La coscienza a cinque mesi e fino a un anno e tre mesi
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XI – 02 novembre 2013.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]
Vari gruppi di ricerca hanno indagato i segni dell’attività cosciente nel cervello di bambini nel primo anno di vita, ed uno studio recente sembra aver identificato un segno indicativo della presenza della coscienza, secondo alcune interpretazioni, in bambini di soli cinque mesi.
La coscienza dei neuroscienziati non è quella dei filosofi e degli psicologi, identificandosi con lo stato funzionale del cervello durante un’esperienza di cui si è consapevoli. Ma, pur adottando il criterio di questa definizione, rimangono problematiche la natura e la misurabilità dell’oggetto sperimentale indagato. Basti solo pensare che il riconoscimento della natura si basa su un parametro a verifica soggettiva come la consapevolezza, e la misura si fonda su ipotesi ragionevoli circa l’attivazione di sistemi cerebrali, ma su nessun dato certo[1].
In proposito, il presidente della nostra società scientifica si è così espresso di recente: “Se è vero che il concetto di coscienza si identifica con l’esperienza che ciascuno fa dell’essere consapevole di se stesso, del mondo, del tempo e dello spazio in cui vive, è pur vero che la nozione operativa di coscienza quale stato funzionale del cervello è estesamente impiegata ed accettata anche al di fuori dell’ambito delle neuroscienze sperimentali. L’indubbia utilità di questa convenzione non deve però far dimenticare le insidie che può nascondere: è necessario ricordare sempre che si tratta di una scelta di comodo necessaria per poter denominare quanto ancora non si conosce in termini di natura e misura. Ad esempio, ritenere che l’esperienza cosciente sia prodotta da un sostrato morfo-funzionale del cervello, non vuol dire in alcun modo aver stabilito “cosa” la coscienza sia e quali siano i suoi limiti rispetto alle funzioni non coscienti. E si deve tener conto che chi non voglia adottare criteri riduzionisti, anche allorquando tale sostrato sarà stato definito con precisione, potrebbe non identificarlo con la coscienza stessa.
Personalmente, a differenza del mio maestro Gerald Edelman, ho nutrito più di un dubbio sull’opportunità di conservare il termine “coscienza”, con la sua storia culturale e la sua tradizione semantica, per denominare l’entità che la ricerca neuroscientifica sta cercando di delineare. Un’entità che sembra essere tanto diversa da quella ricalcata dai concetti aurei della tradizione filosofica, quanto dalla funzione neurologica ordinariamente esplorata dai medici mediante la verifica di capacità come quella di orientamento nel tempo e nello spazio. […].
Se avere una nozione operativa per esplorare ed indagare un oggetto non vuol dire avere un sostituto analogico dell’oggetto stesso, ma solo un modo provvisorio per indicare qualcosa che prenderà forma dagli esiti sperimentali, si comprende quanto sia aleatorio proporre su questa base domande quali: «Gli animali hanno una coscienza? A quale età i bambini diventano coscienti?». Basti pensare che il modello implicito che sottende il concetto operativo di coscienza, così come quello adottato per le elaborazioni teoriche, coincide con la dimensione mentale consapevole di un essere umano adulto medio non affetto da disturbi mentali o da gravi patologie che interferiscano con il regime ordinario della funzione psichica di base. Se invece abbiamo ben chiaro che la nozione operativa corrisponde a correlati neurofunzionali, quali l’attività corticale nella frequenza gamma individuata da Crick e Koch o il potenziale cognitivo evocato dopo circa 300 millisecondi (P300), allora può aver senso chiedersi se tali correlati siano rintracciabili nel cervello di altri mammiferi e a quanti mesi o anni di vita compaiano nei bambini.
Proprio in questi giorni, una rubrica tenuta da Christof Koch su Scientific American Mind, ha reso nuovamente attuale l’argomento dell’epoca in cui la coscienza si manifesta nel bambino…”[2].
Le parole qui riportate mi consentono di introdurre la problematicità dell’interpretazione dei risultati sperimentali che intendo proporre e discutere, e mi aiutano a rendere le ragioni di una prudenza che, seguendo ipersemplificazioni di moda, potrebbe apparire eccessiva.
Altrove, Perrella ha chiarito in modo eloquente la sua opinione sulla liceità dei paragoni fra stati funzionali collegati alla coscienza, facendo ricorso ad esempi tratti dall’anatomia. Ne cito uno: un bambino e uno scimpanzé hanno le mani; ha perciò senso paragonare la mano della persona umana adulta media a quella del neonato o a quella di uno scimpanzé. Se potessimo definire la coscienza con la precisione anatomica di un membro o di un organo del corpo, non avremmo difficoltà nel cercare di datare la comparsa della coscienza nelle epoche iniziali della vita.
Come si vede, si tratta di un problema diverso da quello sollevato dalla prospettiva filosofica, che è maggiormente incentrata sulla natura esclusivamente individuale dell’esperienza cosciente. A proposito della ineliminabile componente soggettiva della coscienza, studiata mediante i qualia, si ricorderà la celebre formulazione “sapere cosa si prova ad essere un pipistrello”. Ma, se sapere cosa si prova ad essere un altro non è materialmente possibile, si può ritenere che gli elementi neurali associati a quanto si riesce ad oggettivare siano sufficienti per definire lo stato mentale?
Dunque, in questa ottica non avrebbe senso chiedersi se neonati e pipistrelli hanno una coscienza, perché sappiamo che hanno una dimensione mentale diversa e propria. Se, invece, intendiamo per coscienza i correlati neurofunzionali dell’attività mentale alla base della vita di relazione o il governo dell’elaborazione percettivo-motoria in rappresentanza delle esigenze dell’organismo e nelle risposte adatte agli stimoli e alle circostanze ambientali, allora può avere un senso, nella comparazione, cercare un’equivalenza.
La domanda: “A che età compare la coscienza?” potrebbe essere riformulata in questo modo: “Esiste nelle prime fasi della vita un’attività mentale o cerebrale globale che possa essere paragonata alla coscienza dell’essere umano adulto, intesa secondo la nozione operativa delle neuroscienze sperimentali?”. Formulando il quesito in questi termini, i risultati che indicano la “presenza della coscienza” potrebbero essere più prudentemente letti come rilievo di un correlato funzionale simile a quelli ritenuti caratteristici dell’attività cosciente delle persone adulte.
Prima di passare all’esame dei dati emersi dallo studio recente, mi piace ricordare due rischi o veri e propri errori in cui, secondo Perrella, può incorrere la riflessione teorica: 1) identificare un correlato neurale (frequenza γ; P300) di una funzione che si ritiene rappresentativa della coscienza con la coscienza stessa; 2) ritenere che l’andamento “tutto o nulla” sia un requisito così caratterizzante da poter essere impiegato quale marker della coscienza.
Stanislas Dehaene, matematico divenuto neuroscienziato cognitivo presso il Collegio di Francia, con lo psicologo Sid Kouider del Laboratorio di Scienze Cognitive e Psicolinguistiche della Scuola Normale Superiore di Parigi ed altri ricercatori danesi e francesi, hanno studiato il comportamento elettrico del cervello di 80 bambini divisi in tre gruppi per età: 5 mesi, 12 mesi e 15 mesi. Le prove di risposta agli stimoli sono state accuratamente studiate sulla base di una lunga esperienza di esperimenti con neonati e lattanti.
Tutti i piccoli hanno fatto registrare una risposta precoce che si sviluppa nelle regioni del cervello corrispondenti alla corteccia occipitale e subito al di sopra delle aree visive. Questa risposta era proporzionale al contrasto visivo e ad altri parametri delle immagini presentate ai bambini, e rifletteva l’elaborazione neuronica dello stimolo, indipendentemente dal fatto che fosse o meno percepito coscientemente. Successivamente, una depolarizzazione sostenuta - relativa ad un elettrodo di riferimento - si sviluppava nelle regioni frontali del cervello, in particolare nei bambini di 12 e 15 mesi. Questa componente del segnale ha particolarmente attratto l’attenzione degli autori dello studio per il suo carattere “tutto o nulla”, suggestivo in quanto sembra riflettere la caratteristica “tutto o nulla” dell’esperienza cosciente.
I dati registrati rivelano che i bambini di un anno di età, almeno, presentano un evidente segno elettrico cerebrale, una brain signature, simile a quella associata con la percezione visiva cosciente nello studio elettroencefalografico dell’adulto. Questo segnale elettrico ha una velocità all’incirca di un terzo di quella del corrispondente segnale del cervello degli adulti, dato compatibile con la scarsa mielinizzazione delle età precoci della vita e con la complessiva immaturità delle connessioni.
È sufficiente questo dato per parlare di coscienza già presente a cinque mesi, come hanno fatto alcuni editorialisti scientifici?
A voi la risposta.
L’autore invita alla lettura
degli scritti sulla coscienza che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
[1] Le questioni sollevate e le opinioni espresse nel corso di questa discussione sono in larga misura coincidenti, talvolta con le stesse parole, con quelle proposte dal presidente della nostra società nel paragrafo dedicato alla coscienza di una sua recente relazione (si veda: Perrella G., Domande senza risposte e risposte in cerca di domande: gli esiti imprevedibili della ricerca sulle funzioni cerebrali (relazione tenuta a Firenze il 14 settembre 2013 al convegno “Le nuove frontiere delle neuroscienze”, organizzato dalla HUA for Neuroscience), ringraziando il presidente, osservo che ciò accade perché, come da lui auspicato dieci anni or sono, nella nostra realtà, sia pur a fatica e fra mille difficoltà, sta nascendo una nuova scuola neuroscientifica.
[2] si veda: Perrella G., Domande senza risposte e risposte in cerca di domande: gli esiti imprevedibili della ricerca sulle funzioni cerebrali, pp. 23-24 (relazione tenuta a Firenze il 14 settembre 2013 al convegno “Le nuove frontiere delle neuroscienze”, organizzato dalla HUA for Neuroscience.