotografia di un preparato microscopico di Freud.
ML: volevo riferirmi a coloro che producono risultati secondo le regole e le procedure del metodo scientifico, ma non sono studiosi del senso che è in gioco attraverso la verifica sperimentale; che non solo non sono autori delle idee poste al vaglio del laboratorio, ma nemmeno si sforzano di concepire la portata complessiva di quanto si studia.
NC: personalmente posso essere d’accordo su questo punto. Voglio dire: posso condividere il giudizio sul profilo della persona secondo i tuoi criteri, ma rimane il fatto che non credo sia necessaria la presenza di una radice di senso più profonda della pragmatica logico-empirica, già definita nel XVII secolo, per fare scienza. La “conoscenza di ciò che fonda la vita dello spirito” non è necessaria alla comprensione matematica, fisica e chimica del mondo… La tua prospettiva è suggestivamente interessante ed ha anche un’armonia logica nel suo disegno: piacerebbe ad Einstein che era credente e traeva dalla certezza della regolarità matematica del creato la fede nella possibilità di comprenderlo… la celebre frase: “Dio non gioca a dadi”, è sempre la migliore sintesi del rapporto fra concezione fideistica della realtà e pratica della conoscenza. O no? Ma la tua idea che la scienza abbia una radice nella conoscenza di ciò che fonda la vita dello spirito, dovrebbe essere provata. Dovresti darmi una prova sperimentale, in un contesto di verificabilità di popperiana memoria. Ma conosco l’obiezione: per voi credenti questo nucleo è verità assoluta che si comunica come sapere rivelato e tramandato attraverso le “Sacre Scritture”…, dunque: prendere o lasciare.
ML: press’a poco.
NC: volevo ritornare alla questione del limite indotto dal pensiero fideistico al “libero intelletto”, con un esempio tratto da una materia storico-filosofica cara ai ricercatori, soprattutto in Europa: il Dialogo dei Massimi Sistemi di Galileo Galilei. È vero che prima ho compiuto l’errore di assimilare il pensiero religioso di un periodo storico al valore ontologico di un credo, ma ora voglio riferirmi al condizionamento psicologico inconsapevole.
ML: che ritieni specifico della fede religiosa e diverso da tutti gli altri condizionamenti culturali che fanno parte della nostra formazione e a cui siamo costantemente esposti?
NC: non so, lasciami dire, vediamo insieme…
ML: scusami, prosegui.
NC: alla fine della prima giornata del “Dialogo” si propone un apprezzamento della codificazione linguistica come strumento di trasmissione della conoscenza; si parla di “caratteruzzi” per indicare le lettere dell’alfabeto che compongono le parole. Pensa a Sant’Agostino che faceva strani esperimenti con i neonati per vedere se parlassero spontaneamente greco, ebraico o un’altra lingua, ritenendo la genesi della parola un dono di Dio e non un’invenzione umana.
ML: innanzitutto si tratta di epoche diverse. Molti uomini di scienza non credenti all’epoca di Agostino ritenevano le lingue innate e solo in parte modificate dalla creatività letteraria umana, e consideravano la parola una facoltà dell’anima - magari non immortale e sita nel cuore - ma pur sempre secondo una concezione diversa da quella attuale di strumentalità cognitiva dovuta ad una specializzazione del nostro cervello. Ma non ricordi quel bell’incontro del Seminario intitolato “Il Volto delle Parole”, in cui si riferiva proprio delle deduzioni scientifiche di Sant’Agostino sul modo in cui si forma nella mente del bambino il rapporto fra il suono delle parole, il loro valore semantico e il senso concettuale?
NC: hai ragione: questo lo avevo dimenticato. Non ricordavo fosse Agostino. A mia discolpa posso dire che si tratta di un incontro di molti anni fa.
ML: infine, non per essere cavillosa ma per una precisione necessaria a restituire il senso autentico, devo dire che la tua citazione del “Dialogo” galileiano si riferisce all’invenzione della scrittura e non all’origine delle lingue parlate.
NC: giusto. Tu dici che il “codice” era solo quello della scrittura, per Galileo. Non mi sembra, però, che la sostanza cambi molto. La cabala, concepita dal popolo ebraico e poi adottata anche dai cristiani europei, consisteva in un gioco superstizioso di attribuzione di significati trascendenti ai segni indicanti le parole, fondato sulla credenza che i segni fossero di origine divina, e appartenessero ad una forma di rivelazione. Un bell’esempio degli effetti deleteri del pensiero fideistico.
ML: direi di no. Un bell’esempio di ciò che accade quando il pensiero magico, con la sua radice psicoantropologica, incontra le forme della cultura religiosa e le riduce a strumenti per i propri contenuti…
NC: opera del maligno [interrompe, sorridendo].
ML: sicuramente non è opera conforme al senso delle sacre scritture e alla cultura della fede giudaico-cristiana.
NC: per un non credente si tratta di sintesi fra un pensiero magico poco evoluto, come quello della numerologia e della qabbalah, ed un pensiero originariamente dello stesso genere, ma poi notevolmente evoluto in termini culturali, come quello delle teologie e delle filosofie ispirate ad una rivelazione.
ML: conosco questa tesi, tuttavia le ricostruzioni storiche sembrano non concederle molte possibilità per la religione ebraico-cristiana, che sembra nascere con la rivelazione, ossia con un tempo storico di incontro della coscienza umana con quella divina. Quel “punto zero” che al Seminario abbiamo fatto coincidere con il compiersi dello sviluppo dei requisiti umani nell’evoluzione dei nostri progenitori ancestrali.
NC: il vostro credere è dunque tutto fondato sulla verità della rivelazione: a cominciare dal fatto che ci sia stata. Il resto è solo una conseguenza. Al venir meno della verità della rivelazione, viene meno la fede.
ML: no, assolutamente no. Almeno, se ho ben capito ciò che vuoi intendere. Tu dici che la nostra fede si basa sul credere nella verità del racconto storico della rivelazione, sia quella del Vecchio Testamento, sia quella legata alla testimonianza che danno gli Apostoli del Verbo incarnato nella persona di Gesù Cristo? Ho capito bene?
NC: si, voglio dire che se si dimostrassero infondate le tradizioni relative alla rivelazione; se si scoprisse che sono frutto del desiderio, del bisogno e dell’ingegno letterario umano, in cosa credereste?
ML: press’a poco: se si dimostrasse che gli apostoli e i discepoli si erano messi d’accordo per dire le stesse bugie e, insieme con i protomartiri, avevano dato la propria vita per una fiction sul palcoscenico del mondo, non vi sarebbe più spazio per la fede?
NC: cosa rimarrebbe, a cosa si aggrapperebbe il senso delle moderne apparizioni, delle liturgie, delle interpretazioni?
ML: paradossalmente non cambierebbe nulla. Dico paradossalmente, perché è paradossale per un credente la tua provocazione. La verità dei Vangeli è legata anche a realtà storiche comprovate da documenti, e la plausibilità dei contenuti ha resistito duemila anni anche perché non vi sono reali obiezioni circa la buona fede dei testimoni. Ma ho detto che paradossalmente non cambierebbe nulla, perché chi crede non ritiene che la sua fede nasca da quella tradizione, al più crede che vi trovi conferma. La fede nasce dalla realtà di Dio nel presente. Dio è il Vivente: lui conferisce la fede come dono, e poi ci mette alla prova per valutare la nostra libera scelta di seguire i suoi comandamenti. Per noi credenti la rivelazione, l’incontro attraverso i sacramenti, la preghiera ed anche, per chi lo sperimenta, il vissuto mistico, sono momenti che prendono senso da uno stato mentale che è quello del credere. Uno stato mentale - ho detto - per sottolineare che non si tratta di una nozione o di un concetto. Non è una convinzione come quelle che derivano dalle nostre semplici conoscenze concettuali relative alla vita, alla storia o alla scienza dell’uomo. Il valore immenso della testimonianza degli Apostoli, per noi cristiani, si esprime proprio nella fede. Se non si crede per dono e per scelta di vita, non sarà certo la verità comprovata di un dato storico o di una interpretazione - come l’eccellente confutazione ripresa da Joseph Ratzinger della tesi che voleva Gesù di Nazareth uno zelota - a darci la comprensione del mistero divino della vita umana. Per chi crede, Dio non è un’ipotesi. Dio è guida nel presente. Papa Francesco ci invita a pregare il Signore perché ci insegni ad entrare nel mistero di Dio.
NC: già: il mistero. Quando ci siamo occupati della “ricerca dello spirito nel cervello” abbiamo fatto ampio riferimento alle tesi di un neuroscienziato credente del calibro di Mario Beauregard, il quale prende in esame l’esperienza mistica ed altre forme di vissuto collegabili al trascendente che considera transculturali e collettivamente raccoglie sotto la sigla RSME…
ML: ricordo perfettamente, e ricordo anche che Beauregard sosteneva che il cervello media, ma non produce le esperienze RSME, che lui ha studiato nelle suore carmelitane e che assimilava alla visione accecante del Risorto, che portò alla conversione San Paolo sulla via di Damasco, e alla visione verificatasi nel corso di una malattia che indusse Francesco d’Assisi a diventare lo straordinario santo dei poveri che tutti conosciamo…
NC: [interrompe] voglio dire che ci risiamo con la “rivelazione”: la rivelazione mitica esperita dai patriarchi e riportata nella tradizione biblica, le esperienze mistiche dei santi del passato e di persone del presente, che conterrebbero una rivelazione, ossia un contatto con una verità/realtà che non si manifesta in una oggettività materiale da tutti rilevabile ma, guarda caso, impiega la via della mente dei singoli…
ML: Beauregard ed altri prima di lui, fra cui Newberg e D’Aquili, hanno contribuito a cancellare definitivamente il marchio della patologia dalla reputazione di chiunque abbia avuto un’esperienza soprannaturale o mistica.
NC: è vero. Ma dimostrare che certe esperienze mistiche non si verificano nel contesto di uno dei quadri clinici della neurologia o della psichiatria contemporanea, non vuol dire che sicuramente sono un fenomeno “fisiologico dovuto ad un contatto con una realtà non materiale”. La questione è delicata, perché lo stesso Beauregard, nel libro che ha scritto con Denyse O’Leary, ipotizza che le RSME siano alla base della nascita delle grandi religioni. In altri termini, anche se oggi non si parla più di alterazioni del sistema limbico connesse con quelle del lobo temporale ed espresse come epilessia, sarebbero delle particolarità di funzione a dare origine ad un certo modo di sentire e pensare.
ML: come ho già detto, Beauregard ritiene che il cervello sia un mediatore, non un produttore dello stato psichico che avvicina al credo…
NC: non credo lo dimostri sufficientemente. Dimostra che esiste nell’uomo un livello psichico di astrazione-funzione superiore a quello generalmente esaminato negli esperimenti ed assimilato alla cognizione animale. Ma questo non credo sia sufficiente. E, poi, lo stesso Perrella è critico con questa formulazione del cervello che media ma non produce: che senso ha?
ML: si, ricordo che questo fu uno dei motivi per i quali si decise di non approfondire questo aspetto della discussione nel nostro scritto sull’argomento. Ma, non devo dirti io, che sono a zero rispetto a te per competenze neuroscientifiche, che l’interpretazione del Presidente era perfettamente coerente con le sue tesi sul funzionamento evocativo della mente e non escludeva alcuna ipotesi sulla fonte dell’evocazione.
NC: si, più che altro contestava la distinzione fra mediazione e produzione in quel caso. Ricordo gli esempi circa l’evocazione di stati d’animo e patterns funzionali al Seminario sull’Arte del Vivere. Sarebbe un lungo discorso che lascerei a lui, perché potrei dire delle inesattezze e sicuramente sarei incompleta. La maggior parte degli stati fisiologici indotti dai rapporti umani, come l’ira o l’innamoramento, sono effetto di evocazione ma il cervello produce lo stato che - come Giuseppe Perrella ci insegna - interessa tutto il corpo. La fonte di evocazione non dà certezze né sulle caratteristiche dello stato né sulla sua “realtà”. L’evocazione è sempre in qualche modo il prodotto dell’interazione fra lo stato attuale di una mente e le caratteristiche dell’evento evocatore.
ML: siamo al punto di prima. Nello stato mentale non c’è la prova che tu cerchi dell’esistenza materiale dell’evocatore, ma nemmeno la prova della sua inconsistenza, giusto?
NC: certo.
ML: d’altra parte - potresti dire tu - se è vero che Paolo di Tarso da persecutore e lapidatore di cristiani è diventato così santo da poter dire “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” perché aveva incontrato il Risorto, quanti, a cominciare da Giuda Iscariota, hanno frequentato o incontrato Cristo in persona e non si sono convertiti… Dunque, anche in questo caso, è vero che l’evocazione è sempre in qualche modo il prodotto dell’interazione fra lo stato attuale di una mente e le caratteristiche dell’evento evocatore, come dice il nostro presidente… Con la differenza che in questo caso, per noi credenti, è in questione il compiersi di un volere di Dio che richiede come conditio sine qua non la partecipazione dell’uomo.
NC: no, non volevo equiparare lo svilupparsi dello stato mentale di una fede alla radice più o meno stereotipa delle risposte affettive evocate. Anche se non escludo che lo si possa fare come esercizio. In proposito, però, ci sono studi molto più seri che abbiamo affrontato al Seminario.
ML: ricordo la questione della monopolizzazione del funzionamento mentale da parte di stati come quelli del fanatismo religioso, politico ed ideologico in genere, con tutta la serie degli studi presentati da Robert Ornstein a San Francisco… La lezione magistrale del Seminario, in proposito, rimane ineguagliata…
NC: appunto, di questo volevo parlare.
ML: ma ci porterebbe a considerare tutti i modi non ritenuti patologici in cui il cervello può disfunzionale o funzionare in modo sui generis…
NC: esattamente. E’ uno di questi funzionamenti particolari, la fede incrollabile.
ML: no. “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”, dice Gesù. Una coscienza perfettamente distaccata e capace di libero arbitrio che sceglie di obbedire per amore, anche quando non capisce; come un bambino che ama i suoi genitori e per questo obbedisce loro anche quando ciò va contro i suoi desideri. Il credo, quello cristiano almeno, suppone una scelta consapevole di obbedienza, non uno stato simile a quello di una mente plagiata che non può funzionare in un modo diverso da quello imposto dallo stato rigido che si è impossessato delle sue facoltà di scelta.
NC: il vero credente è libero, dunque, ma per obbedienza si impedisce di indagare…
ML: la fede riguarda la fiducia nell’esistenza di Dio e nella fedeltà delle sue promesse. Il vero credente non si preclude alcuna indagine ed uso del metodo scientifico; solo, non lo usa per verificare Dio, e in tal modo non pone i metodi della scienza e della ragione umana al di sopra del Creatore, dell’Eterno, per usare l’appellativo introdotto da Baruc nella Sacra Scrittura.
NC: in termini logici ha una sua coerenza: ciò che è al di sopra dell’umano, proprio nella sua essenza di realtà superiore a ciò che può essere esperito con i sensi e compreso con la ragione, non può essere indagato e vagliato con mezzi umani. Un sistema ben protetto. Come si dice in filosofia, catafratto? Quindi, il diventare “come bambini” si riferisce solo al non indagare con mezzi umani sulla natura di Dio, o si riferisce anche al non studiare Dio e a non indagare con mezzi umani il significato biologico della vita? Nel secondo caso sarebbero da escludersi sia la teologia che un gran numero di progetti di ricerca.
ML: la risposta è ovvia. La buona teologia vuole approfondire una conoscenza, non mettere alla prova un’esistenza. Indagare la natura per verificare l’esistenza di Dio è già assumere una posizione da non credente. La presenza o l’assenza della fede costituisce un requisito che fonda i presupposti inferenziali, ossia i contenuti mentali sulla base dei quali si interpretano i dati di realtà non banali, che richiedono un’elaborazione. Un credente può indagare qualsiasi cosa: semplicemente non farà dei suoi studi un banco di prova per l’esistenza dell’Altissimo. Indagare il significato biologico della vita non so cosa significhi esattamente, ma se volevi intendere un cercare di comprendere il fenomeno della vita secondo i principi di una scienza creata dagli esseri umani, ossia la biologia, non vedo dove sia il problema. Attualmente si tende ad interpretare l’origine della maggior parte dei fenomeni biologici sulla base delle teorie evoluzionistiche: qual è il problema? L’evoluzione non è che uno dei modi in cui si è attuata la creazione. La creazione, per le fedi ebraica e cristiana, prosegue attraverso la procreazione umana e la riproduzione animale. Che la scoperta dei processi evoluzionistici e la nascita della moderna filogenesi mettesse in crisi la fede in Dio, era opinione di Charles Darwin, un non credente.
NC: conosco bene questa prospettiva, che è anche rigorosamente scientifica: accettare ed usare le scoperte scientifiche di Darwin, rifiutando la sua filosofia. Ma volevo dire una cosa diversa. Indagare l’origine dei sistemi molecolari interdipendenti dai quali presumibilmente è originata la vita, ossia il formarsi di un acido nucleico che contiene la memoria per la realizzazione di un organismo, potrebbe spostare l’origine del mondo dal senso di un atto di volontà divina, che si esprime nella creazione, al valore di un processo di necessità.
ML: Perché? Si potrebbe scoprire, ad esempio, che la vita era necessaria al mantenimento degli equilibri che assicurano la stabilità del mondo inorganico che costituisce un pianeta: ebbene, cosa toglie questo all’esistenza di Dio? L’armonia che percepiamo nel cosmo è conseguenza del modo in cui noi stessi siamo fatti, come è stato efficacemente dimostrato al Seminario sull’Arte del Vivere.
NC: bene. Il tempo a nostra disposizione sembra essere finito, ma vorrei continuare questo dialogo, perché ho ancora molte cose da proporre alla tua riflessione.
ML: riprenderemo senz’altro da dove ci siamo interrotte, mi auguro presto.
Le autrici del dialogo
ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la trascrizione della
registrazione e la revisione del testo.