ADAM10 futuro target per la cura
della malattia di Alzheimer
NICOLE CARDON
NOTE
E NOTIZIE - Anno XI – 12 ottobre 2013.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
Dopo un periodo di rapidi progressi, la ricerca sulla malattia di Alzheimer sembra aver segnato il passo in questi ultimi anni. Così, dopo aver ottenuto la definizione di alcuni processi molecolari di sicuro rilievo patogenetico per tutte le forme cliniche, la soluzione del problema consistente nel legame fra eziologia e patogenesi pare essersi allontanata. Il motivo principale di questo apparente allontanamento della soluzione sembra consistere nel fatto che non ci si trova di fronte ad un unico processo[1]. È probabile, infatti, che esistano tante diverse vie molecolari che, in particolare per i casi sporadici, sfuggono ancora alla formulazione di ipotesi di lavoro concettualmente schematiche e molecolarmente mirate per un vaglio sperimentale semplice e diretto. Eppure, di tanto in tanto, i risultati rilevanti di alcuni studi ci ricordano che, se il lavoro di decodifica biologica della patologia alzheimeriana si è rivelato di proporzioni maggiori di quanto fosse stato stimato nel recente passato, non si tratta però di un’impresa disperata. Uno di questi studi, che sarà pubblicato su Neuron, è oggetto della recensione che seguirà dopo una breve introduzione all’argomento.
Fin dalla descrizione fornita da Alois Alzheimer dei preparati istologici del cervello di Auguste D., la prima paziente diagnosticata di questa forma di demenza neurodegenerativa mortale, sono stati indicati due segni anatomopatologici, cui è stato attribuito valore patognomonico: la degenerazione neurofibrillare intraneuronica e le cosiddette placche senili. Il primo elemento è caratterizzato dalla presenza di filamenti ad elica appaiati (PHF) della proteina tau iperfosforilata, mentre il secondo è costituito da placche amiloidi (β-amiloidi o Aβ), dette anche neuritiche, che, accanto ad assoni e dendriti deformati da rigonfiamento, detriti cellulari circondati da astrociti e co-localizzati con varie proteine infiammatorie e microglia attivata, contengono frammenti di peptidi Aβ di 40-42 aminoacidi, derivati dalla scissione del precursore APP da parte degli enzimi β-secretasi e γ–secretasi.
A lungo si è dibattuto su quale delle due lesioni avesse la priorità nella successione degli eventi patogenetici e quale fosse realmente il primum movens, supponendo un identico processo patogenetico fondamentale per tutte le forme.
Dennis Selkoe di Harvard è stato il capofila dei sostenitori del ruolo iniziatore dei peptidi Aβ, isolati e caratterizzati da Glenner e Wong, mentre il genetista Rudolph Tanzi era fra coloro che supponevano un avvio intracellulare, inizialmente inapparente, costituito dall’alterazione degenerativa conseguente all’iperfosforilazione della proteina tau.
E’ stato poi
dimostrato che aggregati di βA
extracellulari attivano una successione di eventi che porta le chinasi
intracellulari a fosforilare in eccesso la proteina tau, con conseguente
cambiamento delle sue proprietà chimiche ed avvio dello scompaginamento delle
strutture neurofibrillari[2].
Successivamente, dopo aver riconosciuto che piccoli oligomeri
diffusibili possono costituire la principale forma bioattiva di βA, si è esplorata la possibilità che
questi aggregati inducessero l’alterazione neurofibrillare. In una recensione
del 9 aprile 2011, osservavo in proposito: “Selkoe e colleghi hanno isolato dimeri
βA, la forma più abbondante di oligomeri solubili reperibili nel cervello
umano, dalla corteccia cerebrale di persone affette da malattia di Alzheimer,
ed hanno rilevato che a concentrazioni subnanomolari, prima inducevano in
neuroni dell’ippocampo l’iperfosforilazione della tau in corrispondenza di
epitopi rilevanti per la malattia di Alzheimer, e poi distruggevano l’integrità
del citoscheletro microtubulare e causavano degenerazione neuritica”[3].
Ora, il professore Rudolph Tanzi, che ha studiato vari aspetti della genetica dell’Alzheimer, seguendo la teoria della β-amiloide di Selkoe, con colleghi di Harvard ha condotto uno studio che dimostra l’importanza di due rare mutazioni nella metalloproteasi ADAM10 per lo sviluppo della patologia nella malattia di Alzheimer ad insorgenza tardiva (Late-onset Alzheimer Disease, o LOAD). Le mutazioni riducevano l’attività dell’α-secretasi, spingendo la APP verso la scissione da parte della β-secretasi, con conseguente formazione di peptidi amiloidogenici (Suh J., et al., ADAM10 Missense Mutations Potentiate β–Amyloid Accumulation by Impairing Prodomain Chaperone Function. Neuron [Epub ahead of print doi:101016/j.neuron.2013.08.035], 2013).
La provenienza degli autori è la
seguente: Genetics and Aging Research Unit, MassGeneral Institute of
Neurodegenerative Disease, Department of Neurology, Massachusetts General
Hospital and Harvard Medical School, Boston (USA).
Come è noto, la produzione dei peptidi β-amiloidi (Aβ) che costituiscono l’elemento principale nella formazione delle placche, è preclusa dalla scissione dell’APP da parte dell’α-secretasi all’interno del dominio Aβ della molecola. Conseguentemente, tutte le condizioni in grado di spostare l’asse dall’intervento delle secretasi β e γ a quello dell’α-secretasi, risultano protettive nei confronti della produzione di Aβ. Tenendo conto di questa nozione di base della patologia molecolare della malattia di Alzheimer, si può facilmente comprendere il valore dello studio condotto dal gruppo guidato da Rudolph Tanzi.
I ricercatori
di Harvard hanno identificato due rare mutazioni missense nel prodominio della metalloproteasi ADAM10, co-segreganti con la forma LOAD della
malattia: Q170H ed R181G. Per indagare la responsabilità
patogenetica di queste due mutazioni nel causare i processi neurodegenerativi
della demenza, hanno impiegato topi transgenici esprimenti nel cervello la
proteina ADAM10 umana.
Nel ceppo murino transgenico Tg2576 AD entrambe le mutazioni attenuavano l’attività α-secretasica di ADAM10 e spostavano i processi biochimici verso la scissione mediata dalla β-secretasi dell’APP, determinando un accrescimento del carico di placche Aβ e dell’entità della gliosi reattiva.
Tanzi e colleghi hanno poi rilevato e dimostrato che l’espressione di ADAM10 potenzia la neurogenesi ippocampale adulta, ridotta invece dalle mutazioni in grado di causare la forma LOAD della demenza neurodegenerativa.
In termini di
puro meccanismo molecolare, i
ricercatori hanno accertato che le mutazioni Q170H ed R181G compromettono l’attività di molecular chaperone del prodominio di ADAM10.
Considerati nel loro insieme, i risultati emersi da questo studio suggeriscono che la diminuita attività dell’enzima α-secretasi dovuta alle mutazioni nel prodominio di ADAM10 collegato alla malattia di Alzheimer ad insorgenza tardiva, causa processi patologici tipici della neurodegenerazione alzheimeriana e, pertanto, individuano ADAM10 come un possibile bersaglio di nuove terapie.
In conclusione, mi sembra opportuno fare una breve considerazione che aiuti a collocare la possibilità terapeutica prospettata da questo lavoro nel quadro più generale che si sta delineando in questo periodo. I modelli sperimentali della malattia di Alzheimer, costituiti da ceppi di topi transgenici, sono attualmente impiegati per testare una grande varietà di nuove terapie. Le molecole sottoposte al vaglio sono così numerose che una parte non trascurabile sfugge anche agli autori più attenti delle rassegne periodiche. Sfortunatamente, nella maggior parte dei casi le molecole o le strategie terapeutiche apparse promettenti nelle condizioni degli studi di base, all’esame della sperimentazione terapeutica si rivelano non idonee. Le terapie di consolidato impiego clinico attualmente disponibili per i pazienti affetti da malattia di Alzheimer, includono gli inibitori della colinesterasi[4], agenti che influenzano la neurotrasmissione del glutammato, approcci neuroprotettivi e farmaci per il trattamento dei sintomi psichiatrici. Il problema fondamentale è che nessuna di queste terapie agisce direttamente sui processi che determinano la progressione della malattia, pertanto l’affannoso proseguire in varie direzioni della ricerca di nuove possibilità di cura, è giustificato anche dalla speranza di individuare trattamenti che realmente modifichino il processo patologico e, possibilmente, ne arrestino la progressione.
L’autrice della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per il prezioso aiuto nella redazione del testo e
invita alla lettura delle numerose recensioni di studi di argomento connesso
pubblicate in precedenza (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
[1] La tesi, secondo cui la diagnosi di malattia di Alzheimer nasconde processi patologici diversi accomunati da alcuni elementi anatomopatologici e clinici, è stata sostenuta per decenni da Giuseppe Perrella. Probabilmente, alcune chiavi interpretative per la distinzione in base all’eziologia e alla patogenesi emergeranno quando si saranno comprese le differenze fra le forme familiari autosomiche dominanti e quelle gravate da molteplici fattori di rischio acquisiti, ma soprattutto quando si saranno definiti tutti i dettagli molecolari della patogenesi dei casi “sporadici”, che in realtà rappresentano il 95% del totale.
[2] È stata dimostrata come via possibile, ma non esclusiva e necessaria per la degenerazione neurofibrillare.
[3] Note e Notizie 09-04-11 Alzheimer: β-amiloide sufficiente ad indurre iperfosforilazione di tau e degenerazione.
[4] Presidio impiegato fin dagli inizi della terapia farmacologica della malattia di Alzheimer e non scevro da critiche.