Origine del linguaggio dalla flessibilità vocale del lattante

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 13 aprile 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Le vocalizzazioni prodotte dai lattanti nei primi mesi di vita sono state a lungo sottovalutate e trascurate dall’indagine scientifica, ma la flessibilità funzionale espressa da questa abilità precoce ha attratto di recente l’interesse di numerosi ricercatori.

Uno studio realizzato grazie alla collaborazione con il Konrad Lorenz Institute di Altenberg, in Austria, di varie scuole statunitensi che indagano l’origine della comunicazione, ha gettato luce sul valore fisiologico della flessibilità delle vocalizzazioni precoci, contrapposta alla stabilità stereotipa del pianto e del riso, che possono essere paragonati ai richiami vocali presenti negli altri primati. Proprio questo requisito di variabilità sembra essere all’origine del linguaggio verbale umano (Kimbrough Oller D., et al. Functional flexibility of infant vocalization and the emergence of language. Proceedings of the National Academy of Sciences USA [Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1300337110], 2013).

I principali istituti di provenienza degli autori sono i seguenti: School of Communication Sciences and Disorders, University of Memphis, Tennessee (USA); Institute for Intelligent Systems, University of Memphis, Tennessee (USA); The Konrad Lorenz Institute for Evolution and Cognition Research, Altenberg (Austria); Department of Communication Sciences and Disorders, Idaho State University, Pocatello, Idaho (USA).

La facoltà umana della parola, che non ha uguali nel regno animale, non deve essere considerata solo nei termini dell’abilità di usare codici comunicativi versatili e potenti come le lingue, ma deve essere riportata anche e soprattutto alla capacità cognitiva di creare tali codici e perfezionarli con l’uso[1]. Indipendentemente dalla lingua che ascoltano e dalla cultura in cui sono immersi, tutti i bambini presentano schemi universali di percezione e produzione del linguaggio. Entro il primo anno di vita comprendono approssimativamente 50 parole e sono in grado di articolare espressioni acusticamente simili a quelle della madrelingua. A 3 anni conoscono già approssimativamente 1000 parole, sono in grado di costruire frasi lunghe e tenere piccole conversazioni. Prima di giungere alla padronanza di circa 70.000 parole nell’età adulta, passano attraverso fasi di crescita cognitivo-linguistica guidate dall’apprendimento scolastico e spesso associate all’acquisizione di una seconda lingua. Fin dalla nascita, la produzione verbale si sviluppa simultaneamente alla percezione della parola. A 3 mesi gli infanti si esprimono con suoni simili a quelli vocalici (“coo”) e, in seguito, usano spontaneamente combinazioni di vocali e consonanti (“babble”) in quella fase detta di lallazione (bene espressa intorno ai 7 mesi).

Kimbrough Oller e colleghi riferiscono circa l’emergere della flessibilità funzionale nelle vocalizzazioni dei bambini nei primi mesi di vita, e notano che questa abilità diviene evidente quando le vocalizzazioni prelinguistiche esprimono una gamma completa di contenuti emozionali, che si possono classificare, in base ad un giudizio qualitativo dell’affettività, come positive, negative e neutre. I dati registrati mostrano che, nella piena espressione di questo repertorio entro il terzo-quarto mese di vita, si possono riconoscere almeno tre tipi di vocalizzazioni infantili (o neonatali):

1) espressioni simili ad un gridolino o un piccolo strillo (squeal);

2) suoni simili a quelli vocalici prodotti nelle fasi successive dello sviluppo (vowel-like sounds);

3) versi più sordi simili a un brontolio, a un grugnito o a un ringhio (growl).

In contrasto, il pianto e il riso, o per meglio dire le manifestazioni assimilate a queste due categorie intepretative[2] che, come è noto, costituiscono segnali specie-specifici, hanno mostrato una notevole stabilità funzionale, con il pianto nella quasi totalità dei casi connesso a stati emozionali negativi e il riso costantemente riconducibile ad uno stato positivo.

La flessibilità funzionale è di fatto una conditio sine qua non perché si abbia la lingua parlata, in quanto tutte le parole o le frasi possono essere prodotte come espressioni di stati emozionali varianti, e perché apprendere i “significati” convenzionali richiede l’abilità di produrre suoni che siano privi di qualsiasi funzione predeterminata.

La flessibilità funzionale può considerarsi una caratteristica che definisce il linguaggio; empiricamente appare prima della sintassi, dell’apprendimento delle parole e perfino prima degli elementi precoci dello sviluppo che si presume siano critici per la facoltà di comunicazione verbale, quali l’attenzione congiunta, l’imitazione delle sillabe e la lallazione canonica.

Sembra evidente che la comparsa precoce di questa proprietà nel primo anno della vita umana costituisca un passo critico nel processo di sviluppo del linguaggio vocale, ma è anche ragionevole supporre che la flessibilità funzionale abbia avuto un simile ruolo di fase critica per l’evoluzione, al culmine della filogenesi, delle abilità linguistiche umane, precedendo la proto-sintassi ed anche le prime singole parole primitive. Una tale espressione flessibile di affetti mediante la vocalizzazione non è stata ancora rilevata nei primati non umani ma, qualora fosse scoperta, non toglierebbe nulla - osservano gli autori dello studio - al ruolo che questa proprietà neurofisiologica ha nello sviluppo delle nostre abilità linguistiche, suggerendo solo la presenza di profonde radici nei nostri predecessori filogenetici.

 

L’autrice ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la revisione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Diane Richmond

BM&L-13 aprile 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’affermazione è di Giuseppe Perrella, che ama sottolineare l’importanza dell’organizzazione funzionale del nostro encefalo, tanto per i processi intellettivi che hanno portato allo sviluppo storico delle lingue verbali sulla base di memorie collettive (idiomi etnici), quanto per l’apprendimento della lingua madre da parte di ogni nuovo nato.

[2] Ricordiamo che il pianto del neonato si presenta come una crisi psicomotoria generalizzata ben diversa dal pianto dell’adulto.