Sorprendenti risultati in scimmie con cervello diviso

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 14 settembre 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

In assenza di stimoli esterni o di richieste derivanti da compiti da svolgere, la connettività funzionale nell’attività spontanea del cervello riflette i normali schemi di connessione anatomica. Per questo motivo la connettività funzionale in condizioni di riposo è stata usata come una misura equivalente della connettività strutturale e come un biomarker di alterazioni cerebrali causate da processi patologici.

Per porre in rapporto le variazioni nella connettività funzionale con cambiamenti fisiologici nel cervello, è necessario comprendere in che modo le correlazioni della connettività funzionale dipendono dall’integrità fisica dei tessuti nervoso e gliale che costituiscono l’encefalo. La natura causale di questo rapporto è stata problematizzata da elementi emergenti da dati clinici: una ridotta connettività strutturale non necessariamente porta ad una diminuita connettività funzionale.

Un istruttivo e in parte sorprendente lavoro edito da Robert Desimone del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e condotto da Jill X. O’Reilly con numerosi colleghi guidati da Mark G. Baxter, fornisce evidenze a sostegno di una relazione causale ma complessa della connettività strutturale con quella funzionale. Lo studio ha impiegato l’analisi della connettività funzionale interemisferica, prima e dopo la sezione del corpo calloso in scimmie rhesus (O’Reilly J. X., et al., Causal effect of disconnection lesions on interhemispheric functional connectivity in rhesus monkeys. Proceedings of the National Academy of Science USA  [Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1305062110], 2013).

La provenienza degli autori è la seguente: Glickenhaus Laboratory of Neuropsychology and Friedman Brain Institute, Department of Neuroscience, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York (USA); Functional Magnetic Resonance Imaging of the Brain Centre, Nuffield Department of Clinical Neurosciences, John Radcliffe Hospital, Oxford University, Oxford (UK); Department of Psychiatry, Warneford Hospital, Oxford University, Oxford (UK);  Stem Cell and Brain Research Institute, INSERM, Bron (Francia).

L’inizio degli studi volti a stabilire il ruolo dei principali sistemi neuronici dell’encefalo e l’esistenza di una specializzazione funzionale dei singoli emisferi, è stato segnato dalla grande esperienza della scuola neuroscientifica di Roger Sperry e dal lavoro condotto dai suoi allievi, primo fra tutti Michael Gazzaniga, sui pazienti con cervello diviso.

Nel laboratorio di Sperry era stato realizzato, con buona pace degli animalisti, l’animale split-brain, ossia un prototipo di funzionamento separato dei due emisferi dal quale si è appresa una grande quantità di nozioni relative all’organizzazione funzionale del cervello. L’espressione split-brain era stata coniata per descrivere un intervento neurochirurgico eseguito su gatti e scimmie, consistente nel sezionare i collegamenti principali fra i due antimeri cerebrali. Negli esperimenti iniziali, eseguiti negli anni Cinquanta da Sperry con il suo allievo Ronald Myers, lo scopo era quello di isolare le vie nervose attraverso cui l’informazione visiva presentata ad un emisfero si integra con quella che giunge all’altro. Recidendo corpo calloso, commessura anteriore e chiasma ottico[1], l’informazione visiva presentata ad un occhio giunge esclusivamente a metà del cervello. Myers e Sperry scoprirono che in un animale split-brain le discriminazioni visive apprese da un emisfero erano totalmente ignote all’altro. Ad esempio, un gatto con l’occhio sinistro bendato aveva imparato che spingendo un pannello contrassegnato con un triangolo poteva ottenere un gradito boccone di fegato, ma non sembrava sapere nulla di questa associazione quando gli si bendava l’occhio destro; bendando di nuovo il sinistro, ritornava la prestazione legata all’apprendimento custodito in una sola metà del cervello. Nel complesso degli esperimenti eseguiti fino agli anni Sessanta, gli animali split-brain si comportavano come se avessero due cervelli separati.

Il trattamento chirurgico di forme gravi di epilessia mediante la separazione degli emisferi al fine di evitare il generalizzarsi di crisi minacciose per la vita stessa dei pazienti, era un tempo meno raro di oggi, anche perché si disponeva di un minor numero di farmaci, peraltro più tossici e meno efficaci di quelli attualmente in uso. Con i volontari operati da Joseph Bogen e studiati dagli allievi di Sperry, ossia Michael Gazzaniga, Jeffrey Holtzman, John Sidtis e Joseph LeDoux, cominciò lo studio sull’uomo con cervello diviso.

Gli esperimenti realizzati con persone precedentemente sottoposte a separazione degli emisferi, mediante sezione del corpo calloso per epilessia intrattabile, portarono alla formulazione di una teoria modulare della mente. Oggi lo stesso Gazzaniga ha accettato l’ipotesi edelmaniana del cervello come sistema complesso.

Attualmente le neuroscienze cognitive si avvalgono di metodologie, procedure, tecnologie e apparecchiature molto più sofisticate e progredite per rispondere a quesiti mirati che riflettono i progressi compiuti dalle neuroscienze negli ultimi decenni[2]; tuttavia, lo studio degli effetti della disconnessione interemisferica in primati sub-umani, può ancora fornire utili informazioni sulla connettività funzionale.

Jill O’Reilly e colleghi hanno rilevato che la commissurotomia del proencefalo dei macachi riduceva grandemente la connettività funzionale interemisferica ma, sorprendentemente, questo effetto era notevolmente mitigato quando la commessura anteriore era lasciata intatta dall’intervento.

Un’altra osservazione rilevante è che, nelle scimmie, le connessioni strutturali integre accrescevano la loro connettività funzionale, in linea con l’ipotesi secondo cui gli inputs diretti a ciascun nodo sono normalizzati.

Gli autori dello studio deducono che la connettività funzionale è probabilmente guidata dalle connessioni cortico-corticali della sostanza bianca degli emisferi, ma con complesse interazioni di rete tali che un near-normal pattern di connettività funzionale può essere conservato grazie a poche connessioni strutturali indirette.

Questi sorprendenti risultati evidenziano l’importanza di interazioni del livello delle reti neuroniche nella connettività funzionale e possono gettare luce sui numerosi risultati, apparentemente contraddittori o paradossali, riguardanti i cambiamenti di connettività funzionale in condizioni patologiche.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso disponibili sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-14 settembre 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’intervento con la sezione del chiasma ottico è stato praticato esclusivamente negli animali.

[2] Si veda, ad esempio, l’altra recensione da me proposta questa settimana: Note e Notizie 14-09-13 Identificati nel cervello punti flessibili per il controllo adattativo dei compiti.