Vantaggi e problemi degli antipsicotici atipici nella schizofrenia  

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 12 gennaio 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]

 

Nelle cliniche psichiatriche di molti paesi del mondo, gli antipsicotici atipici hanno soppiantato quelli classici nei protocolli di trattamento della schizofrenia e di altri disturbi psicotici a questa assimilati o correlati. Il loro successo si deve in gran parte alla loro atipicità[1], consistente nel non causare il principale effetto collaterale che accomuna i farmaci di prima generazione[2]: una sindrome extrapiramidale che ricorda la sintomatologia della malattia di Parkinson. Tale azione indesiderata, oltre a produrre un diretto disturbo al paziente, è anche responsabile di due conseguenze che talvolta hanno un peso decisivo sulla prognosi: 1) un cattivo adattamento alla terapia e 2) il conferimento di uno “stigma” posturale e motorio, che agisce come un marchio sociale indicante il portatore di una grave alterazione neurologica e psichiatrica. La somma di tali effetti porta a lunghe sospensioni o interruzioni della somministrazione che, soprattutto nei pazienti trattati con dosi elevate per periodi protratti, determina un peggioramento della sintomatologia. Per tali ragioni, da vari decenni la ricerca farmacologica è sulle tracce di molecole in grado esercitare un’azione efficace sui sintomi delle psicosi senza produrre concomitanti manifestazioni neurologiche.

La prima di tali molecole introdotte in terapia è stata la clozapina, che non induce catalessia nei roditori e, nell’uso clinico, non causa nei pazienti né gli effetti extrapiramidali acuti, né la discinesia tardiva. Dopo la clozapina, sono stati sintetizzati in laboratorio numerosi altri composti con simili caratteristiche, nel loro insieme considerati come una nuova generazione di farmaci, anche se ciascuno presenta un proprio profilo farmacologico.

Ma tali antipsicotici atipici costituiscono un reale progresso nella farmacoterapia delle psicosi schizofreniche o gli svantaggi connessi con il loro impiego clinico rischiano di vanificare vantaggi e benefici?

Prima di rispondere a questo quesito, sarà bene fornire qualche dato introduttivo a beneficio di chi si accosta per la prima volta all’argomento, cominciando da qualche cenno sulle origini dell’impiego dei neurolettici in psichiatria.

L’efficacia antipsicotica del primo neurolettico della storia, la clorpromazina (Largactil), fu scoperta, come si è soliti dire in farmacologia, per serendipità[3], ossia per l’accorgersi quasi casuale di questa proprietà nel corso di altri studi. Seguiamo, in proposito, il racconto proposto dieci anni fa dal nostro presidente.

 

L’effetto farmacologico dei tranquillanti maggiori o antipsicotici, cui si deve il cambiamento della storia naturale delle psicosi e della terapia psichiatrica, era stato riconosciuto in precedenza ad altri farmaci, ma Henri Laborit comprese la sua peculiarità rispetto a quello dei sedativi e le sue potenzialità terapeutiche, descrivendole già nel 1951. Ricordiamo che i derivati fenotiazinici erano già utilizzati in terapia e, in particolare, la prometazina (Fargan, Phenergan), registrata come anti-istaminico nel 1945, era impiegata soprattutto nel trattamento delle reazioni allergiche e della sintomatologia pruriginosa. In quel periodo la Rhône-Poulenc, un’industria farmaceutica francese, aveva finanziato la sintesi di numerose fenotiazine, e la loro potenza come neurodeprimenti ad azione sul sistema nervoso centrale era stata segnalata da Charpentier nel 1950.

Henri Laborit, che all’epoca svolgeva la professione di chirurgo navale e da circa sette anni studiava la fisiopatologia dello shock, aveva concluso che i danni all’organismo derivati da questa condizione patologica acuta fossero da attribuire alla vasocostrizione generalizzata conseguente all’iperattività dell’ortosimpatico. Nel 1951, Laborit e Huguenar introdussero la terapia dello shock con vasodilatatori: bloccarono la costrizione dei vasi mediante un cocktail litico di clorpromazina, prometazina e meperidina, ottenendo profonda sedazione ed ipotermia. Era nata la procedura etichettata enfaticamente col nome di “ibernazione artificiale terapeutica”.

Sulla base di questa esperienza, i due ricercatori proposero modifiche al trattamento dello shock, l’introduzione dell’anestesia con ipotermia e l’impiego delle fenotiazine per la terapia delle psicosi. Nel 1952 Delay e Denicker attuarono la prima sperimentazione clinica di queste molecole come antipsicotici in un ospedale psichiatrico. Nel 1953 Laborit, Delay e Denicker, resero noti i risultati positivi dei loro studi, che si erano basati sull’osservazione, in animali da esperimento, dei peculiari effetti tranquillanti e poichilotermici della clorpromazina.

Da quel primo impiego in Francia del Largactil, nome commerciale adottato per la fenotiazina alifatica clorpromazina, comincia l’era della farmacoterapia delle psicosi.

All’inizio degli anni Sessanta, studi in doppio cieco controllati mediante confronto con placebo, dimostrarono la superiorità di questa molecola, rispetto al sedativo-ipnotico barbiturico fenobarbital, nella riduzione dei sintomi psicotici della schizofrenia. Nei tre decenni successivi, sulla base del filtro di un’ampia sperimentazione animale, fu valutato un numero elevato di molecole che, in grado di prevenire il vomito indotto dall’apomorfina nei cani e l’iperattività indotta nei roditori dall’amfetamina, rivelavano efficacia antipsicotica. Tali composti, come fu poi accertato, agivano da bloccanti dei recettori D2 della dopamina rivelando efficacia antipsicotica. Quasi mezzo secolo fa, il premio Nobel Arvid Carlsson ipotizzò che l’azione farmacologica di queste molecole si esplicasse attraverso l’interazione con i recettori della dopamina, basandosi sulla loro proprietà di indurre effetti extrapiramidali simili ai sintomi della malattia di Parkinson, dovuti alla perdita dell’azione dopaminergica nigro-striatale, e sul rilievo della loro capacità di aumentare il turnover della catecolamina nello striato.

Una quindicina di anni dopo l’intuizione di Carlsson, grazie all’impiego dei saggi di legame con radioligando, fu identificato il recettore D2 della dopamina, per il legame specifico ad alta affinità del 3[H]aloperidolo con le membrane di neuroni del cervello, che presentavano requisiti regionali e caratteristiche farmacologiche indicatrici della presenza di un complesso polipeptidico distinto dal recettore della dopamina associato all’adenilil-ciclasi (D1). In seguito, furono dimostrate affinità dei farmaci antipsicotici, indipendentemente dalla classe strutturale di appartenenza, per il recettore D2.

Alla comprensione degli aspetti farmacodinamici salienti, alla base degli effetti dei primi antipsicotici, contribuì anche l’osservazione che l’abuso di stimolanti come l’amfetamina, che agisce mediante il rilascio di dopamina, induce sintomi psicotici simili a quelli osservati in varie forme di schizofrenia e in altre psicosi, quali idee di riferimento o deliri proiettivi consistenti nell’attribuire ad altri o a persone immaginarie azioni sleali o disoneste, intenzioni malvagie, lesive o persecutorie nei propri confronti. Con il blocco dei recettori D2 da parte degli antipsicotici, sia i deliri di origine patologica sia quelli di origine tossica, tendevano a scomparire.

Su queste basi fu avanzata l’ipotesi, sicuramente ingenua anche per le conoscenze di quel tempo, dell’eziopatogenesi dopaminergica delle psicosi, secondo la quale le più gravi forme di disorganizzazione dell’attività psichica umana dovevano attribuirsi esclusivamente all’iperattività dei sistemi segnalanti mediante dopamina, uno degli oltre cinquanta neurotrasmettitori impiegati dai neuroni cerebrali.

Sintomi comportamentali delle psicosi, quali l’agitazione o il ritiro interpretato come regressione, rispondono all’azione dei neurolettici antipsicotici, dopo l’inizio del trattamento, in un intervallo di tempo variabile da poche ore ad alcuni giorni. I deliri e le allucinazioni richiedono, in genere, un tempo più lungo.

Uno dei principali limiti all’impiego di queste molecole di prima generazione, o antipsicotici tipici, è l’insorgenza di sintomi extrapiramidali dovuti al blocco dei recettori D2 dei neuroni dello striato: una sindrome simil-parkinsoniana caratterizzata 1) da una bradicinesia, anche più marcata di quella delle fasi non avanzate della malattia di Parkinson; 2) dalla tipica rigidità, che porta all’effetto di “paziente legato nei movimenti”; 3) da un tremore spesso non particolarmente evidente; 4) dall’acatisia, consistente in una continua tensione interna alleviata dal movimento. I pazienti più giovani presentano le espressioni cliniche più marcate e talvolta gravi delle reazioni distoniche, con crampi della lingua, del collo o dei muscoli della schiena che, talvolta, obbligano a posture grottesche.

Oltre a questo ben noto effetto collaterale neurologico ad insorgenza precoce, si può avere, per trattamenti protratti, la discinesia tardiva, caratterizzata da torsioni involontarie della lingua e movimenti coreiformi delle estremità, che spesso persistono anche a lunga distanza di tempo dalla sospensione della somministrazione e resistono ai trattamenti[4].

 

Proseguendo il filo di questa lunga citazione, mi sembra opportuno ricordare una serie di altri effetti collaterali degli antipsicotici tipici, ma, prima, vorrei integrare la descrizione della sindrome extrapiramidale con un’osservazione: la faccia simile ad una maschera e il passo tipo “zombie”, condizionano notevolmente le relazioni interpersonali e sociali, accentuando un’alterità che si pone come imprescindibile evidenza di malattia.

Azioni antagoniste dei recettori muscarinici dell’acetilcolina causano sintomi che vanno dalla secchezza delle fauci alla sensazione irritativa per assenza di lubrificazione salivare su tutta la mucosa della bocca, dalla lieve stitichezza alla coprostasi che può richiedere un intervento specialistico, da una ritenzione urinaria modesta fino a gradi che richiedono la consulenza urologica e, infine, disturbi dell’accomodazione visiva. L’antagonismo alfa-recettoriale determina ipotensione, tachicardia, impotenza e incapacità di eiaculare. La sedazione dovuta all’attività antagonista dei recettori H1 dell’istamina, può conferire una sensazione soggettiva spiacevole all’effetto tranquillante principale.

L’elenco potrebbe allungarsi, citando i numerosi effetti collaterali minori e meno frequenti, ma quelli menzionati sono sufficienti per comprendere l’entusiastica accoglienza riservata ai nuovi farmaci.

La clozapina, oltre a non presentare in modo clinicamente rilevante alcuno di questi effetti collaterali, è stata impiegata con efficacia per trattare sintomi psicotici indotti, in pazienti affetti da malattia di Parkinson, dall’eccesso di dopamina causato da dosi troppo alte di farmaci anti-parkinsoniani. Ma le virtù della clozapina non si esauriscono qui: il suo impiego nei pazienti schizofrenici resistenti ai trattamenti farmacologici ordinari, ha fatto registrare la riduzione dei sintomi negativi, il miglioramento delle prestazioni cognitive e una notevole riduzione del rischio di suicidio che, ricordiamo, nell’arco della vita di questi pazienti è stimato intorno al 10%.

Una tale diversità positiva, giustifica la curiosità per le differenze farmacodinamiche con i farmaci classici, ossia per il meccanismo d’azione della clozapina e degli altri composti di più recente introduzione in terapia.

È stata necessaria una grande mole di lavoro per cercare di comprendere i meccanismi molecolari all’origine degli effetti del primo neurolettico atipico, soprattutto perché direttamente o attraverso i suoi metaboliti interagisce, oltre che con D2, con vari altri recettori, fra cui antagonisticamente con il 5-HT2A della serotonina, i muscarinici dell’acetilcolina[5], gli alfa-adrenergici, gli istaminici e, sempre nell’ambito dei recettori della dopamina, con i D4 che sono prevalentemente espressi nei sistemi neuronici delle regioni cortico-limbiche, presumibilmente implicati nella mediazione di risposte affettive ed emotive. In particolare, sembra che il blocco dei recettori serotoninergici 5-HT2A sia la chiave della riduzione degli effetti collaterali extrapiramidali dovuti al blocco dei D2. Per tale ragione, sono state sintetizzate molte molecole nuove capaci di antagonismo doppio per D2 e 5-HT2A; fra queste, il risperidone, l’olanzapina, la quetiapina e lo ziprasidone, approvati per l’uso clinico da tempo, sono stati impiegati in tutto il mondo.

Finora abbiamo esaminato solo gli aspetti positivi di questi nuovi farmaci, ma per rispondere all’interrogativo iniziale che presuppone un bilancio fra pregi e difetti, sarà necessario considerare limiti, rischi e svantaggi.

Comincerò dicendo che l’entusiasmo iniziale, seguito ai trials di valutazione della clozapina, si è andato poco a poco smorzando, per l’insorgere di un problema grave e imprevisto: lo sviluppo di agranulocitosi. In un libro di testo di farmacologia medica della fine degli anni Ottanta, si leggeva: “La clozapina, farmaco estremamente promettente per il suo profilo farmacodinamico, ha causato quando introdotto in terapia, una grave epidemia di agranulocitosi iatrogena, tale da rendere oggi il suo uso infrequente”[6]. Nei venti anni successivi le cose sono un po’ cambiate e l’allarme è rientrato, perché si è accertato che la stima percentuale del rischio della complicanza ematologica fatale non supera l’1%. Oggi, infatti, per evitare lo sviluppo di agranulocitosi, i pazienti in trattamento con clozapina sono sottoposti ad un rigoroso protocollo di monitoraggio ematologico per l’identificazione di segni precoci che suggeriscono la tempestiva sospensione del farmaco.

A parte il rischio di agranulocitosi, che con alcuni derivati sembra inconsistente, preoccupa una nuova categoria di effetti collaterali indesiderati: l’iperlipidemia, l’aumento di peso e il diabete tipo II. Considerati questi problemi, che non si erano resi evidenti nella sperimentazione preliminare, nei trials per l’approvazione e nei primi anni di impiego clinico, molti ricercatori hanno messo in dubbio anche l’effettiva superiorità in termini di efficacia terapeutica di questi nuovi farmaci rispetto a quelli di prima generazione.

Recenti studi di efficacia, che hanno riprodotto in set clinici condizioni di vita reale, indicano che i nuovi antipsicotici atipici mostrano una superiorità clinica trascurabile rispetto alle molecole di prima generazione e, come queste, non riescono ad ottenere veri miglioramenti dei sintomi negativi e dei difetti cognitivi responsabili della disabilità cronica degli schizofrenici[7].

Su questa base possiamo affermare che, sebbene le valutazioni relative al rischio di dislipidemia, obesità e diabete, debbano essere accurate, il loro peso sul piatto della bilancia non è paragonabile a quello della sindrome parkinsoniana, tuttavia il vantaggio terapeutico complessivo degli antipsicotici atipici non può considerarsi un vero e proprio progresso nella farmacoterapia delle psicosi.

La sfida oggi consiste nella sintesi di molecole in grado di influire in modo tangibile sui sintomi negativi ed ottenere un miglioramento delle prestazioni cognitive.

 

L’autrice del testo invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-12 gennaio 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Per un’interessante discussione relativa alla natura farmacologica del significato di antipsicotico atipico si legga Meltzer H. Y., What is atypical about atypical antipsychotic drugs? Current Opinion in Pharmacology 4, 53-57, 2004.

[2] Quali fenotiazinici (ad esempio, alifatici: promazina, clorpromazina, triflupromazina; piperidinici: tioridazina; piperazinici: flufenazina; ecc.), butirrofenonici (aloperidolo, droperidolo, triperidolo, spiroperidolo, ecc.), indolici (molindone), tixantenici, difenil-butil-piperidinici, dibenzo-ossazepinici, ecc. In particolare, i fenotiazinici e i butirrofenonici, con due farmaci di larghissimo impiego quali il Largactil (clorpromazina) e il Serenase (aloperidolo), costituiscono degli esempi-prototipo di neurolettici classici o antipsicotici tipici. Ai dibenzo-diazepinici, appartiene la clozapina, considerata capostipite e prototipo degli antipsicotici atipici.

[3] Il curioso termine viene dai principi di Serandip che, in un viaggio leggendario, facevano scoperte semplicemente guardandosi intorno.

[4] Giuseppe Perrella, L’influenza della farmacoterapia delle psicosi e della depressione sulla pratica psichiatrica e sulle teorie psicopatologiche, p.2, BM&L, Firenze 2003.

[5] Inizialmente, si è ritenuto che il blocco dei recettori muscarinici striatali da parte della clozapina bilanciasse da solo l’effetto parkinsonigeno dell’azione anti-dopaminergica.

[6] A. Marino, Farmacologia Clinica e Farmacoterapia, III edizione, p. 300, Idelson 1989.

[7] Lewis & Lieberman, The British Journal of Psychiatry 192, 161-163, 2008.