Patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria  

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 08 dicembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO CRITICO - AGGIORNAMENTO]

 

 

(Terza Parte)

 

La prima e più generale conseguenza negativa della bocciatura di un farmaco sperimentato sulle persone sbagliate, è legata al fatto che sarebbe potuto essere efficace in quelle giuste, cioè nei pazienti il cui cervello presenta effettivamente i processi patologici per i quali il composto è stato messo alla prova; ma non lo sapremo mai: ciò vuol dire che molte migliaia, o addirittura milioni di persone in tutto il mondo, potrebbero essere state private di un aiuto farmacologico migliore di quelli attualmente disponibili.

Vi sono, poi, le conseguenze che direttamente riguardano le persone che prendono parte a queste prove, come è stato evidenziato in un articolo scritto dagli stessi dipendenti di una casa farmaceutica, la Glaxo-SmithKline: considerato che la metà delle valutazioni di nuovi antidepressivi fallisce, la metà di tutti i pazienti reclutati in queste sperimentazioni affronta dei rischi senza alcuna probabilità di dare un contributo alla conoscenza.

I rischi sono vari, primo fra tutti l’esposizione agli effetti di una molecola che, tranne gli ipotetici rari casi di farmaci già impiegati per altre indicazioni, è stata sperimentata in precedenza solo negli animali. Un’altra potenzialità di danno è insita nell’interruzione della terapia cui il paziente si sta sottoponendo in quel periodo: se il volontario capita fra coloro che riceveranno il placebo, resterà senza farmaco o altro trattamento per tutta la durata dello studio.

Un altro problema, spesso sottovalutato, è costituito dalla interruzione  di qualsiasi altro trattamento associato. In proposito, ricordiamo che uno degli schemi più adoperati nella farmacoterapia delle psicosi, ormai da decenni, prevede l’impiego di farmaci principali, ossia gli antipsicotici[1], associati a sedativo-ipnotici, quali le benzodiazepine[2] che, oltre a far fronte a sintomi ansiosi, contribuiscono a ridurre lo stato di agitazione e combattono l’insonnia. Similmente, i pazienti depressi o bipolari, sono trattati con protocolli che prevedono l’associazione alle molecole principali di principi attivi su sintomi riportabili all’ansia o a disturbi del sonno. Ancora, si deve considerare che, se il volontario soffre di cefalea, lombalgia, o qualsiasi altro disturbo che potrebbe comportare l’utilizzo di analgesici, dovrà sopportare il dolore tutto il tempo della sperimentazione, ed andrà incontro al cambiamento di stato neurofunzionale che si accompagna alla riaccensione di una sofferenza cronica.

In altri termini, fra i danni derivanti dalla cattiva selezione dei volontari, c’è anche il rischio di far soffrire inutilmente delle persone, senza benefici per alcuno, compiendo un atto contrario all’etica medica e alla deontologia professionale.

In che modo le aziende farmaceutiche giustificano il loro comportamento? Uno dei pochi argomenti fondati è costituito dal numero relativamente basso di persone reclutabili per alcuni tipi di studi, rispetto a quello necessario per ottenere risultati significativi.

Joseph McEvoy, il già citato professore della Duke University che è attualmente impegnato nello studio della schizofrenia, afferma che la scarsità di pazienti ricoverati presso gli istituiti che partecipano agli studi di verifica dell’efficacia sull’uomo di nuove molecole, ha radicalmente mutato le cose: per raggiungere gli standard numerici di valutazioni che in passato si basavano su 50 siti clinici dove si trattavano pazienti schizofrenici, attualmente si dovrebbero teoricamente impiegare migliaia di siti.

 Per contro, si deve osservare l’enorme crescita del numero di studi, spinta dalla prospettiva di grandi profitti. Nel 2010 i farmaci antipsicotici ed antidepressivi, fra le prime cinque classi di farmaci più venduti al mondo, hanno determinato un guadagno per le case produttrici, rispettivamente, di 16,9 miliardi di dollari e di 16,1 miliardi di dollari, secondo i dati del gruppo di consulenza IMS Health.

La molla del profitto fa si che, a dispetto della difficoltà di reperire i soggetti adatti, la macchina della sperimentazione di nuove molecole proceda accelerando, anche grazie alla necessità di pubblicare lavori sperimentali da parte dei medici che operano in realtà accademiche: il loro posto di lavoro dipende dallo status definito dalle pubblicazioni annuali e, certamente, il modo più semplice per fare pubblicazioni scientifiche è somministrare farmaci a pazienti. Se a questo bisogno dei medici-ricercatori più precari, si aggiunge il business degli incentivi gestiti dai colleghi più anziani che, per la loro posizione apicale possono contare su pubblicazioni certe dovute al lavoro dei collaboratori, comprendiamo in che modo è stata esercitata la pressione che ha portato alla degenerazione delle procedure di selezione dei partecipanti.

Il problema è ora allo studio, oltre che sotto il profilo dell’etica medica, in termini socio-politici.

Molte compagnie assicurative, negli USA, hanno polizze sanitarie che coprono anche le attività lavorative precarie di breve durata, tuttavia i periodi di disoccupazione sono sempre più lunghi e frequenti a causa della crisi finanziaria internazionale, pertanto è cresciuto il numero di persone che richiedono trattamenti farmacologici cronici e non dispongono delle risorse per acquistare i medicinali. Accanto a questa quota di cittadini, per la verità non elevata, vi è quella molto più alta di persone in costante e grave necessità economica, per le quali il compenso come volontari di ricerca costituisce una sorta di miraggio che, quando si realizza, supplisce lo stipendio mai percepito. Alcuni osservatori si sono chiesti se la condizione di indigenza possa essere paragonata ad una coercizione che, in un certo senso, limiterebbe la libertà di scelta dei cittadini.

 David J. Rothman, specializzato in etica medica e professore presso la Columbia University, definisce questo stato “coercizione da mancanza di stipendio”. In realtà, come è facile supporre, l’estremo bisogno può sbilanciare l’equilibrio nel giudicare l’informativa proposta dal personale sanitario, ed indurre ad accettare rischi che in condizioni normali sarebbero stati evitati.

Non meraviglia: basti pensare a coloro che, nella morsa dei debiti, vendono organi del corpo; tuttavia, in termini giuridici non si può riconoscere la presenza di una coercizione in una circostanza in cui non vi è un soggetto che la esercita e il reclutamento avviene formalmente mediante una libera scelta volontaria, con accettazione controfirmata delle regole e dei rischi. La responsabilità sociale può solo essere riconosciuta politicamente e moralmente.

La consapevolezza in seno alle stesse case produttrici di aver determinato una situazione di fatto che si sta rivelando controproducente, ha portato a cercare dei correttivi.

Attualmente, una parte considerevole di dati relativi a persone che possono essere impiegate come volontari, proviene da società di capitale dette centralized ratings companies, che hanno interessi finanziari collegati ai risultati degli studi farmacologici, ed hanno allestito delle stazioni computerizzate di valutazione a distanza, dove medici a contratto valutano mediante video i potenziali candidati. Tali società dichiarano di essere in grado di offrire alle case farmaceutiche una valutazione più affidabile, anche perché indipendente, di quella dei medici delle stesse cliniche presso le quali sono ricoverati i volontari. Med Avante, una delle maggiori di queste ditte, ha dimostrato che i suoi selezionatori escludevano un numero maggiore di soggetti rispetto ai clinici incaricati nel sito di ricerca, e che la sperimentazione condotta con i volontari di sua selezione faceva registrare un effetto placebo molto più contenuto.

E’ doveroso ricordare che, anche se le cause della bocciatura delle nuove molecole nel campo della psicofarmacologia non erano ben chiare fino ad alcuni anni fa, già nel 2006 un articolo apparso in una rivista economica affidabile come McKinsey Quarterly, aveva rilevato che l’esame di vasta scala sull’uomo, corrispondente alla fase III del processo di approvazione di un nuovo farmaco da parte della Food and Drug Administration (FDA), aveva esito negativo nel 42% dei casi.

Il costo di questi farmaci mancati è tanto alto da costituire un vero scandalo. Dal 2008 al 2012, secondo Cutting Edge Information, il costo per paziente della fase III di sperimentazione è grosso modo raddoppiato, andando da circa 50.000 dollari a 100.000 dollari. Se si considera che la sperimentazione di questa fase è condotta per ogni molecola su centinaia, ma più spesso su migliaia di persone, ci si può facilmente rendere conto delle cifre astronomiche di denaro gettato al vento, che si sarebbe potute impiegare in imprese umane e scientifiche oggettivamente meritevoli.

In queste condizioni è ormai evidente, tanto ai vertici delle aziende farmaceutiche quanto alle commissioni di controllo che rappresentano la comunità scientifica, che non basta una riforma degli incentivi o un maggior controllo sui criteri di selezione dei pazienti, ma è necessario un radicale cambiamento di rotta, che segni un’aperta discontinuità con la mentalità corrotta ed irresponsabile che ha portato alla condizione attuale: i dirigenti di ricerca, i selezionatori e tutti gli operatori che hanno posto in essere pratiche truffaldine, dovrebbero essere rimossi dagli incarichi o sospesi dall’attività di ricerca. Parallelamente, dovrebbero essere avviate inchieste, da parte dell’organismo di controllo dell’NIH sull’integrità della ricerca, su tutti gli studi che presentano un profilo sospetto, soprattutto per una risposta al placebo eccessivamente alta. I risultati delle inchieste dovrebbero essere trasmessi alla FDA, che dovrebbe tenere un archivio speciale, una sorta di “libro nero” degli istituti, oltre che dei ricercatori. Tali misure dovrebbero stimolare ed accrescere la sorveglianza da parte delle commissioni di controllo interne delle cliniche accademiche[3] e degli altri istituti privati di ricovero e cura che partecipano alla sperimentazione clinica dei farmaci negli USA.

Ma, al di là di queste ed altre misure di carattere repressivo, deve essere ripensato e rivisto il rapporto fra la ricerca biomedica di base, in questo caso neurobiologica, e i piani di lavoro delle multinazionali del farmaco. Al riguardo Giuseppe Perrella, presidente della nostra società, ritiene che sia necessario riuscire a riportare nella realtà culturale dell’insegnamento universitario, così come nella pratica organizzazione del lavoro sperimentale, la distinzione fra la ricerca scientifica, intesa in senso proprio e fondata sul desiderio di conoscere, e gli studi applicativi direttamente intesi ad ottenere un risultato pratico in vista di un interesse economico[4]. Anche se a tutti è evidente la differenza che esiste, ad esempio, fra lo studio sperimentale volto alla comprensione del ruolo di una proteina in una via biochimica, che può impegnare per anni l’intelligenza di tanti ricercatori e tanti laboratori, e la somministrazione per qualche settimana o qualche mese di una sostanza per verificarne l’efficacia nell’uomo, di fatto queste due pratiche sono poste sullo stesso piano e la seconda, oltre ad essere molto più remunerativa della prima, consente di fabbricare titoli accademici molto più facilmente. In neurobiologia, senza l’enorme mole di dati e concetti della ricerca di base indipendente in tutte le sue branche, dalla neurochimica alla neurogenetica, si avrebbe ancora l’angusta e distorta visione di un cervello basato quasi esclusivamente sui recettori della dopamina e sui trasportatori della serotonina, così come emergeva dagli studi farmacologici volti a fini farmaceutici.

La distinzione dovrebbe costituire, come è stato nel passato, cultura comune e fondamento razionale, tanto per gli scienziati quanto per gli amministratori. Se non è precluso alle multinazionali del farmaco il finanziamento della ricerca di base e l’allestimento di studi da parte di suoi stipendiati che, nel corso del lavoro sono poi sostituiti da personalità accademiche perché lo studio sia firmato da ricercatori indipendenti[5], tutto ciò dovrebbe essere pubblicamente dichiarato e riconosciuto, per rendere possibile la verifica dell’esistenza dei requisiti necessari all’affidabilità dei risultati. A tal fine, i principali organismi internazionali responsabili della ricerca scientifica, dovrebbero costituire una rete, a partire dagli istituti di maggior prestigio che hanno mostrato integrità e indipendenza[6], per la sorveglianza e la comunicazione, che potrebbe avvalersi di uno spazio riservato sulle maggiori riviste scientifiche. Il finanziamento occulto, l’omessa dichiarazione dell’impostazione di un lavoro da parte di case farmaceutiche e di biotecnologie, e ogni forma di intesa a fini di profitto, dovrebbe essere duramente sanzionata e risultare gravemente penalizzante per chi la pone in essere.

Questo genere di distinzione impone necessariamente una separazione materiale fra progetti e persone, apertamente osteggiata da molti. Fra i più autorevoli e insospettabili avversari della separazione vi è Eric G. Campbell, professore alla Harvard University che studia il conflitto di interessi nella professione medica.

Campbell sostiene che la distinzione culturale fra la sperimentazione intrapresa per curiosità scientifica e gli studi avviati con lo scopo di ottenere un definito aumento di fatturato in un determinato lasso di tempo, porterebbe inevitabilmente ad una frattura che impoverirebbe la ricerca universitaria. Lo studioso di Harvard si augura che si compia ogni sforzo per guidare l’interazione fra ricerca scientifica e industria, in modo da incoraggiare la migliore scienza possibile: “Se noi separiamo il talento e le conoscenze delle persone delle scuole mediche dal talento e dalle conoscenze delle società farmaceutiche, noi non avremo alcun prodotto nuovo”[7].

Se all’interno dello stesso mondo accademico non si comprende la necessità di un intervento drastico per risanare una condizione che per la ricerca neuropsicofarmacologica è divenuta insostenibile, non resta che fare affidamento sulla buona volontà e sulla responsabilità degli stessi protagonisti della ricerca, che dovrebbero rispondere al platonico appello di una moral suasion, convertendosi ad un comportamento virtuoso.

Eric Campbell vi crede, ma chi come noi rimane scettico, non può ritenersi un pessimista nel giudizio della natura umana. Secondo Paul S. Appelbaum, ex presidente dell’American Psychiatric Association, che attualmente insegna etica medica alla Columbia University, si commette l’errore di dimenticare che le bias psicologiche e le debolezze umane riguardano i medici come qualsiasi altra persona. Ad esempio, l’ostacolo contro l’influenza corruttrice del premio in denaro nella selezione dei pazienti, sarebbe costituito unicamente dal maggior rigore nel giudizio da parte dei medici rispetto ad altri gruppi sociali e professionali: “C’è una forte tendenza all’interno della professione a credere che noi siamo obiettivi, ma in realtà noi siamo proprio come tutti gli altri.”[8]

Dobbiamo prendere atto che, allo stato attuale delle cose, non esiste la volontà comune nel mondo universitario statunitense di affrontare radicalmente il problema della patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria. Per parte nostra, non possiamo fare altro che dichiararci disponibili a partecipare ad ogni iniziativa che la International Society of Neuroscience (BM&L) vorrà  porre in essere per combattere questa deriva dannosa per tutti.

 

L’autrice del testo ringrazia il Presidente Perrella per l’aiuto nella selezione del materiale documentario, per le opportune correzioni e i preziosi suggerimenti, e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-08 dicembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Quali fenotiazinici, butirrofenonici, tixantenici, difenil-butil-piperidinici, dibenzo-diazepinici, dibenzo-ossazepinici, benzamidici, indolici, acridanici, tiazine; o di seconda generazione, come clozapina, olanzapina, risperidione, amisulpride, aripiprazolo, asenapina, quetiapina, ecc.

[2] Quali diazepam, clordiazepossido, lorazepam, metil-lorazepam, oxazepam, temazepam, alprazolam, halazopam, triazolam, prazepam, ecc.

[3] L’equivalente dei nostri policlinici universitari.

[4] La trattazione che segue è in gran parte tratta da una relazione del nostro presidente: G. Perrella, L’integrità come linfa per la ricerca neuroscientifica. BM&L, Firenze 2010.

[5] Si veda “Note e Notizie 07-04-07 La frode delle case farmaceutiche mediante autori-fantasma”.

[6] Alcuni centri di ricerca medica statunitensi hanno dismesso pratiche poco corrette in termini di conflitti di interesse. Molti campus hanno escluso dal loro interno le aziende farmaceutiche e rinunciato a forme surrettizie di finanziamento, quali le colazioni sponsorizzate e la miriade di oggettini, penne incluse, recanti il nome di farmaci e della casa produttrice.

[7] Rosen G., op. cit., p. 41.

[8] Rosen G., op. cit., ibidem.