Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti
GIUSEPPE PERRELLA
(a cura di Giovanna Rezzoni)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 13 ottobre 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
AGGIORNAMENTO]
Premessa. Venerdì 22
giugno 2012, in occasione dell’incontro dei gruppi di studio strutturali con la
Commissione Scientifica della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia,
il presidente, Giuseppe Perrella, ha tenuto una relazione di presentazione
della nuova edizione dell’ormai celebre manuale diagnostico e statistico
realizzato per conto della maggiore associazione di psichiatri statunitensi.
Giovanna Rezzoni ha registrato la relazione ed ha collaborato con l’autore per
l’editing finale del testo che sarà
proposto in parti pubblicate settimanalmente.
(Settima
ed Ultima Parte)
Prima di avviarmi alla conclusione, voglio
soffermarmi sulla questione, solo accennata in precedenza, della diagnosi di disturbo bipolare in età evolutiva e
dell’introduzione della nuova categoria diagnostica del disruptive mood dysregulation disorder che sembra sia già stata
associata ad un piano di “prevenzione”, il cui fondamento dovrebbe essere bene
specificato, visto che uno dei pochi elementi eziologici certi, se non l’unico
per questa sindrome, sembra essere di natura genetica. Il problema ci riporta
ad una questione irrisolta in psicopatologia, ma apparentemente superata dalle scelte
degli autori del manuale: il disturbo bipolare
esiste in età evolutiva? Nessuna scuola di psichiatria fino al 1980 riconosceva
questa possibilità: anche le scuole europee che, contrariamente alla
maggioranza di quelle americane sostenevano un’eziologia endogena e
verosimilmente genetica, sulla base dell’osservazione clinica indicavano un
esordio in età adulta.
Nel 2007 fu pubblicato uno studio, condotto
da Carmen Moreno e colleghi dell’Università Gregorio Marañón di Madrid, che ha
avuto un’importanza notevole nel documentare quanto stava accadendo nella
psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza per effetto del mutamento dei
criteri diagnostici. Fra il 1994, anno di introduzione del DSM-IV, e il 2003,
si era registrato un incremento di 40 volte del numero di esami psichiatrici di
bambini e ragazzi al di sotto dei 19 anni conclusi con una diagnosi di disturbo bipolare. La proporzione numerica
non può lasciare indifferenti: da 25 a 1003 casi rilevati per 100.000. Ora,
visto che le conoscenze in termini clinici non sono mutate e non vi è stato
nessun progresso della ricerca che abbia portato all’individuazione di un marker del disturbo, in assenza di
fondati motivi per sospettare una crescita epidemica, non vi è altra
possibilità per spiegare un tale dato che imputarlo all’eccessiva ed impropria diagnosi
del disturbo causata dall’applicazione dei criteri del DSM.
Dal 2008 si è andata diffondendo la
preoccupazione, fra i ricercatori più attenti e gli psichiatri in dissenso con
i criteri dell’APA, che alle diagnosi sbagliate seguano trattamenti erronei con
farmaci dannosi e potenzialmente in grado di lasciare una traccia iatrogena su
un cervello in evoluzione.
Come ho appena ricordato, fino al 1980,
quando entrò in uso il DSM-III che introdusse il disturbo bipolare in sostituzione del disturbo maniaco-depressivo, non si prendeva in considerazione l’età
evolutiva come epoca di esordio per questa sindrome. In realtà, il cambiamento
introdotto dal manuale dell’APA, contrariamente a quanto è stato anche
recentemente affermato da Arkowitz e Lilienfeld in un articolo peraltro
apprezzabile, non fu semplicemente terminologico ma radicalmente concettuale.
Nella nosografia psichiatrica classica, l’alternanza maniaco-depressiva
apparteneva ad una psicosi dell’adulto, nettamente distinta da condizioni di
fluttuazione dell’umore descritte nel quadro di disturbi nevrotici o come
caratteristiche fisiologiche della personalità, si pensi ai “ciclotimici” e ai
“cicloidi” di Kahlbaum e Kretschmer. Il disturbo
bipolare del DSM-III elimina la distinzione fra la psicosi, caratterizzata dall’oscillazione fra i gradi estremi dell’eccitazione
e della depressione, con alterazioni della coscienza di sé e del mondo, della
critica e del giudizio, e le altre condizioni di fluttuazione dell’umore che soddisfano
in parte i criteri fenomenici e comportamentali del manuale, differendo
radicalmente da quelli della diagnostica della psicosi maniaco-depressiva per
la durata delle fasi acute e, soprattutto, per le condizioni psichiche
individuali del paziente. In sostanza, per la diagnosi del DSM-III, era
sufficiente un episodio maniacale della durata di una settimana, seguito da un periodo
di depressione maggiore di due settimane. A questi requisiti temporali doveva
far riscontro un’interferenza con le attività sociali o occupazionali, ossia attività
lavorative per l’adulto e scolastiche per bambini e ragazzi.
Ora, come abbiamo visto, il gruppo di studio
dell’Università Gregorio Marañón aveva registrato un incremento di quaranta
volte nel numero di diagnosi di disturbo bipolare in età evolutiva dopo
l’introduzione del DSM-IV nel 1994. Ecco perché: con questa edizione si è
scisso il disturbo bipolare in due sindromi - denominate bipolar I e bipolar II -
la prima delle quali essenzialmente corrisponde alla forma del DSM-III, mentre
la seconda presenta criteri così aspecifici e mal definiti da poter facilmente indurre,
chi la impieghi alla lettera, in errori di inclusione. Si pensi che i criteri A
e B, che indicano rispettivamente la presenza di episodi depressivi e di almeno
un episodio ipomaniacale, prevedono che sia sufficiente la registrazione
anamnestica di questi rilievi: in altri termini, la parte principale della
diagnosi si può fondare sull’interpretazione del racconto dei genitori di un
bambino. E si tenga conto che l’episodio ipomaniacale è così definito: “umore
persistentemente elevato, espansivo o irritabile, che dura ininterrottamente
per almeno quattro giorni”.
Queste brevi osservazioni sono sufficienti
per giustificare i dati pubblicati nel 2008 e per comprendere perché chi vi
parla ritiene, con molti altri medici psichiatri e ricercatori nel campo della
psicopatologia, che sia stata posta diagnosi del secondo tipo di disturbo
bipolare a molti bambini ed adolescenti con oscillazioni non patologiche del
tono dell’umore o affetti da disturbi psichici diversi. Infatti, questa forma,
così come è stata creata dagli autori del DSM-IV, presenta caratteri in comune
con altri disturbi psichici dell’età evolutiva. Ad esempio, con il disturbo da iperattività con deficit
dell’attenzione (nella sua sigla internazionale ADHD, da attention-deficit hyperactivity disorder,
per inciso, mal tradotto nell’edizione italiana del manuale) condivide gli alti
livelli di attività, la loquacità, l’irrequietezza, l’agitazione e la
distraibilità. Con il disturbo della
condotta e il disturbo provocatorio
oppositivo condivide comportamenti distruttivi ripetuti, che possono essere
interpretati come conseguenza dell’iperattività e dell’agitazione. Su questa
base, il rischio di errori diagnostici è molto alto e gli effetti dannosi di
terapie farmacologie inappropriate possono essere gravissimi. Ad esempio, a un
bambino affetto da ADHD che sia considerato bipolare potranno essere prescritti
farmaci quali gli “stabilizzanti dell’umore”, come gli anticonvulsivanti
Depakote (o Depakin) o Lamictal, oppure il litio e/o farmaci antipsicotici
atipici (Abilify, Zyprexa). Nessuno di essi è efficace nel trattamento
dell’ADHD e può causare vari effetti collaterali, che vanno dall’aumento di
peso alla comparsa di movimenti involontari che possono creare circoli viziosi
nella sintomatologia. Ma, soprattutto l’impiego protratto e le dosi elevate per
ottenere gli effetti sperati, possono causare danni cerebrali difficilmente
quantificabili ma indirettamente ben evidenti quando, come nel caso
dell’impiego del litio, danno luogo a convulsioni epilettiche. L’errore
opposto, ossia diagnosticare di ADHD un bambino con un disturbo dell’umore, non
è certo meno grave, se si pensa che la sindrome
da iperattività con deficit dell’attenzione è trattata ordinariamente negli
USA, e da meno tempo anche in Europa, con farmaci quali il Ritalin e l’Adderall
che aggravano la sintomatologia e possono indurre episodi maniacali in pazienti
che non li avevano mai presentati.
Secondo quanto dichiarato da alcuni autori
del DSM-5, proprio per superare questi problemi è stata introdotta la categoria
del disruptive mood dysregulation
disorder. Questo mi rammenta che anche la nuova categoria del disturbo
bipolare II si disse che era stata introdotta per affinare il procedimento di
accertamento e ridurre il numero di persone diagnosticate di disturbo bipolare.
Ma, al di là delle intenzioni dichiarate, rimane il problema, a mio avviso
scandaloso, della mentalità ispiratrice: una diagnosi si aggiunge in nosografia
quando si scopre una nuova malattia o un nuovo disturbo, non si “compone” ad hoc per ottenere un effetto, qualsiasi
sia la motivazione.
A questo punto, mi sia consentito di
ricordare i punti salienti della storia delle osservazioni che hanno preceduto
la definizione nosografica di questo disturbo che, nelle sue espressioni più
evidenti, ha dato luogo ad immagini non controverse che dovrebbero appartenere
ad una memoria antropologica, prima ancora che medica.
Se ci atteniamo alla fenomenica descrittiva
delle manifestazioni più caratteristiche ed evidenti e la consideriamo al pari
di una definizione clinica, possiamo condividere l’affermazione di Zilboorg
che, nella sua Storia della Psichiatria,
sostiene che il disturbo caratterizzato da periodi di eccitazione e depressione
è noto fin dall’antichità e sembra essere cambiato relativamente poco nel
tempo. Infatti, Jelliffe, autore di un eccellente capitolo sulla storia della
psicosi maniaco-depressiva in un volume per la prima volta pubblicato ai tempi
di Freud (1931), scrive che questa malattia mentale è “la sola forma i cui
aspetti principali possano essere inequivocabilmente riconosciuti in tutti i
tempi”. Su questa base alcuni, fra cui Arieti, hanno fatto risalire ad
Ippocrate una prima trattazione del disturbo, ma una lettura attenta di studi
autorevoli di storia della medicina, come quelli condotti da Vincenzo di Benedetto
della Scuola Normale Superiore di Pisa, ci presenta una realtà un po’ diversa.
E’ vero che in “Sulle Malattie I” (30), attribuito al caposcuola di Kos, la maniē viene menzionata in
connessione con la frenite e la melancolia, ma è pur vero che il termine
è genericamente impiegato per esprimere l’essere fuori di sé (mainesthai), disinibirsi, perdere il
controllo, e, nel trattato “Sulle Affezioni Interne” (29), la maniē è considerata una
manifestazione di epatite. Diocle di Caristo, medico ippocratico attivo ad
Atene nel 360 a.C., ritiene che la mania consista in un ribollire del sangue
nel cuore, in grado di influire sul pensiero, e la melancolia (da melaina kholē,
ossia “bile nera”) sia causata da un’addensarsi del fluido biliare intorno al
muscolo cardiaco, con conseguente limitazione delle presunte funzioni psichiche
di quest’organo.
Un vero antecedente delle descrizioni della
psicosi maniaco-depressiva del secolo scorso, lo ritroviamo in Areteo, nato probabilmente
nel I o nel II secolo d.C. in Cappadocia, un regno dell’Asia Minore che faceva
parte dell’Impero Romano. Le sue osservazioni sono così precise e profonde da
poter essere paragonate a quelle sulle quali si basò la prima descrizione
nosografica di Kraepelin, diciassette secoli dopo (Cfr. Zilboorg e Henry,
Storia della Psichiatria, Feltrinelli, Milano 1963). Non solo Areteo descrisse
i sintomi della depressione, con i suoi sensi di colpa e autoaccusa, e
dell’eccitazione, con la tipica iperattività e gaiezza euforica, fornendoci un
repertorio di segni ancora oggi riscontrabili nelle due condizioni, ma stabilì
un nesso fra le due fasi e, in un certo senso, andò oltre la psichiatria
dell’Ottocento perché, dopo aver riconosciuto il carattere intermittente della
patologia, dichiarò di non fidarsi delle remissioni spontanee, purtroppo ancora
oggi scambiate per guarigioni da molti psichiatri.
Per completare questi stringati cenni
storici, ricordo che l’opera di Areteo è stata ignorata fino ai giorni nostri e,
per trovare traccia di quelle che poi saranno chiamate psicosi periodiche maniaco-depressive, si deve attendere l’epoca di
pionieri della psichiatria contemporanea quali Pinel ed Esquirol[1].
Quest’ultimo, nel 1816, scriveva: “Non è raro vedere la mania alternarsi in
maniera regolare con l’etisia, l’ipocondria e la lipemania” (in Ey, Bernard e
Brisset, 1983). In Francia, Falret (1851, 1854) e Baillarger (1854) parlarono
rispettivamente di “follia circolare” e “follia a duplice forma”, ma solo nel
1883 Ritti introdusse nella pratica psichiatrica il concetto di una malattia
unica con alternanza di periodi di eccitazione e malinconia. In Germania, anche
se già da tempo numerosi autori avevano studiato il disturbo con il nome di
“psicosi periodica”, solo nel 1889 il nosografista Kraepelin raccolse nel suo Lehrbuch der Psychiatrie sotto la
definizione di “follia maniaco-depressiva” tutte le entità cliniche denominate
in precedenza intermittenti, circolari, alterne, periodiche o a doppia forma. Il trattato, pubblicato
nel 1899 e divenuto in breve celebre in tutta Europa, solo nella sua ottava
edizione (1913) riportava un’esposizione esaustiva del concetto nosologico.
Nel Novecento, dopo la rivoluzione
psicoanalitica e il rinnovamento portato dalla scuola fenomenologica, comincia
la storia contemporanea della psicosi maniaco-depressiva, che sarà inclusa fra
le psicosi affettive, definite come
disturbi mentali “caratterizzati principalmente dall’aumento o dalla
diminuzione dell’iniziativa e da pensieri che esprimono un tono dell’umore
depresso o al contrario esaltato” (Kolb, 1979). Una definizione centrata, come
tutte quelle formulate in seno alla psicopatologia fino ad oggi, sullo stato
mentale del paziente.
Ora, è lecito chiedersi se le descrizioni
psicopatologiche delle psicosi maniaco-depressive, concepite a partire da
alcuni modelli clinici che teoricamente dovrebbero essere inclusi nella
diagnosi di disturbo bipolare I,
siano realmente riconducibili alla realtà intercettata dai criteri del DSM-IV,
oppure si tratti di entità cliniche diverse nella sostanza ed accomunate da
tratti superficiali e fenomeniche comportamentali, che i membri dell’APA hanno
ritenuto significativi quanto una comunanza eziopatogenetica.
E’ difficile se non impossibile dare una
risposta certa e definitiva allo stato attuale delle conoscenze, tuttavia può
essere utile confrontare un aspetto rilevante: la durata dei periodi di
eccitazione e depressione ritenuti significativi per i due diversi criteri
diagnostici.
Per la diagnosi di disturbo
maniaco-depressivo, nel suo manuale di Clinica Psichiatrica, Kolb valuta la
durata media degli episodi maniacali intorno ai 6 mesi e quella degli episodi
depressivi intorno ai 9. Ey e Burguet condussero nel 1951 uno studio sulle psicosi periodiche, i cui risultati
trovarono conferma nei tre decenni successivi, così che le stime temporali
delle fasi sono riportate nelle edizioni del manuale in uso in Francia e in
Italia negli anni Ottanta: la durata media dell’episodio maniacale nei pazienti
non trattati era di 6 mesi e 26 giorni e si riduceva, solo nei pazienti
trattati con elettroshock, a 3 mesi e un giorno (Cfr. Ey, Bernard e Brisset,
1983). Per inciso, voglio ricordare che una delle difficoltà pratiche che si
incontrano nella ricostruzione anamnestica della durata dell’episodio maniacale
è data talvolta dalla sua insorgenza progressiva su uno sfondo di eccitazione
che può durare da mesi o, in qualche caso, da anni: lievi fluttuazioni
nell’accentuazione dei sintomi possono aversi di frequente e non preludere ad
un aggravamento rapido che irreversibilmente porta verso la crisi, perciò,
quando questo avviene, può non essere riscontrato per tempo e l’inizio
dell’episodio viene fissato sulla base di qualche evento eclatante o che abbia
rotto l’equilibrio di relazione in cui viveva il paziente.
Se confrontiamo queste stime di durata,
caratterizzate da un periodo di eccitazione di sei mesi, con quelle dell’ordine
delle settimane del DSM, in particolare con la possibilità che sette giorni di
eccitazione e due settimane di umore depresso siano sufficienti per la diagnosi
della più grave delle due sindromi bipolari, si è proprio tentati di ritenere
che si tratti di condizioni diverse per patogenesi.
La familiarità di condizioni caratterizzate
dall’alternanza dell’umore è nota fin dagli studi pionieristici e si cita, in
genere, la ricostruzione dell’albero genealogico di Lord Alfred Tennyson;
mentre rimane ipotetica ed aneddotica quella relativa a personaggi celebri per
capacità creative quali William Blake, Lord Byron, Edgar Allan Poe, Vincent van
Gogh, Robert Schumann e Tennessee Williams.
Esistono oggi, accanto agli innumerevoli
gruppi di ricerca isolati, progetti internazionali ed istituzioni pressoché
integralmente dedicate allo studio della genetica di questi disturbi; molti
dati indicano l’associazione dei tratti fenotipici bipolari con numerosi
genotipi, la cui importanza nel determinare le manifestazioni è testimoniata,
ad esempio, dall’alto grado di concordanza fra gemelli monovulari allevati e
vissuti in ambienti differenti. Sui meccanismi molecolari che possono portare,
per vie diverse, alla patogenesi di disturbi accomunati da manifestazioni
bipolari, si sa ancora poco, tuttavia nessuno oggi è più disposto a credere che
le fasi alterne di alterazione psichica e psicofisica - ricordo, di passaggio,
che fra l’eccitazione e la depressione si ha un mutamento di tutta la
fisiologia dell’organismo, dal profilo endocrino-metabolico a quello
immunologico - possano essere indotte con qualsiasi profilo genetico da fattori
ambientali e per effetto di esperienza.
E’ curioso ricordare che proprio negli Stati
Uniti, patria della psichiatria biologica, era diffusa la convinzione che
nell’eziopatogenesi della psicosi
maniaco-depressiva, principale antecedente nosografico del disturbo bipolare,
avessero un ruolo determinante le esperienze post-natali precoci. E, per quanto
possa apparire irriverente per gli indubbi meriti che l’autorevole trattato
diretto da Silvano Arieti ha potuto vantare nella formazione di alcune
generazioni di psichiatri, ricordo che vi si leggeva : “I malati
premaniaco-depressivi sono generalmente allattati al seno e poi bruscamente
privati del latte materno. Le famiglie non usano né poppatoi, né tettarelle, né
succhiotti: vi è un brusco passaggio dal seno alla tazza” (S. Arieti, op. cit.,
vol. II, p. 597).
E’ indubbio che il progresso delle conoscenze
sull’eziopatogenesi ci aiuterà a comprendere meglio anche la clinica di questi
disturbi, ma non mi sembra che la via migliore da percorrere nel frattempo sia
quella di creare artificiosamente, con il nome di disruptive mood dysregulation disorder, una casella nosografica
nella quale far rientrare i bambini che presentano qualche tratto
comportamentale delle sindromi bipolari, ma non soddisfano i criteri minimi per
la diagnosi. La “nuova sindrome” sarà caratterizzata dalla presenza di
esplosioni di collera, irritabilità cronica ed umore triste o facile all’ira.
Mi sono soffermato un po’ di più su questo
caso nosografico perché, a differenza di quanto accade per altre aree della
psichiatria, quali quelle delle dipendenze, delle parafilie e degli altri
disturbi della sfera sessuale, da sempre incerte e controverse nella natura e
nei confini, per il disturbo bipolare esistono da oltre un secolo punti fermi
legati ad una costante esperienza clinica. Per tale ragione, la creazione in
questo ambito di una nuova diagnosi non fondata su nuove acquisizioni, mi è
parsa come l’ennesimo atto di arroganza di chi ritiene di poter esercitare
impunemente, come un diritto, un abuso di potere.
Se il DSM era stato inizialmente concepito
anche per evitare diagnosi “creative”, ovvero impedire che singoli
professionisti o scuole di prestigio facessero assurgere l’emblematica
significatività di una propria esperienza a prototipo di una categoria
inesistente, non si può non rilevare che, anche in quest’ultima edizione come
nelle passate, ha fallito l’obiettivo, perché sono gli stessi autori del
manuale a cadere in questo errore.
A modo di
una conclusione. Termina qui questo
rapido “viaggio nel DSM-5” di un viaggiatore disincantato e reso tanto severo e
scettico dalla persistenza dei vecchi limiti e dalla presenza di nuovi errori,
deleteri per i pazienti e per la pratica diagnostica, da non aver apprezzato e
sottolineato adeguatamente gli interessanti cambiamenti che renderanno il
lavoro diagnostico più preciso e rigoroso, e faranno si che i giovani
psichiatri di buona formazione medico-scientifica, che iniziano la pratica
clinica in questi anni, possano limitarsi a nutrire, per il DSM-5, una sana e
distaccata diffidenza e non la sofferta avversione che i membri della
generazione precedente, quando adeguatamente preparati, pativano per le
precedenti edizioni del manuale.
[1] Per completezza di esposizione si può ricordare che Cameron in un capitolo sulle psicosi funzionali (in Hunt J. McV., Personality and Behavior Disorders, vol. 2, Ronald, New York 1944) elencava tre antecedenti nella descrizione di una malattia mentale con alternanza di mania e depressione: Bonet (1684), Schacht (1747) e Herschel (1768). Non si trova tuttavia menzione in altri autori di questi riferimenti e non mi è stato possibile reperire le fonti per verificare l’esattezza di questa attribuzione.