Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti
GIUSEPPE PERRELLA
(a cura di Giovanna Rezzoni)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 30 giugno 2012.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti
di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]
Premessa. Venerdì 22
giugno 2012, in occasione dell’incontro dei gruppi di studio strutturali con la
Commissione Scientifica della Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, il presidente, Giuseppe Perrella, ha tenuto una relazione di
presentazione della nuova edizione dell’ormai celebre manuale diagnostico e
statistico realizzato per conto della maggiore associazione di psichiatri
statunitensi. Giovanna Rezzoni ha registrato la relazione ed ha collaborato con
l’autore per l’editing finale del
testo che sarà proposto in parti pubblicate settimanalmente.
(Prima
Parte)
Introduzione. Quando mi è stato chiesto di proporre in
anteprima una guida per una lettura critica della quinta edizione del Manuale
Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM-5), la cui
pubblicazione è prevista per il maggio del 2013, sono stato tentato di prendere
le mosse da un’analisi dettagliata delle concezioni e della metodologia che
hanno ispirato i criteri di diagnosi e le scelte semeiotiche e nosografiche
dalla terza edizione ad oggi. Ossia da quando il DSM, da semplice strumento di
normalizzazione ed unificazione della terminologia psichiatrica a scopo
statistico, è divenuto un’opera di clinica psichiatrica, propagandata con il
generoso appellativo di “bibbia della psichiatria”, ma in realtà espressione
della cultura psicopatologica di una delle più potenti associazioni nazionali
di psichiatri, che tende ad imporre in tutto il mondo i propri criteri di
classificazione e diagnosi.
Ma ho subito accantonato l’idea, rendendomi
conto che una tale analisi avrebbe richiesto il tempo e lo spazio di un
ponderoso saggio, completo di riferimenti ai numerosissimi scritti critici
sull’argomento pubblicati nell’arco di una trentina d’anni, così spostando
fatalmente il centro dell’attenzione dai nuovi contenuti del manuale e
dall’anticipazione di temi e problemi che verosimilmente saranno di attualità
dal prossimo anno, ad una questione non sempre al centro del dibattito ma
costantemente presente agli psichiatri negli ultimi decenni.
Mi riferisco al lungo e delicato periodo di
transizione culturale che si sta attraversando nel campo delle discipline psicopatologiche,
rimaste orfane delle grandi teorie che collocavano i dati di osservazione
psichiatrica in cornici di pensiero umanistico, psicoantropologico o
filosofico, e non ancora in grado di organizzare in forme coerenti la grande
quantità di dati ed acquisizioni concettuali emergenti dalle neuroscienze
biologiche e dallo studio mediante neuroimmagini dell’encefalo umano in
funzione. Infatti, se i nuovi studi da un canto hanno contribuito a modificare
la visione tradizionale delle basi neurali della mente, evidenziando la
fragilità e l’inconsistenza di congetture ed ipotesi assurte al rango di teorie
a fondamento della cultura psichiatrica accademica, dall’altro non erano latori
di strumenti intrinsecamente efficaci per la costruzione di una nuova scienza
psicopatologica.
D’altra parte si può affermare che, molto
tempo prima dei progressi neuroscientifici degli ultimi vent’anni, aveva avuto
inizio una crisi delle fondamenta teoriche su cui le grandi scuole avevano
costruito i principali paradigmi interpretativi della natura dei processi
psichici umani normali e patologici, con la semeiotica e la diagnostica che ne
era derivata, e che tale crisi aveva reso incerto e problematico l’agire dei
clinici.
Fra i numerosi dilemmi della pratica
quotidiana vi era la mancanza di nuovi riferimenti e strumenti di semeiotica
psichiatrica che sostituissero quelli adoperati fino a quel momento, non avendo
più giustificazioni per impiegare il presunto rapporto coerente fra tipo di
personalità e quadro clinico, il concetto di reazioni minori (nevrosi) e
reazioni maggiori (psicosi), la patogenesi psicodinamica delle sindromi
nevrotiche, l’ipotesi dell’inconscio patogeno, il valore simbolico dei sintomi,
il concetto di regressione teleologica alla base dell’involuzione cognitivo-emotiva
dello psicotico, l’analisi fenomenologica per la comprensione della
sintomatologia dei pazienti meno consapevoli e comunicativi, e così via.
Ebbene il DSM, dalla terza edizione in poi,
che si proponeva come una soluzione radicale per il clinico, quale il mitico
taglio del nodo gordiano, lungi dall’aver svolto questo ruolo - se non per chi
si fosse rassegnato a regredire ad una pratica rozza ed acefala di meccanica
attribuzione di codici corrispondenti a schemi terapeutici - per molti versi è divenuto parte dei
problemi. Al riguardo, si possono fare almeno due esempi su cui vi è unanime
consenso: 1) l’abolizione di diagnosi corrispondenti a precise realtà che
continuano a giungere all’osservazione clinica; 2) la creazione di categorie
diagnostiche fasulle, prive di fondamento scientifico, verosimilmente per
effetto di pressioni esercitate da lobbies
sostenitrici di interessi diversi da quelli strettamente legati alla tutela
della salute mentale.
Ho affermato, intendendo promettere, di non
voler fare un’analisi critica dei criteri ispiratori del manuale e,
indirettamente, dell’influenza che ha esercitato sulla psichiatria in questi
ultimi trent’anni, per non allontanarmi troppo dall’oggetto primario del nostro
interesse costituito dalle novità, peraltro notevoli, della quinta edizione. E
intendo tener fede all’impegno; tuttavia vorrei, soprattutto a beneficio della
parte più giovane dell’uditorio, richiamare brevemente uno storico difetto
della pratica psichiatrica degli Stati Uniti d’America che, differenziandola da
quella prevalente in Europa, può ritenersi all’origine della mutazione del DSM
nella forma, assunta dal 1980 in poi, di “codice dei criteri e dei principi
diagnostici in psichiatria”.
A differenza delle altre specialità mediche,
in cui lo standard medio di preparazione dei clinici statunitensi era
tradizionalmente molto alto, nell’ambito della psichiatria, verso la metà del
secolo appena trascorso e fino agli anni Settanta, la pratica clinica era
condotta con imperizia e negligenza nella maggior parte dei servizi di diagnosi
e cura presenti sul territorio nazionale. Sono stati addotti tanti motivi
plausibili, fra i quali la mancanza di grandi scuole di psichiatria americane e
la difficoltà di attecchimento di quelle importate dall’Europa, per differenze
culturali e di mentalità attribuite anche ai percorsi formativi scolastici ed
universitari. Personalmente ritengo che la spiegazione non sia così semplice e
richieda un approfondimento che esulerebbe dai limiti di questa esposizione,
tuttavia mi piace ricordare il contrasto fra la pratica clinica carente e la
tradizione di alto livello internazionale della manualistica: si pensi all’American Handbook of Psychiatry, diretto
dal pisano Silvano Arieti (editor-in-chief),
sul quale si sono formate tre generazioni di psichiatri in tutto il mondo, o al
manuale di Noyes e Kolb adottato in vari paesi europei. Silvano Arieti aveva
portato la psichiatria americana ai vertici mondiali, vincendo il premio Frieda
Fromm-Reichmann per i suoi studi sulla schizofrenia; eppure molti psichiatri
statunitensi non tenevano minimamente conto dei criteri diagnostici da lui così
bene delineati ed illustrati per riconoscere questa gravissima forma di
alterazione della vita psichica.
Qualcuno
volò sul nido del cuculo[1]. Nel febbraio del 1969 si presentò
all’accettazione di un ospedale psichiatrico della Pennsylvania un signore che
dichiarava di sentire voci sconosciute nella propria testa ripetere le parole
“vuoto”, “tonfo” e “cavo”. L’insolito paziente volontario, che non riferiva o
presentava alcuna altra anomalia del pensiero e del comportamento, era David
Rosenhan, un professore di psicologia dello Swarthmore College, che aveva lo
scopo di mettere alla prova la capacità diagnostica degli psichiatri del suo
paese. Rosenhan voleva verificare quanto tempo avessero impiegato i clinici ad
accorgersi della sua sanità mentale, proponendo un sintomo isolato che, pur se
avesse ingannato i medici, non avrebbe dovuto portare a diagnosi tanto diverse
da quelle di una gamma compresa fra “episodi di allucinazioni uditive” e
“illusioni acustiche riferite”. Dal 1969 al 1972, collaboratori e allievi del
professore dello Swarthmore College, ripeterono l’esperimento in 11 diversi
ospedali sul territorio degli Stati Uniti d’America.
Dopo la presa in carico da parte dei medici
della Pennsylvania, il professore dichiarò che il sintomo era del tutto
scomparso, e così fecero anche gli altri finti pazienti.
Rosenhan fu ricoverato con una diagnosi di
schizofrenia, e una simile sorte toccò anche ai suoi collaboratori, tutti
ritenuti psicotici e trattenuti in ricovero coatto dagli 8 ai 52 giorni, con
diagnosi che andavano dalla “psicosi schizofrenica” a quella
“maniaco-depressiva” (disturbo bipolare),
nonostante protestassero la scomparsa dell’unico sintomo soggettivo riferito e
non presentassero alcun segno oggettivo di psicosi. Agli otto simulatori furono
somministrati farmaci antipsicotici a dosaggi elevati, per un totale di oltre 2100
fra compresse e capsule, regolarmente trattenute in bocca e poi sputate di
nascosto, o furtivamente riposte in tasca e poi gettate via.
Nel 1973, questo straordinario esperimento fu
proposto alla comunità scientifica internazionale in una pubblicazione su Science, la maggiore rivista
scientifica statunitense, con un titolo che brutalmente introduceva il grave
problema di una pessima pratica psichiatrica: “Sull’essere sani in luoghi
insani” o, potremmo dire, “sull’essere sani in luoghi folli” (On Being Sane in Insane Places).
L’esperienza, comunicata a tutto il mondo
scientifico, fu considerata un pesante atto di accusa nei confronti della
psichiatria degli USA e, indirettamente, del suo organismo più rappresentativo,
l’APA, che reagì incaricando una commissione, promossa al suo interno, di
definire per ciascun disturbo psichico un criterio diagnostico preciso e
sicuro, cui si sarebbero dovuti obbligatoriamente attenere tutti i medici
impegnati nel riconoscimento a scopo terapeutico delle sindromi psicopatologiche.
Così nasce la terza edizione del DSM, che per la prima volta ha lo scopo di
guidare il processo diagnostico, fissando criteri ineludibili e, talvolta,
necessari e sufficienti per attribuire a un paziente l’appartenenza ad una
categoria nosografica. La commissione dell’APA, per fornire uno strumento
pragmatico ed efficace che sicuramente sarebbe stato impiegato quotidianamente
dai suoi iscritti, cercò di uscire dalle nebbie di concetti di semeiotica
psichiatrica originati in seno ad elaborazioni teoriche sofisticate, che non
costituivano oggetto di insegnamento nel corso del tirocinio eminentemente
pratico che formava lo psichiatra americano medio dell’epoca. Eliminati la
maggior parte dei termini e dei concetti di origine psicoanalitica, così come
le poche definizioni fenomenologiche entrate in uso nella psicopatologia
europea, delineò dei criteri principali e secondari, sul modello della
diagnostica internistica e chirurgica, talvolta rappresentando una schematica
precisione non corrispondente alla realtà e di fatto possibile in medicina
quando i segni rilevati a scopo diagnostico sono espressione certa di un
processo patologico identificato nella sua natura biologica.
[continua]
[1] Si fa riferimento al titolo di un film interpretato da Jack Nicolson che, negli anni Settanta, denunciò con notevole efficacia le condizioni in cui versavano i pazienti degli ospedali psichiatrici degli USA per effetto di una cattiva pratica clinica.