Una discussione critica sulla psicologia della guerra e della violenza

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 08 giugno 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Da ottuagenario rimango stupito che si possa ancora fondere o confondere la psicologia dell’aggressività con quella della guerra e delle atrocità, sia perché la presunta origine comune da una spinta biologica di base dovrebbe aiutare a distinguere - così come si distingue un comportamento coprofagico dalla fame e la compulsione del tossicodipendente dal desiderio erotico - sia perché decenni di studi avrebbero dovuto sgombrare il campo da ingenue o inappropriate assimilazioni.

In un recente articolo, che Thomas Elbert, professore di psicologia clinica e neuropsicologia ha scritto con gli psicologi Roland Weierstall e Maggie Schauer, si legge: “Pochi milioni di anni fa i nostri progenitori ominoidei cominciarono a cacciare e consumare carne. Per la prima volta, la dieta umana aveva accesso ad una concentrata fonte di energia che mancava nella nostra precedente dieta totalmente vegetariana”[1]. Parole con le quali gli autori introducono una nota argomentazione antropologica che attribuisce ai vantaggi evolutivi, l’affermarsi della caccia come mezzo per procacciarsi il cibo. A questa premessa segue un’affermazione così sintetizzabile: gli esseri umani non solo cacciano altri animali, ma anche membri della propria specie. Si prosegue, nel corso di una rassegna non priva di spunti di interesse e della quale si dirà più avanti, inframmezzando valutazioni e sviluppando commenti basati sulla tesi che vuole la psicologia della guerra una diretta conseguenza dell’aggressività e dell’istinto del cacciatore. Elbert e colleghi giungono ad affermare: “I nostri progenitori ancestrali a caccia non erano tanto diversi dai combattenti contemporanei”[2].

Studi che dimostrano l’influenza negativa di esperienze di guerra nell’indurre soldati, guerriglieri o civili a compiere crimini disumani, sono interpretati come prove a sostegno della naturalità istintiva di tali azioni, considerate espressione eccessiva o estrema del comportamento che si presume abbiano avuto i nostri antenati nell’attività di cacciatori.

In realtà, le congetture degli antropologi derivano principalmente dallo studio di tribù rimaste nel mondo contemporaneo in una condizione di vita simile a quella dei cacciatori-raccoglitori, ossia degli ominidi e degli uomini in epoche che hanno preceduto l’agricoltura, l’allevamento e la stanzialità. La caccia sarebbe il prototipo della guerra, secondo alcune ipotesi antropologiche, anche se non è stato dimostrato che, ad esempio, la difesa di un gruppo umano unito da rapporti di solidarietà interna, da un’azione aggressiva di estranei, non esistesse già fra i raccoglitori, costituendo un precursore psicologico e culturale della guerra, intesa come azione collettiva di tipo aggressivo-distruttivo.

D’altra parte, la lettura degli studi antropologici non fornisce argomentazioni forti a sostegno di un’assimilazione fra attività di caccia e guerra.

Eleanor Leacock, descrivendo il suo lavoro fra i cacciatori-raccoglitori della tribù Montagnais-Naskapi del Labrador, così si esprime: “Mi hanno permesso di osservare con i miei occhi un rispetto e una considerazione per il prossimo, senza riguardo al sesso, che prima di allora non mi ero mai immaginata”[3]. Colin Turnbull osserva a proposito dell’opinione che ha di sé l’uomo medio degli Mbuti della foresta dello Zaire: “Si considera il cacciatore per eccellenza, ma non può cacciare se non ha una moglie”[4]. Sembra che questo rapporto fra la caccia e il vincolo matrimoniale, con la responsabilità dell’alimentazione di un’intera famiglia, non sia raro fra le comunità primitive studiate.

Tralasciando altri esempi, come quello dei !Kung fra i quali la caccia, pur effettuata in prevalenza dagli uomini, è gestita dalle donne in funzione della preparazione del cibo e delle necessità alimentari della famiglia, è banalmente intuitivo osservare che le frecce e le lance, di cui erano armati i primitivi durante la caccia, possano essere state impiegate innumerevoli volte contro concorrenti di altre tribù. Tuttavia, considerare la guerra conseguenza diretta della caccia e non luogo comportamentale e culturale in cui sono verosimilmente confluite le abilità e le esperienze acquisite cacciando, mi sembra piuttosto arbitrario.

Ma, se da congetture antropologiche si vuol passare ad ipotesi psicologiche, è necessario distinguere fra le risposte elementari e stereotipe di una specie (comportamento istintivo, fixed action patterns) e l’elaborazione cognitiva umana di concetti che, insieme con altre memorie di esperienza e conoscenza, sono trasmessi di generazione in generazione. In altri termini: come e perché dagli istinti elementari si giunge alla cultura e alla psicologia della guerra?

È evidente che una prima distinzione fondamentale e radicale deve essere fatta fra comportamento reattivo in risposta allo stress derivante dal grado estremo di una sollecitazione fisiologica interna (fame) o esterna (minaccia per l’integrità fisica), e comportamento pianificato in ordine ad un fine diverso dalla soddisfazione di un bisogno primario o secondario[5], come può essere l’uccisione di persone per impossessarsi di un territorio o di altri beni materiali.

Naturalmente non si discute la plausibilità e la quasi certezza delle interpretazioni che attribuiscono certi comportamenti ad un portato che deriva da abilità evolutesi con la specie, sotto la spinta della soddisfazione dei bisogni primari, come quello legato all’alimentazione dalla quale dipende la vita dell’individuo, o del bisogno secondario riproduttivo, dal quale dipende la vita della specie. Si obietta il fatto che da quegli stessi bisogni sono derivati comportamenti volti a creare legame, unione, cooperazione, protezione dell’altro e sostegno reciproco.

In una acuta e brillante discussione svolta da Giuseppe Perrella sulla psicologia della guerra, questo concetto è stato bene chiarito, sia in termini  logici che etici, facendo ricorso alla differenza di senso fra azioni simili determinata dal loro fine. Ridurre i comportamenti umani nelle circostanze della guerra a paradigmi biologici elementari, in un certo senso, equivale a dire che “nell’origine e nella capacità biologica dell’agire umano sono insite le potenzialità sia di ciò che comunemente si considera un bene, sia di ciò che si ritiene un male”[6]. In un’efficace parallelo fra ontogenesi e filogenesi, il presidente faceva questo esempio tratto dall’embriologia: “Le cellule dell’epidermide e i neuroni del cervello derivano entrambi dall’ectoderma: se vogliamo capire l’origine del cervello non possiamo accontentarci di farlo risalire al foglietto ectodermico, ma dobbiamo individuare quei processi e quei meccanismi molecolari che portano alla differenziazione dei neuroni”[7].

Se nel mondo contemporaneo si andasse in guerra per mangiare i propri nemici, così soddisfacendo l’istinto della fame, o per eliminarli in qualità di rivali nella competizione riproduttiva, non sarebbe necessario spiegare il nesso fra gli stati mentali primari connessi con i bisogni istintivi e la psicologia delle atrocità commesse, ad esempio, da eserciti mercenari.

Non è questa la sede, né chi scrive è l’autore più qualificato per affrontare temi di portata filosofica sui quali sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro, quali la concezione del male come strumento per l’esercizio del potere dell’uomo sull’uomo e il valore individuale e sociale dell’intenzione in rapporto alla responsabilità. Tuttavia, voglio brevemente soffermare l’attenzione sulla gestione “a freddo” dell’intenzione di compiere il male, quale assunto di tutti quegli aspetti delle imprese umane che vanno dagli archivi culturali delle accademie militari, con i loro trattati di alta strategia, fino alle fabbriche di armi, per citare quel genere di istituzioni ed attività che afferiscono al concetto di “uso legittimo della forza” per la difesa dei cittadini[8], ma che portano in guerra all’uccisione di persone di altre nazioni e distruzione delle loro città.

L’intenzione di compiere il male e di fare male il più possibile ad altri simili, non per soddisfare l’istinto della fame ma per perseguire uno scopo di potere o dare sfogo a brame di vendetta, non è sufficiente per porre in atto le torture luciferine e raccapriccianti che sono state documentate storicamente. Hitler, ad esempio, aveva le peggiori intenzioni, ma non riteneva di poter essere sufficientemente disumano e brutale sulla base delle conoscenze in suo possesso, così inviò suoi ufficiali in Tibet per importare in Germania quelle che si riteneva fossero le mostruosità peggiori al mondo, nella tortura e nello scempio dei cadaveri. Come è noto, dopo la missione tibetana, le SS, aggiungendo elementi nuovi ed impiegando gli strumenti della tecnologia più avanzata dell’epoca, riuscirono a fare peggio dei Tibetani.

Rimandando a nostre precedenti discussioni, come il dibattito sul caso Gelsinger e lo studio sull’esperimento di Milgram per approfondimenti, qui mi limito a sottolineare ancora la mancanza di un rapporto diretto fra questo agire umano ed attività quali la caccia e la pesca per sfamarsi.

Consideriamo ora, brevemente, il lavoro che Weierstall e colleghi hanno condotto per indagare il rapporto esistente fra PTSD (disturbo post-traumatico da stress) e violenza in condizioni di grave e costante minaccia per la vita.

Il primo studio è consistito nell’esame di 269 prigionieri del Ruanda, accusati o condannati per crimini collegati al genocidio che fu commesso nel 1994. Sono state rivolte loro domande sui tipi di trauma di cui avevano fatto esperienza e sui crimini che avevano commesso. Inoltre, fu valutata la presenza e la gravità di sintomi di PTSD e sondato se essi avessero acquisito il gusto della violenza.

Due domande-tipo erano queste: “Una volta che il combattimento cominciava, tu ti facevi trasportare dalla violenza?”, “Una volta che sei diventato crudele, tu vuoi essere sempre più crudele?”.

Circa un terzo degli uomini ha risposto “si” ad entrambi i quesiti; le donne che hanno dato riscontro affermativo ad entrambi gli interrogativi sono state di meno. Altre due domande avevano una particolare importanza ai fini dello studio. In una delle due, simile alla prima già menzionata, si chiedeva se gli interrogati si facessero trasportare dalla violenza di un combattimento. Oltre la metà degli uomini ha risposto affermativamente, a fronte del 30% delle donne. L’altro quesito chiedeva se sconfiggere un nemico fosse più divertente quando ne vedevano scorrere il sangue. Anche in questo caso oltre la metà degli uomini ha risposto “si”, ma ciò che ha sorpreso gli autori dello studio è che anche il 40% delle donne ha dato risposta affermativa.

Studi successivi con dati raccolti in Ruanda, poi da bambini-soldato dell’Uganda e da aggressori criminali del Sud Africa, hanno fatto registrare che, quanto più violenti erano gli eventi che un combattente aveva commesso o visto, maggiore era il suo punteggio al questionario per il desiderio di aggressione impiegato dai tre studiosi. Ma, sottolineano Weierstall e colleghi, quanto più alto era questo punteggio, tanto minore risultava essere la probabilità che sviluppassero un PTSD. In altri termini, l’apprendimento della ferocia aggressiva costituirebbe un assetto funzionale protettivo nei confronti della possibilità di sviluppare disturbi da stress traumatico.

Sulla base di questi elementi e di altri dati di osservazione, gli autori concludono che “the thrill of the kill” non è né un segno di malattia mentale né un evento raro: memorie della specie legate all’esperienza ancestrale della caccia e rinforzi attuali come la prevenzione del PTSD, potrebbero spiegare gran parte delle tendenze più brutali.

Credo, invece, che si debba indagare su tutte quelle tradizioni culturali, che poi “creano psicologia”, da quelle di più basso grado di elaborazione in assenza di una lingua scritta, a quelle sostenute dalle forme più sofisticate di pensiero filosofico o religioso, che contemplano la reificazione dell’uomo, in quanto diverso, avversario o nemico. Anticamera di ogni brutalità e atrocità è il pensiero collettivo che trasforma in “cose” le persone: le rende uccidibili[9].

“Non dovremmo meravigliarci per le brutalità dei soldati osservate in luoghi come Abu Ghraib e Guantanamo”, affermano gli autori dell’articolo qui discusso, con parole di poco diverse da quelle impiegate, all’epoca della prima comunicazione giornalistica di quei fatti, dal nostro presidente e da chi scrive, ma da un’angolazione prospettica totalmente opposta: non perché siano inevitabili conseguenze di istinti biologici, ma perché sono costanti derive, istigate e facilitate, in quelle circostanze caratterizzate da un insieme di crimini legalizzati che vanno sotto il nome di guerra.

Spero che questa discussione, appena tratteggiata negli argomenti principali, possa stimolare, nei soci, interesse all’approfondimento e desiderio di contribuire a darle un seguito; perché ritengo che il fuoco dell’attenzione critica vada sempre alimentato, affinché illumini i fatti della ricerca e consenta di separarli dalle opinioni dei ricercatori.

 

L’autore ringrazia il presidente, professor Giuseppe Perrella, con il quale ha discusso l’argomento trattato ed in parte elaborato il presente testo. Si invita alla lettura di tutti gli scritti di argomento connesso (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Giovanni Rossi

BM&L-08 giugno 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Weierstall R., Schauer M., and Elbert T., An Appetite for Aggression, p. 48 (TdR), Scientific American MIND 24 (2): 46-49, May-June 2013.

[2] Weierstall R., Schauer M., and Elbert T., op. cit. An Appetite for Aggression, p. 49 (TdR).

 

[3] Cfr. Eleanor Burke Leacock, The Montagnais-Naskapi Band, in B. Cox (editor) Cultural Ecology: Readings on the Canadian Indians and Eskimos, pp. 81-100, McClelland and Stewart, Toronto, 1975. La citazione riportata tra virgolette in italiano compare a p. 211 di Marvin Harris, La Nostra Specie – natura e cultura dell’evoluzione umana, Rizzoli, Milano 1991.

[4] Turnbull Colin M., The Ritualization of Potential Conflicts Between the Sexes Among the Mbuti, pp. 133-155, in  Eleanor Burke Leacock & Richard Lee (editors) Politics and History in Band Societies. Cambridge University Press, Cambridge 1982.

[5] Si ricorda che si definisce primario un bisogno che, non soddisfatto, porta a morte l’individuo, e secondario un bisogno che, non soddisfatto, porta all’estinzione della specie.

[6] Giuseppe Perrella, Considerazioni a margine di ciò che oggi si intende per “psicologia della guerra”, p.5, BM&L-Italia, Firenze, 2004.

[7] Giuseppe Perrella, Considerazioni a margine di ciò che oggi si intende per “psicologia della guerra”, p.3, BM&L-Italia, Firenze, 2004.

 

[8] Si tralasciano qui, perché non sono oggetto di interesse dell’articolo di Elbert e colleghi, i riferimenti alla gestione “a freddo” dell’intenzione al male da parte delle organizzazioni criminali di tipo mafioso e di tipo terroristico.

[9] Giuseppe Perrella, Considerazioni a margine di ciò che oggi si intende per “psicologia della guerra”, p.7, BM&L-Italia, Firenze, 2004.