Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

(a cura di Giovanna Rezzoni)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 29 settembre 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

Premessa. Venerdì 22 giugno 2012, in occasione dell’incontro dei gruppi di studio strutturali con la Commissione Scientifica della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, il presidente, Giuseppe Perrella, ha tenuto una relazione di presentazione della nuova edizione dell’ormai celebre manuale diagnostico e statistico realizzato per conto della maggiore associazione di psichiatri statunitensi. Giovanna Rezzoni ha registrato la relazione ed ha collaborato con l’autore per l’editing finale del testo che sarà proposto in parti pubblicate settimanalmente.

 

(Quinta Parte)

 

La critica all’introduzione di queste categorie, fondate sulla caratterizzazione comportamentale di una condotta facilmente riconoscibile, stabile e spesso gravemente condizionante la vita di chi ne sia affetto, non riguarda solo e tanto l’opportunità di conferire dignità di disturbo indipendente a ciascuna di esse, ma è più radicale e sostanziale, perché attiene al fondamento stesso dei criteri di diagnosi in psichiatria.

C’è da chiedersi, infatti, se la descrizione per il riconoscimento di una tipologia comportamentale costituisca una “diagnosi” o semplicemente una categoria di una tassonomia simile a quelle tipiche delle scienze naturali: i mammiferi hanno un corpo ricoperto di peli, partoriscono ed allattano i propri piccoli, e così via, mentre gli uccelli hanno il corpo ricoperto di piume, depongono le uova, eccetera. Il fine di queste classificazioni è la distinzione tipologica, mentre lo scopo della diagnosi è l’esercizio degli atti della professione medica che da questa dipendono, e che includono le scelte terapeutiche, la valutazione prognostica, l’assunzione di misure per la profilassi delle conseguenze e dell’aggravamento, e così via; ossia un insieme di procedure volte a determinare la guarigione del paziente o, quando questo non sia possibile, un miglioramento del suo quadro clinico e delle sue condizioni di vita.

La diagnosi in psichiatria, pur nel suo lungo e difficile percorso verso una meta di procedura scientifica, tende, come quella in medicina e chirurgia, a realizzare un’applicazione delle conoscenze scientifiche relative alla patologia; pertanto, definire categorie diagnostiche in base all’apparenza superficiale dei caratteri di una condotta, vuol dire andare in direzione opposta.

Mi si perdoni, allora, se ritorno sul concetto di diagnosi in medicina e, per traslato, in psichiatria: diagnosticare vuol dire impiegare procedure scientifiche per passare attraverso manifestazioni esteriori ritenute significative (segni e sintomi) sulla base di scienza ed esperienza pregresse, e giungere a determinare i processi e gli elementi causali alla base dello stato di alterazione presente in un determinato paziente. Tutto ciò, come abbiamo visto, allo scopo di ristabilirne la condizione di salute e, più specificamente in psichiatria, di equilibrio psico-fisico. La diagnosi è, in questo senso, un’operazione che consente l’applicazione al singolo caso della conoscenza scientifica acquisita nel settore della patologia molecolare, cellulare e dei sistemi, relativa a quel disturbo.

Se rileviamo deliri ed allucinazioni in un paziente disorientato nel tempo e nello spazio, che ha subito da poco un intervento chirurgico di asportazione di un tratto significativo di intestino, sulla base di una consolidata conoscenza patogenetica, ci orienteremo per uno squilibrio idroelettrolitico che ha influito sulla perfusione cerebrale causando i sintomi; se le due manifestazioni insorgono, invece, in un quadro persistente di eloquio, pensiero e comportamento alogici e disorganizzati, con anaffettività, abulia, strane posture e movimenti stereotipati, ci si orienta per una possibile psicosi schizofrenica; se, infine, all’anamnesi di una persona priva di qualsiasi altra manifestazione significativa risulta l’assunzione di sostanze cosiddette psicosomimetiche, quali LSD, mescalina, psilocibina o prodotti di sintesi, i due sintomi possono costituire un effetto temporaneo della sostanza. Questi esempi un po’ elementari, si riferiscono ad una procedura razionale basata su risultati della ricerca scientifica che ha riconosciuto nella fisiopatologia derivante da un intervento chirurgico, nel fenotipo cerebrale di varie predisposizioni genetiche e nell’effetto tossico di sostanze psicotrope sul cervello, processi in grado di causare lo sviluppo dei due sintomi in questione.

Negli esempi citati, gli stessi due sintomi fanno parte di quadri clinici diversi, generati da processi patologici diversi, come spesso accade. E’ proprio la patogenesi, desunta dallo studio clinico, a permettere di attribuire ai deliri e alle allucinazioni di questi pazienti un significato differente, e a consentire di diagnosticare ciascuno dei tre disturbi secondo la sua definizione nosografica. Alla categoria diagnostica si giunge attraverso una ricostruzione della patologia sottostante la fenomenica obiettivamente rilevata e soggettivamente esperita, che costituisce l’emergenza clinica.

Questo modo di procedere clinico che in medicina corrisponde, ad esempio, alla distinzione fra un ittero emolitico ed un ittero ostruttivo, fra retinopatia ipertensiva e retinopatia diabetica, asma respiratorio ed asma cardiaco, dovrebbe costituire un riferimento per le diagnosi psichiatriche, ma anche per la definizione delle nuove categorie psicopatologiche. Oggi, infatti, in medicina e chirurgia si tende a creare nuove tipologie nosografiche solo quando vi sia la prova o il fondato sospetto di trovarsi di fronte ad una entità che per eziopatogenesi, o almeno per fisiopatologia, presenti una sua individualità che merita di essere distinta, o per una ragione scientifica (es.: sindromi simili causate da geni diversi con diversa ereditarietà) o per una utilità clinica (es.: una forma che, rispetto ad altre con le stesse cause, evolva con un decorso sui generis e una prognosi diversa).

Ritornando alle citate quattro sindromi aggiunte nel DSM-5 e, in particolare, al Disturbo da Gioco d’Azzardo, si può facilmente rilevare che il criterio seguito va in direzione opposta a quella della sempre maggiore scientificità della diagnosi in medicina. Come abbiamo visto, l’elemento fisiopatologico caratteristico, ossia l’attivazione dei circuiti della VTA, è comune alle altre forme di dipendenza e, d’altra parte, la creazione di una specifica categoria non ha giustificazione nemmeno in una modalità di cura diversa. Le strategie di trattamento sono identiche e si basano sempre sull’allontanamento dalla fonte della dipendenza, magari in circostanze costantemente condizionanti, come la vita in una comunità terapeutica o la condivisione delle regole in un gruppo di trattamento. Infatti, la maggior parte dei casi di dipendenza da sesso, alcool, droghe e azzardo, trattati con successo, ha tratto giovamento da un regime terapeutico che ha impegnato le risorse psicofisiche del paziente in condizioni di vita ordinarie e in grado di ristabilire l’efficacia dei sistemi di rinforzo fisiologici, come la gratificazione derivante dalla consapevolezza del lavoro compiuto e dall’apprezzamento altrui.

Se credo che molti non avranno dubbi a classificare fra i “nuovi errori” del DSM-5 queste nuove categorie, personalmente sono tentato di considerarle fra i “vecchi limiti”. Infatti, il problema del senso delle categorie diagnostiche del DSM rispetto alla concezione medica della diagnosi non è nuovo. Nel 1980 il DSM III includeva nella sua classificazione il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD, da Post Traumatic Stress Disorder) in due forme, acuta e cronica, ma questo risultato, dopo anni di interminabili dibattiti e contese, ad alcuni membri del board dell’APA parve un miraggio, perché le sindromi proposte e strenuamente difese erano oltre una decina.

In realtà, le scoperte sulla fisiopatologia dello stress grave hanno riportato le manifestazioni del PTSD ad un paio di meccanismi, quali l’attivazione da parte dei neuroni dell’amigdala dell’asse CRH-ACTH-cortisolo e l’innesco di un cortocircuito che porta il locus coeruleus a riattivare continuamente i meccanismi di stress-paura, come se fosse costantemente presente e rinnovata una minaccia per l’integrità dell’organismo.

Eppure, molti membri dell’APA sostenevano l’opportunità di creare tante diverse sindromi per quante esperienze umane fosse possibile caratterizzare in quell’ambito. Così alcuni proposero una “Vietnam Syndrome”, altri una “Post-Rape Syndrome”, altri ancora vari disturbi indicati dall’eponimo di luoghi in cui si erano verificate calamità naturali, guerre, disastri aerei o ferroviari.

Fra i sostenitori di questo splitting (per inciso, ricordo che gli psichiatri nosografisti negli USA sono convenzionalmente e gergalmente distinti in splitters, termine col quale si indicano i sostenitori di una eccessiva divisione in sotto-categorie diagnostiche, e lumpers, termine col quale si indicano coloro che tendono ad accorpare in pochi quadri tutti i disturbi) vi fu chi giunse a sostenere la fondatezza di categorie distinte per i disastri aerei, ferroviari, da terremoto o da guerra, invocando, a sproposito, una presunta tesi del grande nosografista Kraepelin. In realtà, nella sua monumentale opera del 1896, lo psichiatra tedesco aveva introdotto la Schreckneurose o Nevrosi da Spavento descrivendola come una condizione “composta da molti fenomeni nervosi e psichici insorgenti come risultato di un grave sconvolgimento emozionale o di un improvviso spavento che abbia accumulato grande ansietà; può perciò essere osservata dopo gravi incidenti e danni, particolarmente incendi, deragliamenti e collisioni ferroviarie.” (Kraepelin, Psychiatrie, 1896/1985, p. 737).

Un ruolo decisivo, nell’opposizione allo splitting del PTSD, lo ebbe Nancy Andreasen che, con un gruppo di altri psichiatri, ingaggiò una vera e propria battaglia per non rischiare, con un’eccessiva frammentazione psicologistica, di perdere l’unità fisiopatologica del danno, riducendo le tante categorie a piccole sindromi in grado soltanto di mettere in relazione il vissuto soggettivo con particolari potenzialità traumatiche convenzionalmente riconosciute ad un particolare evento.

Nel caso dei quattro nuovi disturbi menzionati, nel board del DSM-5, evidentemente, hanno prevalso gli splitters.

 

[continua]

 

Giuseppe Perrella

(a cura di Giovanna Rezzoni)

BM&L-29 settembre 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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