Sulle tracce della coscienza

 

 

DIANE RICHMOND & GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 10 novembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

In passato, lo studio clinico della coscienza considerava aspetti quantitativi valutati soprattutto sulla base delle conoscenze anestesiologiche, ed aspetti qualitativi derivati dalla semeiotica psichiatrica delle sindromi che maggiormente interessano il campo della consapevolezza e dell’autoconsapevolezza, e dalla semeiotica neurologica delle lesioni che compromettono l’esperienza cosciente, fino alle varie forme di agnosia, che sono al confine con i disturbi della percezione. A tale clinica faceva riscontro l’inizio dello studio neuroscientifico, principalmente focalizzato sull’individuazione della sede cerebrale della coscienza. Il  progredire delle conoscenze neurobiologiche ha consentito di comprendere che la base di ciò che si definisce coscienza in medicina, ed ancor più in psicologia e in filosofia della mente, è rappresentata da una sintesi di processi realizzata dall’attività globale dei grandi sistemi della corteccia cerebrale, del talamo e di altri centri sottocorticali, in tal modo riducendo l’attenzione sull’individuazione di specifiche sedi anatomiche.

Lo sviluppo delle metodiche di neuroimaging, che consentono di vedere e misurare l’attività delle singole parti dell’encefalo in funzione, ha riacceso l’interesse per la localizzazione dei processi alla base della coscienza. Intanto, con un approccio scientifico rigoroso, come quello di Francis Crick e Christof Koch, che hanno individuato nei “correlati neurofunzionali di un’esperienza percettiva cosciente”, un oggetto scientifico distinto dal generico ed onnicomprensivo concetto di coscienza, si sono eliminati molti equivoci sul senso e sul valore dei risultati sperimentali.

Attualmente non sono pochi gli studi che, impiegando le metodiche più avanzate di cui si dispone, stanno cercando di ridefinire sulla semplice base neuroanestesiologica della presenza/assenza di coscienza, la cornice morfo-funzionale, e perciò spazio-temporale, di ogni altro studio rivolto specialisticamente a particolari processi dell’ambito delle funzioni psichiche di cui il soggetto è consapevole.

Per rendere la problematicità di una lettura tradizionale dei risultati sperimentali che attualmente si ottengono sull’uomo, abbiamo scelto due studi, ciascuno dei quali ci è parso esemplare di un tipo di ricerca, ed entrambi, considerati comparativamente, emblematici di un’apparente contraddittorietà di esiti, risolvibile alla luce di una nuova prospettiva teorica.

Il primo dei due studi è stato condotto alcuni anni fa presso l’Università del Mediterraneo di Marsiglia da un gruppo guidato da François Gouin che ha impiegato, in qualità di volontari, 25 pazienti affetti da malattia di Parkinson con tremore resistente ai trattamenti standard e, pertanto, sottoposti a terapia mediante impianto di elettrodi nel nucleo subtalamico (o Corpo di Luys)[1].

Sfruttando il dispositivo terapeutico, i ricercatori francesi potevano derivare l’attività elettrica del talamo, principale struttura sottocorticale associata alle attività coscienti, contemporaneamente alla registrazione mediante elettroencefalogramma (EEG) dell’attività elettrica della corteccia cerebrale, la sede d’elezione dei processi associati alla coscienza.

 Monitorando in questo modo la funzione cerebrale, Gouin e collaboratori hanno indotto una progressiva perdita di coscienza mediante anestesia generale. A tale scopo sono stati impiegati due farmaci, il propofol e il sevoflurano, fra loro diversi per via di somministrazione (iniezione e inalazione) ed altre caratteristiche, ma con lo stesso effetto sulla coscienza, così da non rischiare di avere risultati riducibili ad uno specifico profilo farmacologico di attività.

Durante l’induzione dell’anestesia, i medici verificavano la coscienza dando colpetti su una spalla dei pazienti e chiedendo loro, ad intervalli regolari di 20 secondi, di aprire gli occhi. In tutti i casi, quando i volontari non rispondevano più alla richiesta di apertura degli occhi, ossia quando perdevano coscienza, il tracciato EEG della corteccia presentava un repentino e impressionante cambiamento: da un’attività irregolare di bassa ampiezza si passava ad un tracciato caratterizzato da grandi onde cerebrali lente, la cui frequenza era di circa una per secondo. Tale attività elettrica, detta “banda delta”, è tipica del sonno profondo.

Insieme con questo reperto, la perdita di coscienza faceva registrare una scomparsa della complessità di configurazione del segnale corticale.

Al momento della perdita della coscienza, il tracciato dell’attività elettrica derivato direttamente dal talamo non faceva registrare alcuna variazione accostabile a quelle elettroencefalografiche della corteccia cerebrale. Solo vari minuti dopo, l’attività elettrica talamica presentava cambiamenti corrispondenti a quelli indotti nella corteccia dagli anestetici. Non è superfluo sottolineare che i risultati erano sostanzialmente identici con entrambi i tipi di anestesia, da propofol e da sevoflurano.

Nella sua esemplare schematicità, questo studio indica chiaramente che gli elementi conduttori del processo di perdita della coscienza sono nella neocorteccia e che presumibilmente agiscono sui sistemi talamici inducendone l’adeguamento neurofunzionale attraverso la grande connessione rientrante cortico-talamica della corona radiata del talamo.

Il secondo studio, pubblicato nell’aprile di quest’anno e condotto da un gruppo principalmente proveniente dall’Università di Turku in Finlandia, del quale fanno parte Harry Scheinin, Jaakko W. Långsjö e Michael T. Alkire, ha visualizzato mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) le aree attive in tutto l’encefalo durante il recupero della coscienza, ossia il cosiddetto risveglio dall’anestesia generale[2].

Anche in questo caso sono stati adoperati due diversi tipi di anestetico (propofol e dexmedetomidine) per essere certi che i risultati non dipendessero dalle proprietà esclusive di un tipo di farmaco. La somministrazione ha riguardato 20 volontari che sono stati sottoposti anche all’iniezione del radionuclide emettitore di positroni, prima di adagiarsi sul lettino dell’apparecchio scanner per la PET. Gli anestesiologi hanno misurato il flusso ematico regionale mentre i partecipanti allo studio recuperavano la coscienza. La fase di passaggio è stata definita in base al verificarsi dell’esecuzione dell’ordine persistente di aprire gli occhi, che veniva reiterato ogni cinque minuti fin dalla fase di anestesia più profonda.

La successiva analisi statistica dei dati ottenuti da questo neuroimaging nucleare, ha indicato un risultato opposto a quello dello studio precedente: in questo caso la priorità temporale nell’attivazione era di regioni sottocorticali, quali le aree filogeneticamente più primitive del tronco encefalico. In particolare, il locus coeruleus e l’area parabranchiale, sede di neuroni noradrenergici che proiettano diffusamente nell’ambito del complesso cortico-talamico ed esercitano ampi effetti sul cervello. Tali aree mediano il risveglio necessario al verificarsi di risposte comportamentali quali il movimento delle palpebre.

Dando uno sguardo alle scansioni ottenute dai ricercatori finlandesi, abbiamo notato un interessante quadro di attivazione, che ci sembra valga la pena riportare, anche se esula dalla diacritica della priorità corteccia/talamo. In breve, si vede 1) un’area di attività - la maggiore fra quelle visualizzate in questa sezione - grosso modo corrispondente alla corteccia del giro del cingolo nella sua parte anteriore; 2) una seconda area, la cui parte superiore segue la curva del talamo, che copre nella sua estensione, assumendo una forma tripartita nella porzione inferiore, verosimilmente corrispondente a connessioni talamiche; 3) due aree a localizzazione cerebellare (delle quali si tace, in genere, perché la loro attivazione contrasta con la visione della neurofisiologia classica, che considera il cervelletto una struttura esclusivamente motoria); 4) un’area sita nel tronco encefalico, grosso modo appartenente al mesencefalo, perché subito sopra il fascio del ponte che costituisce il peduncolo cerebellare medio; 5) due piccole aree: una corrispondente al confine fronto-parietale della corteccia e un’altra al davanti del ponte.

Esaminando nel complesso il timing delle scansioni di questo studio, risulta evidente che, quando la coscienza è tornata, il talamo è diventato esuberantemente attivo, mentre la corteccia ha mostrato una risposta iniziale più limitata e principalmente circoscritta alle regioni frontali che si ritiene siano implicate nel monitoraggio del sé.

In sostanza, se il primo studio sembra riconoscere alla neocorteccia il ruolo di conduttrice rispetto al talamo, il secondo ci mostra una corteccia attivata solo dopo aree del tronco encefalico, fra le più lontane per fisiologia e filogenesi dalla presunta sede delle facoltà psichiche tipicamente umane. I due studi sono paradigmatici della misurazione di due parametri molto diversi e di due procedure che si discostano fra loro nel monitoraggio dello stato cosciente: nel primo caso la verifica era fissata ogni 20 secondi, nel secondo ogni 5 minuti. Tali differenze, però, non giustificano un esito a dir poco invertito.

Se gli studi, come i due citati, che valutano la priorità funzionale nella perdita e nel recupero del complesso delle funzioni psichiche associate alla consapevolezza fossero in grado di individuare la “sede della coscienza”, dovrebbero dare risultati molto simili, se non topograficamente identici. Se, invece, ipotizziamo che non facciano altro che rilevare “procedure di spegnimento” e di “accensione” indotte da farmaci, allora la contraddizione svanisce perché, proprio come accade per i nostri computer, i due algoritmi possono essere diversi.

In conclusione, se questi due lavori-prototipo ci testimoniano le difficoltà di uno degli approcci allo studio della coscienza, ossia quello che adopera metodiche neuro-anestesiologiche nell’uomo, allo stesso tempo ci forniscono alcuni dati di aggiornamento che contribuiscono sollecitare una riflessione che rifondi la cornice teorica entro cui organizzare l’interpretazione delle evidenze.

 

Gli autori della nota ringraziano il Presidente della SNN-BM&L-Italia per le integrazioni al testo, e invitano alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Diane Richmond & Giovanni Rossi

BM&L-10 novembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Lionel J. Velly, et al. Anesthesiology 107 (2): 202-212, 2007.

[2] Jaakko W. Långsjö, et al. Journal of Neuroscience 32 (14): 4935-4943, 2012.