Patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria  

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 01 dicembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO CRITICO - AGGIORNAMENTO]

 

 

(Seconda Parte)

 

E’ emerso che le stime diagnostiche degli incentivati, rilevavano sempre una gravità maggiore di quella accertata da colleghi che non operavano per conto di aziende farmaceutiche, con la conseguenza che la valutazione post-trattamento, necessariamente corretta perché “cieca” rispetto all’assunzione di farmaco o placebo, sistematicamente riscontrava un notevole miglioramento generalizzato.

Per comprendere come questa alterazione della prima diagnosi sia riflessa e indirettamente documentata dal potere terapeutico del placebo, facciamo un esempio pratico. Immaginiamo un ipotetico soggetto, che chiameremo Mario, con un basso tono dell’umore e forse affetto da una depressione lieve. Per la valutazione si adopera una scala standardizzata a punti specifica per il disturbo depressivo: per essere considerato idoneo all’inclusione, Mario dovrà totalizzare almeno 8 su 10, ma la sua stima corretta al massimo raggiungerebbe 6 punti. Il ricercatore incentivato, per includerlo nel campione, gli attribuirà un 8. Ora, nella distribuzione casuale attuata con una procedura blindata che non può essere manipolata dai ricercatori, Mario potrà appartenere al gruppo cui sarà somministrato il nuovo farmaco, oppure a quello che assumerà il placebo; nel secondo caso, quando sarà valutato dopo il periodo di sperimentazione con un punteggio corretto di 5 o 6, si dovrà attribuire al placebo la virtù di aver determinato un miglioramento di 2 o 3 punti! Si comprende che, al crescere del numero dei Mario presenti nel campione sperimentale, crescerà la probabilità di una stima più elevata del potere curativo della sostanza inerte.

Joseph Mc Evoy, professore della Duke University interpellato al riguardo da Gabriella Rosen, ritiene che gli alti livelli di risposta al placebo che si riscontrano in questi studi siano da attribuire quasi esclusivamente alle condotte fraudolente nella selezione dei pazienti, e poi osserva, facendo un paragone con la sperimentazione clinica del passato: “Venti o trenta anni fa avresti trovato grandi differenze placebo-farmaco. I pazienti assumenti il placebo sarebbero peggiorati e quelli assumenti un farmaco attivo sarebbero migliorati un sacco perché realmente mettevano le persone giuste nel trial[1].

Si comprende che molti ricercatori indipendenti abbiano posto il problema dell’affidabilità di tutti gli studi di valutazione di efficacia clinica condotti per conto di aziende con interessi nella commercializzazione, non potendo, per legge, proibire gli incentivi.

Abbiamo visto come le migliaia di dollari per paziente donate in premio, inducano i ricercatori corrotti ad alterare i punteggi nelle valutazioni di ammissione - con la conseguenza di attribuire al placebo poteri di cura miracolosi - ma condotte distorte, ancora più gravi per l’attendibilità degli studi, vengono dalle manipolazioni che hanno per protagonisti negativi i pazienti stessi, o presunti tali. Abbiamo già accennato alla stortura dei “volontari professionisti”, ma non abbiamo considerato il caso di quelli che riescono ad essere inclusi nella sperimentazione clinica di farmaci per malattie mentali del tutto diverse dalla propria.

L’impiego delle rating scales, oltre ad essere obbligatorio per l’oggettivazione della diagnosi, si ritiene possa consentire una precisa stima di gravità, definita da un punteggio, e ritenuta utile per misurare con esattezza gli effetti delle dosi della sostanza sottoposta a verifica sperimentale. Come si può eludere un tale sistema di sicurezza e vanificare le intenzioni di chi lo ha introdotto?

Vi sono due modi principali: il primo, che abbiamo già considerato, è interamente nella responsabilità del diagnosta che aggrava ed accentua i sintomi; il secondo, che considereremo qui di seguito, prevede la responsabilità del diagnosticato che mente e quella del ricercatore che erroneamente gli da credito o fraudolentemente finge di credergli. La possibilità di aggirare l’ostacolo dei questionari delle scale di valutazione è insita in una debolezza di questo sistema di accertamento[2]: mentre in medicina si distingue rigorosamente l’anamnesi dall’esame obiettivo del paziente, questi strumenti, secondo un uso invalso in ambito psicologico, sovrappongono i due momenti e, in un certo senso, li confondono, perché prevedono delle domande e considerano le risposte come rilievi oggettivi[3].

Prendiamo, ad esempio, l’esame condotto al fine di includere delle persone in un campione di valutazione di una molecola che si spera di impiegare per il trattamento del disturbo maniacale[4] o della fase di eccitazione del disturbo bipolare. A questo fine si adopera spesso la “Young Mania Rating Scale”, uno strumento di accertamento fondato in gran parte su quanto afferma la persona intervistata che può, avendo tratto spunto da qualche lettura specifica, dichiarare sintomi di eccitazione maniacale che non ha mai realmente sperimentato.

In proposito, riporto il racconto di un episodio riferito da Gabriella Rosen[5].

 

Jack, un medico formato in un ospedale universitario di alto prestigio, ricorda una sessione didattica in cui uno psichiatra intervistava una paziente di nome Eileen. Eileen era stata ricoverata dal medico di guardia la notte precedente come partecipante ad uno studio di sperimentazione clinica. Nell’intervista la donna parlava dei suoi problemi di relazione, dei suoi sentimenti di abbandono, delle sue frequenti crisi di pianto. Sedeva accasciata sulla sedia, senza guardare negli occhi l’interlocutore, parlava lentamente e trasmetteva un senso di sconforto. Non si richiedeva un professionista per applicare la parola “depressa”.

Dopo la sessione, il gruppo discusse il suo caso.

Jack chiese ad Ann, l’interna che trattava Eileen, a quale studio Eileen fosse stata ammessa.

“Lo studio bipolare”, disse Ann “Per mania acuta”.

Lo psichiatra, in visita da un altro ospedale, strabuzzò gli occhi. L’esuberanza della mania era la cosa più lontana possibile dallo stato sintomatologico di Eileen.  

 

In questo caso, sia che vi sia responsabilità della paziente che può aver mentito per essere inclusa nello studio e ricevere il compenso, sia che abbia fatto tutto da solo il medico di guardia per ottenere la sua parte del premio dalla casa farmaceutica, si configura una condizione, per dirla con un’espressione del diritto italiano, di colpa professionale grave. Se Eileen ha ricevuto un farmaco psicodeprimente, contro un’inesistente eccitazione maniacale e in uno stato di evidente prostrazione, i danni al suo cervello e alla sua salute in generale sono responsabilità di chi l’ha inclusa nello studio, ma anche della dottoressa Ann che l’ha presa in carico e, moralmente, anche del dottor Jack che è stato testimone di quanto, in assenza di dimostrazione di un’intenzione fraudolenta, deve considerarsi un grave errore diagnostico.

A proposito di testimoni, un’infermiera psichiatrica di nome Helene, che ha lavorato sia in policlinici universitari che in cliniche private, riferisce alla Rosen di aver visto ricoverare, per essere incluse in trails clinici di psicofarmaci, tante persone assolutamente prive di sintomi di alcun genere, dei quali dice: “They are coming in for the money”, e aggiunge che, quando esprime dubbi sull’inclusione di qualcuno dei candidati selezionati, gli assistenti di ricerca, senza risponderle, le fanno un mezzo sorriso e vanno via[6].

Una prima conseguenza del tentativo di giungere più rapidamente a maggiori profitti e di battere la concorrenza sul mercato della sofferenza psichica con mezzi illeciti, è che l’impiego di queste condotte distorte e truffaldine si è ritorto contro le stesse aziende produttrici: è notevolmente cresciuto il numero di molecole che non superano la prova clinica. Se l’inclusione di persone non realmente ammalate poteva far sperare di esaltare le qualità terapeutiche del nuovo medicamento, vuol dire che non si erano considerati gli effetti della randomizzazione che, come abbiamo visto, ha fatto crescere enormemente la risposta al placebo.

Le ragioni per cui un farmaco non supera la fase di sperimentazione clinica sono numerose, ma in psichiatria il problema principale è che molte molecole non mostrano un’efficacia maggiore di un finto trattamento. Alti livelli di risposta al placebo creano problemi notevoli e mai affrontati in precedenza: se metà dei pazienti migliora sensibilmente con una pillola di zucchero, si è autorizzati a dubitare del valore di tutto lo studio. In realtà, per poter scoprire la ragione di queste anomalie e rendersi conto che le cause sono da ricondursi ad una patologia della ricerca, è stato necessario condurre studi di verifica impiegando fondi, energie e tempo di ricercatori onesti, che avrebbero potuto lavorare più proficuamente ad altri progetti.

La quota di insuccessi nella sperimentazione degli psicofarmaci è estremamente più elevata di quelle riscontrate in tutti gli altri settori della ricerca farmacologica: la metà degli antidepressivi che giungono ai trials sono bocciati.

Le conseguenze sono numerose e non tutte lievi. Innanzitutto, la perdita di denaro da parte delle aziende farmaceutiche si traduce pressoché automaticamente in un aumento dei prezzi dei prodotti in vendita, e poi si devono considerare i risvolti negativi per pazienti.

 

 [continua]

 

L’autrice del testo ringrazia il Presidente Perrella per l’aiuto nella selezione del materiale documentario, per le opportune correzioni e i preziosi suggerimenti, e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-01 dicembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Rosen G., Studying Drugs in All the Wrong People, p. 39, Sci. Am. Mind 23 (4): 34-41, Sept/Oct, 2012.

[2] Il nostro presidente e molti soci della nostra società neuroscientifica hanno da lungo tempo denunciato tutti i limiti e i difetti di questi strumenti diagnostici, che nella forma ricalcano il rigore delle scale di misura di disturbi neurologici o di altri ambiti della medicina, ma nella sostanza presentano limiti e cadono in contraddizioni ed incongruenze dovute anche alla imperfetta conoscenza dei disturbi psichiatrici ed alle particolarità della “materia della mente”.

[3] Per questa distinzione e per una magistrale discussione sull’argomento, i soci possono fare riferimento al testo della relazione “La diagnosi in psichiatria come problema medico” di G. Perrella (BM&L, Firenze 2003).

[4] Ricordo che per “mania” in psichiatria si intende uno stato di eccitazione psichica e di attivazione psicomotoria che si accompagna ad altissimo tono dell’umore, in cui l’apparente allegria del soggetto non è realmente gioiosa perché in genere non si accompagna ad una percezione soggettiva positiva o di vero e proprio piacere per il proprio stato (si veda: G. Perrella, Sulle differenze soggettive ed obiettive fra stati di eccitazione. BM&L, Firenze 2004). Si ricorda anche che il prototipo del “pazzo” della cultura popolare, ossia della persona imprevedibilmente e incomprensibilmente aggressiva e distruttiva per ragioni apparentemente indipendenti dalle contingenze ambientali, corrisponde proprio allo psicotico maniaco della psichiatria classica.

[5] Rosen G., op. cit., p. 38.

[6] Rosen G., op. cit., p.38.