Patologia della ricerca di nuovi farmaci in psichiatria  

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 24 novembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO CRITICO - AGGIORNAMENTO]

 

 

(Prima Parte)

 

L’interesse entusiastico e partecipato con il quale sono state accolte le osservazioni critiche sulla diagnostica psichiatrica proposte dal nostro presidente, nel corso della sua relazione di recensione del DSM-5, mi ha suggerito l’idea di approfondire una delle cause all’origine degli scarsi progressi che si compiono nel campo della farmacoterapia dei disturbi della mente: la patologia della ricerca. Se è vero che una buona pratica clinica in psichiatria dovrebbe contare su un miglior modo di fare diagnosi che applicare alla lettera i criteri del DSM, è anche vero che dovrebbe poter contare su strumenti terapeutici più specifici ed efficaci, oltre che certamente scevri, anche a distanza di tempo e in trattamenti protratti, da preoccupanti conseguenze.

Un’osservazione che sento ripetere spesso da neurobiologi molecolari e neurogenetisti è che i cambiamenti senza precedenti intervenuti negli ultimi due decenni nei loro campi di indagine non hanno che un pallido riflesso nelle variazioni minime che si possono registrare nella pratica psicofarmacoterapeutica, ancora largamente basata su principi e molecole introdotti molti decenni or sono. Quali sono le ragioni di questo ritardo? Ho provato a cercarle indagando lo stato delle cose nel paese che è al contempo la nazione leader nella ricerca biomedica mondiale e il più importante mercato per le multinazionali farmaceutiche: gli Stati Uniti d’America.

Nella mia disamina, sommaria ma non superficiale, mi sono riferita alla recente esperienza di Gabriella Rosen, una giovane dottoressa che ha svolto il suo periodo di internato in psichiatria e si è posta il problema del modo in cui sono materialmente realizzate le prove sperimentali su soggetti volontari, al fine di introdurre nuovi farmaci nella cura dei disturbi della mente.

Una prima stortura del sistema è rappresentata dall’esistenza di persone che fanno i “volontari professionisti”, cioè passano da uno studio sperimentale all’altro per poter percepire il compenso, anche se non in possesso dei requisiti che soddisfino pienamente i criteri previsti dal disegno sperimentale.

Come è possibile una cosa simile? E’ possibile grazie alla seconda e più grave stortura del sistema, consistente in una forte pressione esercitata dalle case farmaceutiche attraverso ingenti incentivi economici per i ricercatori che reclutano persone secondo il criterio del maggior numero possibile, nel minor tempo possibile. In tal modo, si crea una complicità a danno della regolarità dello studio: il paziente, o finto tale, ha interesse ad accentuare o inventare di sana pianta dei sintomi per entrare nel campione, ed il ricercatore ha interesse ad includerlo per riscuotere la ricompensa in denaro che va dai 10.000 ai 30.000 dollari per persona reclutata. E’ perfino superfluo sottolineare come in psichiatria una simile frode sia molto più facile che in qualsiasi altro settore della ricerca clinica: le commissioni di controllo, per considerare dislipidemico un volontario di uno studio sul metabolismo, si basano sui tassi ematici di colesterolo e trigliceridi rilevati e riscontrati mediante esami emoatochimici condotti da laboratori indipendenti; se si deve giudicare l’idoneità a partecipare ad una sperimentazione clinica di farmaci antipsicotici di un paziente che dice di sentire delle voci, ci si deve basare sulla sua parola.

I campioni sperimentali “annacquati” dalla presenza di falsi pazienti o di “pazienti sbagliati”, cioè affetti da un disturbo più lieve o del tutto diverso da quello per il quale la molecola era stata concepita nelle fasi precedenti della sperimentazione, ovviamente daranno risultati meno affidabili, che possono apparire immediatamente poco convincenti, se contraddicono le attese, o risultare straordinariamente soddisfacenti, quando l’aggiunta dei falsi pazienti ha migliorato la presunta performance del farmaco. Nel primo caso, i risultati impongono un’ulteriore verifica sperimentale; nel secondo, per accorgersi della inattendibilità dell’esito, sarà necessario un tempo maggiore; bisognerà, infatti, attendere uno studio condotto con rigore da un gruppo indipendente di ricercatori eticamente integri.

Tutto ciò si traduce in una perdita di tempo e di denaro straordinaria. Attualmente, il costo che porta una molecola dalle fasi dei saggi preliminari al brevetto e poi al mercato, è stimato 1.8 miliardi di dollari, ma questa cifra, già astronomica, è destinata a salire per colpa di queste frodi.

Ma perché questi problemi sono quantitativamente rilevanti e, quindi, siamo costretti ad occuparcene?

La risposta è in un trend difficile da arrestare, soprattutto in un periodo di crisi economica.

Secondo il Tuft Center for the Study of Drug Development, nel 1994 il 70% dei ricercatori che studiavano molecole a scopo terapeutico apparteneva a centri medici universitari o ad associazioni scientifiche di alto prestigio accademico e finanziate con denaro pubblico. Oggi, la proporzione è pressoché invertita: solo il 36% dei ricercatori ha questo profilo e non è direttamente o indirettamente al soldo di case farmaceutiche. Ma nemmeno questa quota può considerarsi del tutto scevra da sospetto: il 36% dei finanziamenti (grants) che aiutano a condurre o completare degli studi svolti in istituzioni accademiche, provengono dalle aziende.

In anni recenti il governo degli Stati Uniti ha varato vari regolamenti, impostati secondo il contrasto al conflitto di interessi, e volti al fine di combattere l’influenza delle case produttrici di farmaci sulla ricerca medica, ma molto si deve ancora fare per evitare quanto accade nel settore degli psicofarmaci.

Consideriamo uno scenario tipico di trial clinico per un ipotetico nuovo psicofarmaco: un’azienda farmaceutica vuole testare l’efficacia di un composto che ha mostrato, ad esempio, la capacità di ridurre il comportamento depressivo nei topi. Ricordiamo che in questa fase lo studio farmacodinamico e farmacocinetico è stato già compiuto. Primo, è necessario, avendo già proceduto ai saggi di tossicità ed efficacia di base, attuare piccole prove di controllo che confermino l’innocuità della molecola. Secondo, si dovrà somministrare la nuova sostanza ad un grande numero - il più grande possibile, per aumentare la significatività - di pazienti depressi allo scopo di  verificarne la reale efficacia.

A questo punto si segue una procedura standard, in modo sempre assolutamente corretto, anche perché derogare vorrebbe dire perdere la credibilità scientifica e il posto di lavoro: i pazienti sono distribuiti casualmente (randomization) in due gruppi, quello che riceverà il nuovo farmaco e quello che riceverà la “pillola di comparazione”, cioè la molecola maggiormente impiegata come standard terapeutico o un placebo, ossia un “finto farmaco” costituito da una compressa di materiale inerte come il talco, oppure a base di zucchero. La somministrazione avviene in doppio cieco, in altre parole chi somministra non sa se sta dando il nuovo farmaco o la pillola di comparazione e, allo stesso modo, i volontari non sanno cosa stiano ricevendo. Per l’attuazione di questa procedura, si impiegano dei kit predisposti che consentono la siglatura separata e l’abbinamento segreto dei contenitori e si procede per passi controllati, così che solo alla fine dell’esperimento i ricercatori conosceranno le chiavi dell’abbinamento e potranno procedere all’elaborazione dei dati ottenuti. E’ evidente che un numero elevato di volontari che si fa passare per depresso, essendo magari solo un po’ triste, stanco, insonne o sfiduciato, accrescerà non solo il numero di persone che avranno apparentemente tratto beneficio dal nuovo farmaco, ma anche di quelli che avranno apparentemente tratto beneficio dal placebo.

Nella sperimentazione psicofarmacologica la percentuale di fallimento dei trials clinici è elevatissima. La metà degli antidepressivi posti al vaglio risulta inaccettabile per uso terapeutico, e il motivo principale è che nella maggior parte dei casi non risultano più efficaci di una pillola di zucchero. Non è ragionevole pensare che, nonostante i progressi della farmacologia di base, giungano alla sperimentazione umana molecole molto meno efficaci di quelle che vi giungevano tanti anni fa. La spiegazione non può che essere nei volontari “finti pazienti” che inconsapevolmente elevano il grado di apparente efficacia del placebo. Proprio gli alti livelli di risposta al placebo in questi studi, hanno fatto insospettire medici e farmacologi ignari del problema, così come tanti ricercatori impegnati nella sperimentazione neuroscientifica non farmacologica. La risposta positiva al placebo, innescata da suggestione o da altri processi imponderabili, si ritiene sia dovuta alla naturale e spontanea azione curatrice del cervello, e costituisce per questo lo zero ideale dal quale deve partire una stima di efficacia farmacoterapica. Se metà dei volontari, che si suppone siano affetti da una forma di depressione che richiede trattamento farmacologico, migliora senza farmaco e senza alcuna forma di psicoterapia o di sostegno affettivo-relazionale, allora una quota molto più alta del 50%, che corrisponde allo zero virtuale, dovrà mostrare un sensibile miglioramento. Infatti, se il farmaco risultasse efficace nel 60% dei casi, vorrebbe dire che solo il 10% dei volontari ha ricevuto un giovamento superiore a quello che si avrebbe senza farmaci. Se, per ipotesi, in queste condizioni una nuova molecola antidepressiva risultasse efficace nel 98% dei volontari che l’assumono (cosa che nella realtà non si verifica mai) al netto dell’effetto placebo, che naturalmente si verifica anche con le sostanze farmacologicamente attive, la sua reale efficacia dovuta allo specifico meccanismo molecolare eccederebbe del 48% la risposta aspecifica al placebo, rimanendo paradossalmente del 2% inferiore.

Anche se i numeri che ho proposto a scopo esemplificativo - per rendere immediatamente evidente il modo in cui i falsi pazienti possano compromettere i risultati - non sono esattamente quelli delle sessioni sperimentali, riflettono la sostanza concettuale di un problema che è stato affrontato da vari gruppi di ricerca. Una mole crescente di lavori ha direttamente implicato il fenomeno della “selezione inappropriata dei soggetti” quale causa dell’innalzamento dei livelli di risposta al placebo. In questi studi si compara la valutazione condotta da ricercatori privi di interessi materiali diversi dagli scopi scientifici e clinici, con quella di loro colleghi che hanno ricevuto incentivi per compiere il lavoro.

 

[continua]

 

L’autrice del testo ringrazia il Presidente Perrella per l’aiuto nella selezione del materiale documentario, per le opportune correzioni e i preziosi suggerimenti, e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono su questo sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-24 novembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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