Perché si ragiona meglio in una lingua straniera  

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 15 dicembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Molte risorse della nostra intelligenza sono in gioco nel processo decisionale, ovvero in quella operazione mentale che seleziona fra più possibilità la direzione da dare all’azione. Per questo motivo, il campo di studi neuroscientifici che indaga le basi del decision making sta assumendo un’importanza crescente per la comprensione del fondamento della nostra cognizione e della topografia della funzione esecutiva nella corteccia prefrontale. Recentemente è stato proposto che la dimensione temporale del processo decisionale può essere la chiave per la comprensione dell’organizzazione funzionale dei lobi frontali, che elaborerebbero le richieste cognitive e motivazionali nella regioni caudali, e manterrebbero, grazie alle aree rostrali, l’assetto di un compito, con il suo valore associato, nel corso di un episodio esperienziale[1].

Se i due estremi dello spettro coperto da questo campo di indagine possono bene essere rappresentati dall’immediatezza di una scelta percettiva, da un canto, e dall’elaborato ragionamento che porta ad una mossa in una partita di scacchi fra due maestri di questo gioco, dall’altro, la maggior parte delle decisioni rilevanti che dobbiamo prendere nella nostra vita di tutti i giorni, e dalle quali dipende spesso il giudizio sulla nostra intelligenza comportamentale, può sicuramente collocarsi in una posizione intermedia fra le due. L’importanza nella vita reale e la facile verificabilità degli esiti, spiega perché questo genere di decisioni sia impiegato per l’analisi del comportamento intelligente e lo studio della psicologia dei processi cognitivi. Siccome da tempo si è dimostrato che l’ambiente linguistico in cui si sviluppano i ragionamenti può avere un peso anche rilevante per il loro esito, lo studio del processo decisionale in due lingue diverse, ad esempio quella nativa ed una studiata a scuola, costituisce un’affascinante angolazione prospettica per la verifica di ciò che muta e ciò che si conserva.

Dopo anni di ricerche nel campo dei rapporti fra cognizione e linguaggio, non meraviglia più leggere studi che provano l’influenza sul modo in cui si pensa del codice linguistico adoperato. Colpisce il fatto che cambiando lingua possa cambiare la logica, ossia che la lingua possa influenzare il ragionamento necessario alla soluzione di un problema o ad una scelta comportamentale.

Boaz Keysar e colleghi dell’Università di Chicago, che indagano i modi in cui la lingua parlata influenza il ragionamento, hanno pubblicato sull’edizione online di Psychological Science di aprile, i primi risultati di uno studio veramente interessante, basato su una generale tendenza (bias) ben nota in psicologia sperimentale, che illustro qui di seguito.

Secondo quanto emerso da vari studi, le persone, in genere, sono più riluttanti ad assumere un rischio quando una decisione impersonale, quale la scelta fra tipi di vaccini da somministrare ad una popolazione, è presentata nei termini di un possibile guadagno personale, che quando è proposta nel quadro di una potenziale perdita, anche se gli esiti sono equivalenti.

Nello studio di Keysar, la richiesta è stata rivolta a volontari di madre lingua inglese che avevano studiato il giapponese o che studiavano il francese a Parigi, e a Coreani che avevano imparato l’inglese come seconda lingua. Tutti i partecipanti, quando la questione è stata posta nella loro lingua natìa, hanno manifestato la tendenza verso il rischio che ci si attendeva, ma questa è incredibilmente scomparsa quando il problema è stato posto nella lingua acquisita.

I ricercatori hanno poi attuato una seconda serie di esperimenti per verificare se un’altra tendenza psicologica generale sia conservata o perduta nella cognizione mediata dalla seconda lingua, ossia nel codice linguistico appreso successivamente a quello della lingua madre. Questa propensione inconsapevole consiste nel considerare, nell’ottica di una previsione, l’effetto spiacevole prodotto da una perdita personale, di portata decisamente maggiore dell’effetto piacevole che produrrebbe un guadagno della stessa entità. Corollario di questa predisposizione psicologica è che il beneficio della vincita deve essere per noi sproporzionatamente maggiore, perché si accetti il rischio della scommessa.

Anche in questo caso, in due distinti esperimenti, è stato possibile rilevare un “effetto lingua straniera”: la lingua madre dei volontari nella prima prova era il coreano, nella seconda era l’inglese; la lingua straniera era l’inglese nel primo caso, lo spagnolo nel secondo. I Coreani accettavano più scommesse ipotetiche nel setting comunicativo inglese, seguendo una valutazione equilibrata e non influenzata dalla pretesa derivante dalla tendenza psicologica inconsapevole; allo stesso modo, i volontari di lingua inglese hanno accettato molte più scommesse in spagnolo che nella versione corrente dell’idioma di Shakespeare.

Jessica Gross di Scientific American Mind ha riportato un commento di Boaz Keysar: “Quando le persone usano una lingua straniera, le loro decisioni tendono ad essere meno preconcette, più analitiche, più sistematiche, perché la lingua straniera fornisce distanza psicologica”[2]. La Gross prosegue, poi, riassumendo la conversazione con Keysar: le propensioni cognitive sono radicate nelle reazioni emozionali, e pensare in una lingua straniera ci aiuta a disconnetterci da queste emozioni e a prendere decisioni in una maniera più economicamente razionale. Comunque, questi studi non considerano - ammette Boaz Keysar - le circostanze in cui l’impegno emozionale migliora, invece che peggiorare, le nostre scelte: “Noi abbiamo un sistema emozionale per una buona ragione”[3].

Francamente, sebbene la semplificazione di Keysar sia efficace, non mi sembra esauriente e correttamente descrittiva della differenza di sostrato neurofunzionale fra le decisioni prese nella lingua madre e nella lingua acquisita: i volontari degli esperimenti, quando sceglievano nell’idioma nativo, non erano in preda ad emozioni e, se è vero che all’origine di quelle tendenze devono esserci stati, nei nostri progenitori ancestrali, ragionamenti influenzati da risposte affettive, le quali hanno presumibilmente origine filogenetica nelle reazioni elementari del sistema limbico-emozionale, l’abito mentale che implica la bias emersa nella madrelingua è una condizione di fondo, non una reazione emotiva. Andrebbe, perciò, spiegato un po’ meglio il rapporto, nella funzione psichica di base attuale, fra lingua e cognizione.

In proposito mi sembra istruttiva questa lucida sintesi, proposta dal nostro presidente una decina di anni fa, e basata su sue riflessioni teoriche di circa tre decenni prima.

“La precoce e completa fusione fra pensiero e lingua madre durante lo sviluppo e negli anni seguenti, crea un adattamento, che ordinariamente non emerge alla coscienza, del pensiero alle forme verbali apprese e maggiormente usate, e delle formule linguistiche al modo di sentire, elaborare e rispondere alla realtà, che si è andato formando nel soggetto. L’abitudine consolidata crea degli schemi inconsapevoli, formati da blocchi di linguaggio-pensiero, la cui struttura non è presente alla coscienza e, pertanto, la natura relativa di tali blocchi non appare al soggetto, che non dispone di alcuno spiraglio fra pensieri e parole che lasci passare la luce della consapevolezza critica. La granitica unità fra memorie verbali e concettuali può rivelarsi utile nelle circostanze in cui rappresenta uno strumento di decisione appropriata, in quanto elimina i tempi necessari per valutazioni di fatto superflue, accrescendo l’efficienza operativa del soggetto. Al contrario, può rivelare tutti i suoi limiti quando un complesso di blocchi “verbo-noetici”, consolidati anche attraverso esperienze relazionali e sociali in tal senso univoche, costituisca una sorta di “mentalità chiusa” in una situazione che richieda flessibilità di scelta nell’impiego di forme libere di intelligenza interpretativa. Probabilmente fu l’esperienza del riconoscere nell’altro un tale limite, sicuramente sostenuto da una base neurale, che indusse gli antichi Romani ad adottare l’espressione forma mentis, la cui accezione in origine era esclusivamente negativa e, solo in epoche successive, acquisì il valore neutro attuale di «forma speciale nel modo di pensare».

Fra i due estremi della semplificazione che accresce l’efficienza e della mentalità ottusa e imprescindibile che preclude l’uso di alternative intelligenti, vi sono certamente tutte quelle tendenze psicologiche di fondo o bias, che si acquisiscono attraverso la comunicazione e si consolidano con l’attivazione preconscia nel corso delle esperienze di vita”[4].

Nel seminario permanente sull’arte del vivere[5] siamo costantemente incoraggiati a condurre riflessioni sulle forme verbali e, in genere, sul corpo del linguaggio che adoperiamo, allo scopo di acquisire consapevolezza circa i possibili condizionamenti determinati da consuetudini comunicative, e trovare un’adeguata distanza razionale per esaminare efficacemente il legame esistente fra forme espressive e contenuti psichici.

Non si tratta di impiegare una meta-cognizione secondo l’uso alla moda che si fa di questa espressione[6], ma di “istituire una pratica paradigmatica di consapevolezza”[7]: dedicare ed esercitare un ambito della propria coscienza, fino ad ottenerne la partecipazione automatica e costante ad ogni aspetto della vita psichica. In tal modo si riesce spesso ad anticipare la manifestazione di bias e modalità indotte da condizionamenti inapparenti, liberandosi dal loro vincolo favorito dall’inconsapevolezza.

Ritornando al perché sembra che si ragioni meglio in una lingua straniera, siamo del parere che la scuola psicologica di Chicago, affrontando il problema delle propensioni inconsce legate al linguaggio verbale che informa la mente, abbia focalizzato l’attenzione sull’aspetto più rilevante; tuttavia, non trascurerei l’obbligo all’intervento della cognizione cosciente per la comprensione e la formulazione del pensiero in una lingua che si è appresa sui banchi di scuola. La mancanza di immediatezza, soprattutto quando la seconda lingua non è impiegata quotidianamente e da molti anni nella vita pratica, richiede un tempo maggiore di elaborazione e una modalità più analitica di comprensione, che spesso implica il passaggio cosciente della traduzione nella lingua madre.

 

L’autore del testo vuole ricordare ai lettori che numerosi soci si sono occupati dell’argomento trattato, fra cui Diane Richmond, Roberto Colonna, Lorenzo L. Borgia, Simone Werner, Lanfranco Bertini, Armida Ortles e Giovanna Rezzoni; e vuole poi invitare alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Giovanni Rossi

BM&L-15 dicembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Summerfield C. & Koechlin E., Decision Making and Prefrontal Executive Function. In “Cognitive Neurosciences” (Michael Gazzaniga, editor-in-chief) pp. 1019-1027, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, USA, 2009.

[2] Gross J., Sci Am. Mind 23 (5): 7, november-december, 2012.

[3] Gross J., op. cit., ibidem.

[4] G. Perrella, Riflessioni su linguaggio e pensiero, p. 7, BM&L, Firenze 2003.

[5] E’ un lavoro nel quale, impiegando conoscenze neuroscientifiche, ma anche paradigmi di analisi e strumenti interpretativi sviluppati in seno a discipline quali la filosofia, la psicologia, l’antropologia, la linguistica, ecc., i soci anziani collaborano col presidente della Società nello sviluppo di una cultura comune che si spera possa incidere positivamente sulla vita dei partecipanti.  “Arte del vivere” è un espressione con la quale molti filosofi dell’antichità designavano la filosofia, definendone il senso di “sapienza pratica” che ha perso, poi, nei secoli di specializzazione del pensiero in forme sempre più tecniche ed astratte, fino alla riduzione accademica novecentesca di tutto il pensiero filosofico ad ontologia e metafisica (Cfr. G. Perrella, Riflessioni sull’arte del vivere. BM&L, Firenze 2004).

[6] Si fa un gran parlare di meta-cognizione, soprattutto prendendo le mosse da elaborazioni realizzate per tentare di conferire una sorta di base teorica a nuovi tipi di psicoterapia di impronta pedagogica, ma in realtà quel genere di discussione non coglie l’essenza del problema consistente in una “coscienza attiva” di ciò che abitualmente ci vincola inconsciamente.

[7] L’espressione è di Giuseppe Perrella e si riferisce a uno dei presupposti per impiegare gli strumenti della saggezza antica e moderna nella vita quotidiana.