Il libro dei Woe e la crisi della psichiatria
MONICA LANFREDINI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XI – 16 novembre 2013.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
Con quasi 400 pagine di impietosa denuncia, lo psicoterapeuta Gary Greenberg demolisce il DSM, in generale, e in particolare il DSM-5, l’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association, accreditato in tutto il mondo quale standard ufficiale per la diagnostica, gli studi clinici e l’impiego in tutte le circostanze legali ed assicurative che richiedono una diagnosi psichiatrica certificata. Il saggio di Greenberg, intitolato “The Book of Woe: The DSM and the unmaking of psychiatry” (Blue Reader Press, 2013; costo negli USA: $ 27.95), è in perfetta continuità con un articolo pubblicato dallo stesso autore su Wired nel 2010.
La copertina bianca, priva di immagini e di qualsiasi tipo di segno grafico o illustrativo, è quasi completamente occupata dal titolo in nero, nel quale campeggia la parola “WOE”, e solo in basso a destra reca il nome dell’autore in rosso. Una veste che rende con estrema eloquenza e immediatezza, al solo colpo d’occhio, le intenzioni di Greenberg e lo scopo del volume.
Per
introdurre le principali questioni problematiche che riguardano la psichiatria
e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) non avrei
parole migliori di quelle che estraggo da “Viaggio nel DSM-5”: “Mi riferisco al lungo e delicato periodo di
transizione culturale che si sta attraversando nel campo delle discipline
psicopatologiche, rimaste orfane delle grandi teorie che collocavano i dati di
osservazione psichiatrica in cornici di pensiero umanistico, psicoantropologico
o filosofico, e non ancora in grado di organizzare in forme coerenti la grande
quantità di dati ed acquisizioni concettuali emergenti dalle neuroscienze
biologiche e dallo studio mediante neuroimmagini dell’encefalo umano in
funzione. Infatti, se i nuovi studi da un canto hanno contribuito a modificare
la visione tradizionale delle basi neurali della mente, evidenziando la
fragilità e l’inconsistenza di congetture ed ipotesi assurte al rango di teorie
a fondamento della cultura psichiatrica accademica, dall’altro non erano latori
di strumenti intrinsecamente efficaci per la costruzione di una nuova scienza
psicopatologica.
D’altra parte si può affermare che, molto
tempo prima dei progressi neuroscientifici degli ultimi vent’anni, aveva avuto
inizio una crisi delle fondamenta teoriche su cui le grandi scuole avevano
costruito i principali paradigmi interpretativi della natura dei processi
psichici umani normali e patologici, con la semeiotica e la diagnostica che ne
era derivata, e che tale crisi aveva reso incerto e problematico l’agire dei
clinici.
Fra i numerosi dilemmi della pratica
quotidiana vi era la mancanza di nuovi riferimenti e strumenti di semeiotica
psichiatrica che sostituissero quelli adoperati fino a quel momento, non avendo
più giustificazioni per impiegare il presunto rapporto coerente fra tipo di
personalità e quadro clinico, il concetto di reazioni minori (nevrosi) e
reazioni maggiori (psicosi), la patogenesi psicodinamica delle sindromi
nevrotiche, l’ipotesi dell’inconscio patogeno, il valore simbolico dei sintomi,
il concetto di regressione teleologica alla base dell’involuzione cognitivo-emotiva
dello psicotico, l’analisi fenomenologica per la comprensione della
sintomatologia dei pazienti meno consapevoli e comunicativi, e così via.
Ebbene il DSM, dalla terza edizione in poi,
che si proponeva come una soluzione radicale per il clinico, quale il mitico
taglio del nodo gordiano, lungi dall’aver svolto questo ruolo - se non per chi
si fosse rassegnato a regredire ad una pratica rozza ed acefala di meccanica
attribuzione di codici corrispondenti a schemi terapeutici - per molti versi è divenuto parte dei
problemi. Al riguardo, si possono fare almeno due esempi su cui vi è unanime
consenso: 1) l’abolizione di diagnosi corrispondenti a precise realtà che
continuano a giungere all’osservazione clinica; 2) la creazione di categorie
diagnostiche fasulle, prive di fondamento scientifico, verosimilmente per
effetto di pressioni esercitate da lobbies
sostenitrici di interessi diversi da quelli strettamente legati alla tutela
della salute mentale”[1].
Nel “libro dei Woe” la profondità di analisi è minore di quella cui siamo abituati e, non se ne abbia a male Greenberg, anche lo spessore culturale dell’autore è più modesto rispetto a quello dei nostri principali riferimenti, tuttavia il lavoro appare di notevole chiarezza, efficacia e ricchezza informativa.
La soddisfazione nel leggere in queste pagine alcune verità che sembrava fossero evidenti solo a un certo numero di psichiatri italiani, quali quelli formati alla nostra scuola neuroscientifica o coloro che come Gaspare Vella e Massimiliano Aragona hanno analizzato con obiettiva precisione gli errori di metodo e merito del manuale in specifici saggi, mi ha ben disposto ed aiutato ad apprezzare altri pregi di questo lavoro.
Il saggio non è strutturato con una pars destruens e una pars construens ma è, come dichiarato nel titolo, un libro di woe. La piccola interiezione di tre lettere deriva dai wa e wo che compaiono nel Middle English e, a loro volta, originano dal wā dell’Old English, presumibilmente derivato dall’interiezione dell’Antico Norvegese vei, corrispondente al Latino vae. Nell’uso arcaico e letterario esisteva come sostantivo che stava ad indicare dolore, pena, male, calamità o sventura; a tale of woe era “un racconto di sventure” o, diremmo, le disavventure di qualcuno o qualcosa. Se woe is me!, vuol dire “ahimé!”, woe (be) to him!, sta per “sia maledetto!”. Concludendo questa breve disamina poco rassicurante sulle potenzialità semantiche negative del minuscolo lemma, ricordo che nell’uso corrente lo si adopera come esclamazione nell’angustia, nel dolore e nel rammarico, e come sostantivo per indicare un evento sfortunato o un’afflizione.
Ho proposto questo, spero non troppo noioso approfondimento linguistico, perché la scelta del vocabolo non è stata casuale, e Greenberg ne ha sapientemente impiegato il potere evocativo di sicuro effetto su persone di madrelingua inglese, come mi hanno confermato le professoresse statunitensi Cardon e Richmond.
Il “disfacimento della psichiatria”, annunciato nel titolo, emerge fondamentalmente da un insieme di interviste a membri di chiara fama dell’establishment psichiatrico, che forniscono la materia vera e propria del saggio. Il quadro che risulta ha tinte così fosche ed è talmente scoraggiante da indurre il lettore medio, non specialista del settore, a chiedersi come sia stato possibile giungere fino a questo punto e perché non si sia fatto nulla per impedirlo. Se con un tono semiserio si potrebbe commentare che, almeno da quest’altra parte dell’oceano, qualcosa si è fatto o, per lo meno, si è detto e scritto, più seriamente è necessario porre in questione una differenza di prospettiva. Per noi il DSM non è la psichiatria, non si identifica con il suo sapere, non è, come molti ritengono negli USA, lo strumento più progredito ed aggiornato per la diagnosi psichiatrica, che ha recepito i progressi compiuti dalla ricerca psicopatologica e neuroscientifica. Pertanto le critiche, anche le più severe e demolitrici, non ci appaiono come un disfacimento del lavoro di anni nel campo dei disturbi mentali ma, secondo l’ottica proposta dal nostro presidente, possono costituire un contributo efficace per sgombrare il campo da criteri, costruzioni ed approcci artificiosi e lontani da quei riferimenti certi dai quali si dovrà ripartire per elaborare una nuova concezione solidamente fondata sulla conoscenza scientifica.
Greenberg sostiene che tutti gli psichiatri, e gli altri professionisti che lavorano nel campo della salute mentale con impegno e competenza, hanno ormai capito da tempo che il DSM è un work of fiction: una costruzione che esprime la cultura prevalente dell’American Psychiatric Association e recepisce le esigenze delle case farmaceutiche e di altre lobbies, ma ha pochi contatti con la realtà oggettiva (psicopatologica) e soggettiva (vissuto di sofferenza o disagio) del singolo paziente reale. Come non ricordare, in proposito, il problema delle diagnosi multiple così bene stigmatizzato nel già citato “Viaggio nel DSM-5”?
Fra i tanti rilievi critici un’osservazione merita una speciale considerazione, perché relativa ad un fatto inconfutabile: nessuno dei disturbi classificati nel manuale, a differenza di quanto avviene nelle altre specialità mediche, ha trovato corrispondenza in uno specifico marker biologico che lo identifichi con certezza e consenta di distinguerlo da altre sindromi simili. La questione non è di poco conto, perché mette in discussione la dignità di pratica diagnostica medica per le procedure cliniche indicate nel DSM.
Le etichette diagnostiche del DSM, lungi dal riflettere insiemi di segni e sintomi organizzati in quadri clinici discreti, a ciascuno dei quali corrisponde un tipo di processo patologico o una forma di espressione patogenetica particolare, sono di fatto delle definizioni convenzionali - spesso conservate a dispetto della loro dimostrata incongruità con le conoscenze più recenti - e non originate dall’applicazione rigorosa dei paradigmi della patologia. Infatti, i criteri stessi in base ai quali sono raggruppate o distinte le sindromi sono vari, poco scientifici e non di rado in conflitto fra loro: Greenberg sostiene che le denominazioni dei disturbi siano etichette poco più che arbitrarie per blocchi di sintomi spesso sovrapposti e confusi gli uni negli altri.
Un altro aspetto messo a fuoco nel “libro dei Woe” è la strumentalizzazione del DSM per interessi economici: alcuni esempi proposti nel testo sono realmente impressionanti. L’American Psychiatric Association, un’organizzazione con problemi finanziari e di riduzione degli iscritti che conta oltre 36.000 membri, ha mal gestito ben 100 milioni di dollari ricavati dalla vendita della quarta edizione del manuale. Inutile dire che il suggerimento o l’obbligo di adozione del DSM per milioni di professionisti non medici, che non hanno né una formazione per la gestione di un processo diagnostico, né il compito di fare diagnosi psichiatriche, è servito ad espandere enormemente nel mondo le vendite del testo, con la realizzazione di incassi da capogiro. Solo negli USA più di 400.000 professionisti abilitati per l’esercizio di attività nel campo della salute mentale dipendono dai codici diagnostici del DSM per le retribuzioni assicurative. Ciascuno dei ricercatori di spicco nel campo della psichiatria, che è stato spinto dalle aziende farmaceutiche ad una forzatura o ad un uso improprio delle categorie diagnostiche del DSM allo scopo di aprire ai bambini il mercato delle prescrizioni di farmaci di potenziale vastissimo impiego, ha ricevuto oltre un milione di dollari.
Greenberg dedica uno spazio notevole all’illustrazione del mondo del panel che si è occupato della redazione del nuovo manuale, alla descrizione delle personalità dei componenti dei gruppi di studio e di lavoro che sono stati all’opera, e ai dibattiti proseguiti per anni su quali disturbi si dovessero includere e quali escludere dal DSM-5, soffermandosi particolarmente sulla diatriba sorta a proposito della medicalizzazione dell’esperienza del lutto per la perdita di una persona cara. Il criterio fin qui seguito escludeva dalla diagnosi di depressione lo stato reattivo per la morte di una persona amata. Fin dal celebre scritto di Freud, “Lutto e Melancolia”, la semeiotica psichiatrica aveva distinto l’affetto del lutto dalla condizione depressiva espressa come vero e proprio stato patologico. Il DSM-5 ha eliminato la barriera dell’esclusione - osserva Greenberg - portando alle aziende farmaceutiche otto milioni di nuovi potenziali clienti ogni anno.
L’unico modo efficace per combattere questa deriva, che mi venga in mente, è il costituirsi di una cultura della conoscenza della mente umana, profondamente meditata e scientificamente fondata, in una generazione di interpreti integri e capaci di contrapporre allo stile della corruzione imperante al servizio della mercificazione, un modello di realizzazione umana e professionale nella missione di un servizio nell’interesse superiore del vero nella conoscenza e della salute del prossimo.
L’autrice della nota invita alla
lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che appaiono sul sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] Note e Notizie 30-06-12 Viaggio nel DSM-5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti – prima parte. Il testo, pubblicato in sette parti dal 30 giugno al 13 ottobre 2012, è tratto da una relazione tenuta da Giuseppe Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, il 22 giugno di quell’anno.