Quali psichiatri e quale psichiatria?

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI –30 novembre 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

La motivazione per questo breve scritto l’ho ricevuta da alcune e-mail di commento riconoscente ed entusiastico alla recensione della professoressa Monica Lanfredini del volume “The Book of Woe: The DSM and the unmaking of psychiatry[1]; commenti che mi hanno indotto a fare qualche considerazione in ideale prosecuzione dell’ottimo scritto recensivo. Da psichiatra, la lettura del saggio di Greenberg mi ha indotto interesse e preoccupazione, sia per il profilo culturale dello specialista della salute mentale, che emerge dai tanti riferimenti agli autori del DSM-5, sia per lo stato della psichiatria. Mi sono chiesta, allora, ma di quali psichiatri e di quale psichiatria si parla?

 

Quali psichiatri? Ho assistito alla conversazione, in preparazione della recensione, fra la Lanfredini e il presidente Perrella, e sono stata colpita da un passaggio al contempo semplice ed efficace: la professoressa riferiva, non senza meraviglia, che secondo Greenberg la maggior parte degli operatori è consapevole del fatto che il DSM è un work of fiction, ma il presidente ha colto l’occasione terminologica per rincarare la dose, dicendo che nella sua esperienza molti psicologi assomigliano ad interpreti di una fiction di basso livello qualitativo. Cosa voleva dire? Lo ha subito spiegato: una pratica non sostenuta da una cultura, ma limitata al know how per una serie di procedure; cosa che rende questi professionisti simili ad attori che imitano modi e forme, non possedendo la sostanza di una conoscenza che fonda la reale identità di ruolo.

 Una questione nevralgica è la formazione di chi usa il DSM, così come test singoli, in serie o in batterie, per porre diagnosi psichiatriche.

Vari quadri psicopatologici, come osservato e insegnato da Giuseppe Perrella, o sono prodotti o possono essere clinicamente mimati da un’alterazione cerebrale diretta o indiretta, cioè da una patologia del cervello oppure da uno stato di alterazione presente in altri distretti dell’organismo ed in grado di agire sulle funzioni dell’encefalo. Gli esempi che il professore citava, già tre decenni fa, sono numerosi ma, dopo aver menzionato il caso più noto, riportato da Silvano Arieti, di un tumore cerebrale scoperto dopo la morte in una persona internata per schizofrenia, basterà ricordarne solo alcuni: psicosi simulate da malattie neurodegenerative del cervello, depressione ansiosa causata da iperincrezione del cortisolo nella sindrome di Cushing, sindromi nevrotiche indotte da ipertiroidismo, sintomi dell’autismo infantile prodotti da malformazioni vascolari cerebrali o tumori e, infine, l’esempio di una sindrome caratterizzata da deliri e allucinazioni per squilibrio idro-elettrolitico conseguente ad intervento chirurgico di asportazione di un lungo tratto di intestino.

Numerosi, ed alcuni strazianti, i casi citati dal professore di mancata diagnosi medica dovuta al rivolgersi in prima istanza a psicologi per sintomi manifestati da bambini; ricordo solo una bambina affetta da Sclerosi Tuberosa di Bourneville, trattata per tanti anni con una costosissima ed inutile psicoterapia con sedute trisettimanali, mentre i tumori cerebrali e sistemici della neurofacomatosi si sviluppavano indisturbati.

Non è una nostra opinione, ma una ragionevolezza necessaria e imprescindibile, che siano dei medici, con una solida formazione neurologica ed internistica, oltre che psichiatrica, a porre diagnosi.

L’esclusione di una causa organica, come primo passo della diagnosi psichiatrica, era un punto fermo dell’insegnamento di Franco Rinaldi, già prima che divenisse noto ed apprezzato presidente della Società Italiana di Psichiatria. Lo straordinario progresso nella capacità diagnostica che si è compiuto in questi quattro decenni, soprattutto grazie all’introduzione di strumenti di alta tecnologia, ha confermato e fortemente rafforzato la consapevolezza della necessità di tener conto del sapere biomedico e neuroscientifico per decifrare le ragioni, se non proprio le cause, di sintomi psicologici. Eppure, come si legge in “Viaggio nel DSM-5”, la diagnosi di sindrome di Rett, unica fra quelle del DSM-IV che oggi avrebbe potuto avere la certezza assoluta grazie ad un esame di genetica clinica, non è presente nella nuova edizione: “Oltre quarant’anni di studi sono stati necessari per giungere ad un test genetico che oggi consente di avere una diagnosi scientificamente certa. Ebbene, la diagnosi di “Disturbo di Rett”, indicata nel DSM-IV con il codice F84.2, è stata esclusa dal DSM-5.[2]. Una diagnosi sicura e vera è stata esclusa dal “work of fiction”. Alcuni membri del board del DSM hanno giustificato l’esclusione con un’esigenza di uniformità. Lo immaginate l’autore di un trattato di cardiologia che dica: “Abbiamo eliminato questa malattia del cuore perché la diagnosi si fa in modo diverso dalle altre”?

Ricordo l’editoriale di presentazione del decennale della rivista Molecular Psychiatry nel quale, considerando i progressi degli ultimi dieci anni di questa branca delle neuroscienze, si indicavano cambiamenti di prospettiva ineludibili per la pratica clinica.

È una pura follia tornare indietro. In un certo senso, si tratterebbe di regredire di mezzo secolo, a quando cioè, senza alcuna dimostrazione di fondatezza, alcune correnti di pensiero psicologico[3] sostenevano la tesi secondo cui sarebbero state di competenza di psicologi e psicoanalisti non-medici tutte le nevrosi, le psicopatie (parafilie) e le psicosi, eccetto quelle organiche; e sarebbero state di competenza psichiatrica solo le sindromi derivate da malattie neurologiche o da altre cause mediche di danno organico. Secondo questa tesi, che tendeva a definire ambiti di potere professionale e a curare interessi lobistici, tracciando artificiosamente confini fra “sindromi psicogene” e “malattie organiche”, la massima parte dei disturbi psichiatrici doveva considerarsi “sindrome psicogena”, esclusiva conseguenza di esperienze psichiche, con la mediazione dell’inconscio patogeno, secondo la versione psicoanalitica, o di cattivi apprendimenti comportamentali, secondo la versione behaviorista.

 

Quale psichiatria? Eleanor Longden, ricercatrice di dottorato presso l’Institute of Psychological Sciences dell’Università di Leeds, che ha sofferto di un disturbo caratterizzato da allucinazioni uditive, ha raccontato la sua esperienza di paziente psichiatrica in una comunicazione orale[4], che ha poi ripreso per un recente articolo. La storia ha fatto il giro del mondo attraendo l’attenzione di ricercatori e psichiatri per la virtuosa abilità della Longden nella gestione del suo sintomo, ma trasmettendo anche un altro contenuto, sul quale vorrei brevemente soffermarmi riprendendo, in estrema sintesi, la trama della narrazione.

Eleanor era una giovane e brillante diplomata alla high school, quando intraprese gli studi universitari con determinazione, ottimismo e speranza, partecipando a tutte le attività del campus, dalle conferenze ai ricevimenti, con interesse e piacere. Nulla lasciava presagire che qualcosa di negativo sarebbe accaduto, sebbene la ragazza, come molti giovani che lasciano per la prima volta la casa paterna e gli affetti familiari, provasse una sensazione di vuoto interiore e celasse ansie, insicurezze e timori di fronte alle prime prove della vita adulta.

Durante il secondo semestre dell’anno accademico, subito dopo essere uscita dall’aula di un seminario, udì una voce che, con un tono calmo e pacato, proponeva un’osservazione: “Lei sta lasciando l’edificio”. Eleanor si guardò intorno, ma non scorse nessuno. I caratteri acustici di quella percezione erano tali, per la sua coscienza, che non sospettò minimamente che la voce potesse provenire dal suo cervello. Ne rimase però turbata, e si precipitò a casa cercando di allontanarsi in fretta dal luogo di quella sensazione sgradevole. Appena giunta, udì nuovamente la voce: “Lei sta aprendo la porta”. La voce era arrivata a casa con lei e, da quel momento, non l’avrebbe più lasciata per un lungo periodo, in un “orribile viaggio personale”.

Eleanor, dopo i primi due mesi, aveva confidato il suo problema ad un’amica che, insospettita e impaurita, si allontanò da lei; poi ne parlò con il medico del college, che la inviò ad una psichiatra dalla quale fu formulata la diagnosi di schizofrenia. Eleanor racconta di aver deciso di non considerare la voce come un sintomo della sua presunta psicosi schizofrenica, ma come un’esperienza da gestire con le risorse della sua intelligenza e della sua volontà. In altri termini, la strategia che in questi casi il presidente della nostra società suggerisce da tempo immemorabile e che la nostra scuola ha cercato di porre all’attenzione degli psichiatri come promozione di un “atteggiamento attivo basato sulla consapevolezza di avere le risorse per affrontare e neutralizzare gli aspetti deleteri del sintomo”[5].

Ma la questione sulla quale voglio richiamare l’attenzione del lettore è che la storia contiene elementi sufficienti perché un medico, che abbia anche solo un’infarinatura di psichiatria, si renda conto che la diagnosi di schizofrenia era sbagliata. Non posso non rimandare al paragrafo intitolato “Qualcuno volò sul nido del cuculo” del Viaggio nel DSM-5: i criteri per la diagnosi di schizofrenia tratti dalla tradizione della clinica mitteleuropea furono introdotti nel DSM-III proprio per lo straordinario numero di errori diagnostici. Ma cosa è cambiato?

Eleanor non delirava e non presentava gli altri sintomi necessari per ipotizzare che nel suo cervello vi fossero le alterazioni fisiopatologiche della schizofrenia. Ho proposto questo caso, proprio per sottolineare che, accanto alla bontà e all’efficacia dell’autoterapia della Longden, l’aspetto saliente è che lei non è guarita dalla schizofrenia, perché non era schizofrenica.

Abbiamo una prova interessante di una causa dell’errore diagnostico, costituito dal pregiudizio indotto dalle allucinazioni uditive. Gli appunti della psichiatra, poi raccolti nel “registro medico permanente” computerizzato della sua paziente, includono un’osservazione scritta al termine di una lunga seduta, quando Eleanor disse di dover andar via per leggere le news del notiziario delle 18. L’annotazione diceva più o meno: “Eleanor delira di essere una lettrice televisiva di notizie”. Eleanor, invece, era membro dello staff della stazione TV del campus, gestita dagli studenti, e realmente era attesa per la lettura di quel notiziario.

Dopo l’istruttivo caso della Longden, un’altra questione sulla quale vorrei spendere qualche parola è, in generale, la concezione della diagnosi e, in particolare, l’esercizio diagnostico in clinica psichiatrica. Se diagnosticare vuol dire adoperare delle procedure per passare attraverso (dia) i sintomi e i segni e conoscere (gnosis) il processo che li causa[6], una diagnosi è certamente “encefalopatia erpetica”, ma non si possono ritenere diagnosi la maggior parte delle etichette del DSM. Alcuni esempi tratti dal DSM-5 mi sembrano particolarmente significativi: (V60.2) Basso stipendio; (V60.9) Problema non specificato di abitazione o economico; (V15.41) Storia personale (storia passata) di violenza del coniuge o del partner, di tipo sessuale; (V62.5) Condanna in procedimenti civili o penali senza detenzione; (V62.5) Detenzione o altre forme di carcerazione; (V65.49) Counseling sessuale; (V65.40) Altra consultazione o counseling; (V62.89) Problema religioso o spirituale.

Se la storia di violenza si può considerare un elemento anamnestico che potrebbe contribuire con altri dati e sintomi ad orientare una valutazione diagnostica, il basso stipendio o la condanna in un procedimento civile, non hanno certo alcun rapporto con una diagnosi psichiatrica, ossia con la definizione del disturbo mentale responsabile di un insieme di sintomi psichici e comportamentali.

Non si tratta qui, dunque, di una diagnostica, ma di una sorta di tassonomia, ovvero di un sistema di classificazione che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere paragonato a quelli concepiti su base descrittiva fin dal tempo di Aristotele e storicamente impiegati dalle scienze naturali per riconoscere e denominare.

Concluderei citando Monica Lanfredini e ricordando che, la psichiatria e gli psichiatri che conosciamo e speriamo rappresentino un punto di partenza per una nuova pratica clinica, sono lontani dal board del DSM: “Pertanto le critiche, anche le più severe e demolitrici, non ci appaiono come un disfacimento del lavoro di anni nel campo dei disturbi mentali ma, secondo l’ottica proposta dal nostro presidente, possono costituire un contributo efficace per sgombrare il campo da criteri, costruzioni ed approcci artificiosi e lontani da quei riferimenti certi dai quali si dovrà ripartire per elaborare una nuova concezione solidamente fondata sulla conoscenza scientifica”[7].

 

L’autrice ringrazia il presidente Perrella, con il quale ha discusso l’argomento trattato e preparato il testo, e invita alla lettura di tutti gli scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-30 novembre 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Note e Notizie 16-11-13 Il libro dei Woe e la crisi della psichiatria.

[2] Si veda in Note e Notizie 06-10-12 Viaggio nel DSM-5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti – sesta parte. Il testo, pubblicato in sette parti dal 30 giugno al 13 ottobre 2012, è tratto da una relazione tenuta da Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, il 22 giugno di quell’anno. Si raccomanda la lettura di seguito delle sette parti che, oltre a fornire un interessante quadro critico della nuova edizione del DSM, costituiscono una straordinaria lezione di psichiatria.

 

[3] A proposito di queste correnti di pensiero, il presidente Perrella ha parlato di psicoideologia o di sapere a struttura ideologica.

[4] Il talk al TED di Long Beach (California) si è tenuto il 28 febbraio 2013.

[5] La formulazione è posta tra virgolette perché si tratta delle parole che Giuseppe Perrella ordinariamente usa per riferirsi a questo principio auto-terapeutico, basato su una fiducia nutrita da contenuti scientifici e sostegno personale forniti dallo psichiatra.

[6] Anche qui si fa ampiamente riferimento agli insegnamenti del presidente, e si rimanda il lettore a tutti gli scritti in cui si affronta l’argomento e il problema della diagnosi in psichiatria, comparando questa procedura con la diagnosi in medicina generale. Significativo questo brano tratto dal “Viaggio nel DSM-5” (in “Note e Notizie”, quinta parte del 29-09-12): “La diagnosi in psichiatria, pur nel suo lungo e difficile percorso verso una meta di procedura scientifica, tende, come quella in medicina e chirurgia, a realizzare un’applicazione delle conoscenze scientifiche relative alla patologia; pertanto, definire categorie diagnostiche in base all’apparenza superficiale dei caratteri di una condotta, vuol dire andare in direzione opposta.

Mi si perdoni, allora, se ritorno sul concetto di diagnosi in medicina e, per traslato, in psichiatria: diagnosticare vuol dire impiegare procedure scientifiche per passare attraverso manifestazioni esteriori ritenute significative (segni e sintomi) sulla base di scienza ed esperienza pregresse, e giungere a determinare i processi e gli elementi causali alla base dello stato di alterazione presente in un determinato paziente. Tutto ciò, come abbiamo visto, allo scopo di ristabilirne la condizione di salute e, più specificamente in psichiatria, di equilibrio psico-fisico. La diagnosi è, in questo senso, un’operazione che consente l’applicazione al singolo caso della conoscenza scientifica acquisita nel settore della patologia molecolare, cellulare e dei sistemi, relativa a quel disturbo”.

 

[7] Note e Notizie 16-11-13 Il libro dei Woe e la crisi della psichiatria.