La religiosità ha origine genetica e mentale?

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 09 giugno 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

La tendenza della maggior parte degli esseri umani a manifestare sentimenti religiosi o a seguire le pratiche di un credo, almeno per una parte della propria vita, non può essere riportata ad un unico stato psichico corrispondente ad una ipotetica funzione cerebrale specifica o all’esistenza di un ipotetico “God spot” nel nostro cervello, ma si presta ad essere indagata in chiave psicologica e scientifica più della spiritualità propriamente intesa. La comprensione delle ragioni cerebrali e mentali della religiosità umana si è rivelato un obiettivo con maggiori possibilità di successo di un’impresa quale la ricerca delle basi neurobiologiche della fede e del concetto di Dio.

Abbiamo studiato, in un recente passato, l’interessante tentativo di penetrare nell’intimità dei processi psichici individuali legati ad un credo, attraverso l’esame dell’attività cerebrale di suore carmelitane immerse in esperienze mistiche e di buddisti durante la meditazione, e ne abbiamo apprezzato i risultati e riconosciuto i limiti (si veda La ricerca dello spirito nel cervello nella sezione “In Corso”). Ci siamo poi interessati a studi meno ambiziosi negli obiettivi, in quanto rivolti ad indagare le basi di atteggiamenti e comportamenti corrispondenti o meno ai precetti morali delle religioni più note.

Ora, grazie all’impegno attivo di un gruppo di studio della nostra società scientifica, disponiamo di un abbondante materiale sulla propensione religiosa, tratto da singoli studi sperimentali e da decine di rassegne comparse su numerose riviste scientifiche, incluso quell’utilissimo strumento di comunicazione scientifica specificamente dedicato a questo campo che è il Journal for the Scientific Study of Religion.

Lo scorso venerdì 8 giugno 2012, in occasione dell’incontro settimanale dei Gruppi Strutturali con i supervisori della Commissione Scientifica della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, si è tenuto un approfondimento con relazioni e discussioni, presieduto da chi scrive, sulle basi psicologiche e genetiche dei sentimenti religiosi, al quale hanno preso parte numerosi soci, fra i quali i professori Monica Lanfredini, Giuseppe Perrella, Nicole Cardon, Diane Richmond, Amintore Panicale, Mario Chiarini e Riccardo Bonfiglio, e i dottori Simonetta F. Beltrandi, Giovanna Rezzoni, Roberto Colonna, Lorenzo L. Borgia, Ludovica R. Poggi, Filippo Rucellai, Flavio Berti, Antonio Vivarini, Simone Werner e Andrea Baldini.

Qui di seguito riportiamo alcuni stralci della discussione del Presidente Perrella che riassume alcuni degli aspetti principali degli studi recenti.

“Sembra trascorso un tempo di dimensione epocale, da quando eravamo costretti a presentare e discutere le tesi degli studiosi che postulavano l’esistenza di un “God module” nel cervello, o quelle dei ricercatori che volevano a tutti i costi leggere come espressione di patologia qualsiasi sentimento religioso intenso ed ogni tipo di esperienza mistica, seguendo, più o meno consapevolmente, un pregiudizio neopositivista. Mi ritorna in mente, poi, che nel 2004 fu pubblicato un libro intitolato The God Gene, in cui si attribuiva al gene VMAT2 la virtù di essere la fonte specifica di sentimenti spirituali e inclinazioni religiose. Ricorderete che vi feci notare che i dati citati a supporto di questa tesi non erano mai stati sottoposti a verifica da parte di referees di riviste scientifiche e che nessun ricercatore indipendente era mai riuscito a replicare i risultati che avrebbero dimostrato la straordinaria proprietà di quel singolo gene.

Il rapporto fra geni e comportamento sappiamo che è estremamente complesso, in quanto implica la distanza biologica di vari livelli di organizzazione funzionale e, quando non siano in questione meri automatismi motori ma proprietà psichiche, esiste sempre una varietà di geni, strutture molecolari, cellulari e sistemiche che prende parte alla costituzione di un fenotipo funzionale, che può essere influenzato dall’ambiente - inteso sia in senso lato, sia nei termini dell’esperienza affettiva e culturale - in ogni momento. E’ banale e perfino superfluo per noi ribadire questi concetti, tuttavia dobbiamo tener conto del fatto che esiste una parte della comunità neuroscientifica la quale, con il ragionevole alibi di cercare “l’elemento determinante o decisivo” in un insieme di fattori, opera di fatto come se ritenesse un singolo elemento biologico di base in grado causare un modo di essere umano, relegando ogni altro aspetto psichico al rango di epifenomeno di scarso rilievo, o a quello di accessorio in grado di “distrarre e sviare” coloro che non abbiano una rigorosa fede riduzionista. Per fortuna, solo una parte dei ricercatori la pensa così.

Fra coloro che hanno un punto di vista sicuramente diverso, vi sono quelli che impiegano una prospettiva psicologica, ossia considerano come punto di riferimento dei propri studi il livello concettuale dell’organizzazione della psiche umana. Anche in questo caso, però, esiste il rischio di attribuire ad un elemento, ad esempio un tratto psicologico associato ad un comportamento, un ruolo causale che magari non possiede o, tutt’al più, condivide con altri elementi. Avvertiti dunque di questi rischi, e lontani dall’errore di una facile reductio ad unum in assenza di prove certe, consideriamo gli interessanti risultati di alcuni lavori recenti.

Un modo per rendere meno aleatorio lo studio delle basi biologiche di tratti psichici umani, consiste nel porre in rapporto un genotipo o un fenotipo molecolare, cellulare o anche morfo-funzionale macroscopico, con tratti di personalità. D’altra parte, anche per la definizione “tratti di personalità” i problemi sono notevoli e, lasciando da parte tutte le controversie circa l’origine storica di questa impostazione e la fondatezza delle teorie psicologiche sulle quali si sono basate le descrizioni delle tipologie di personalità e le classificazioni derivate, assumiamo i criteri “operativi” adottati negli studi sul sentimento religioso, rimandando dubbi e critiche alla sede del dibattito.

I tratti ritenuti salienti in questi studi furono definiti nel 1981 da Lewis Goldberg, uno psicologo dell’Università dell’Oregon, e consistono in cinque aspetti, appartenenti in realtà in parte al carattere della persona, ossia la componente della personalità espressa nella relazione, e in parte alla personalità propriamente detta. I cinque tratti o Big Five, la cui importanza e canonicità attuale nella psicologia della personalità si deve soprattutto agli studi condotti a partire dal 1987 da McCrae e Costa dell’NIH, sono così definiti: extroversion, neuroticism, agreeableness, conscentiousness e openness, che possiamo tradurre con estroversione, nevrotismo, simpatia/empatia, coscienziosità e apertura mentale.

Di passaggio, noto che nelle traduzioni italiane agreeableness viene reso, un po’ superficialmente, con il significato lessicografico di senso comune e non di gergo psicologico, ossia con piacevolezza o gradevolezza; ma si può essere gradevoli e piacevoli anche per bellezza fisica e modi cortesi, pur non mostrando socievolezza e propensione ad entrare in rapporto con l’altro, ossia tendendo a condividere l’umore o lo stato d’animo.

Gli psicologi che hanno introdotto il termine volevano proprio riferirsi a quella simpatia, intesa quasi in senso etimologico, che nasce da una condivisione affettiva, sia pur generica e parziale. Nella versione italiana del “Big Five Questionnaire” per tradurre agreeableness è stato impiegato il neologismo “amicalità”. Nell’uso specialistico corrente, il termine si riferisce alla tendenza ad essere confidenti ed empatici, contrapposta al tratto che rivela un atteggiamento di distanza individualistica talora espressa in forma di estraneità o arroganza.

Per neuroticism, traslato ad orecchio in italiano con “neuroticismo” ma corrispondente al termine nevrotismo della costante e corretta traduzione della semeiotica psichiatrica classica, si intende uno stato di squilibrio espresso da ansia, sintomi depressivi e vulnerabilità emotiva, contrapposto ad una condizione di stabilità dell’equilibrio emozionale associata ad affettività positiva.

Per conscentiousness o coscienziosità si intende la tendenza responsabile all’esecuzione rigorosa del proprio dovere e al rispetto degli impegni assunti con altri in forma sollecita, accurata e compiuta, per il fine cui si tende. La si contrappone alla tendenza ad essere impulsivi, disorganizzati, poco attenti al valore della responsabilità e dell’impegno nella parola data o, semplicemente, alla propensione alla superficialità, all’approssimazione e alla indulgente assuefazione alle proprie parziali o totali inadempienze.

Infine, per openness, o apertura mentale, si intende la buona disposizione verso idee nuove, impegnative e complesse che non siano artificiose o infondate, verso l’esame razionale e critico del proprio operato, verso la possibilità di vivere esperienze ed intraprendere attività che esulino da quelle consuete. Chi difetta in questo tratto tende a mostrare un pregiudizio negativo nei confronti delle novità, a non mettere in discussione abitudini consolidate anche se rivelatesi poco convenienti, opportune o efficaci rispetto ai fini per i quali sono state assunte; inoltre, tende a proteggere il conservatorismo come valore, con razionalizzazioni che possono giustificare ai propri occhi anche comportamenti rigidi e retrivi.   

Il rapporto fra questi tratti ed il credo religioso è stato indagato in una rassegna del 2010 che esamina approfonditamente 70 studi cui hanno preso parte più di 21.000 persone. Questi lavori coprono un arco di alcune decadi, includendo varie fasce di età e varie religioni, anche se con una prevalenza di persone aderenti a confessioni del credo cristiano.

Complessivamente, questi studi hanno messo in evidenza che le persone religiose differiscono da quelle non religiose o con un basso impegno spirituale, prevalendo in due dimensioni della personalità: la simpatia/empatia e la coscienziosità. In realtà, se si opera una meta-analisi quantitativa, sia pure approssimativa per la natura diversa delle prove implicate nei singoli studi, la differenza non è poi tanto grande, essendo infatti dell’ordine di 60 a 40 […].

Riassumendo e schematizzando al massimo i risultati riportati nella rassegna del 2010, in base ai cinque tratti di personalità che abbiamo discusso, è risultato che le persone con propensione ad entrare in empatia e ad essere coscienziose, tendono ad essere religiose; la loro inclinazione, poi, verso il fondamentalismo o verso un credo più spirituale, sembra dipendere in genere dal loro grado di apertura mentale. La combinazione dei tratti che definisce persone allo stesso tempo ribelli e creative, corrisponde a un profilo connesso con una minore probabilità di essere religiosi.

Un problema rilevante è cercare di stabilire quanto certe potenzialità psicologiche siano in rapporto con un credo praticato e si traducano in atti reali nella vita quotidiana. A questo scopo, Vassilis Saroglou ed Isabelle Pichon dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, nel 2005 condussero uno studio in cui chiesero ai partecipanti come si sarebbero comportati in varie situazioni in cui bisognava scegliere se prestare o meno aiuto a qualcuno.

In uno degli esperimenti, i ricercatori proposero la simulazione di una circostanza di vita reale, come in una finzione cinematografica: ciascun partecipante, immedesimandosi nel ruolo di una persona che sta andando a prendere un treno prossimo alla partenza, vedeva che ad un altro viaggiatore, nell’affrettarsi, gli si apriva la valigia con la conseguente caduta di buona parte del contenuto. Il volontario doveva scegliere se fermarsi ad aiutare, pur avendo fretta, o tirare diritto con la buona scusa di non voler perdere il treno. L’esperimento prevedeva due versioni: nella prima, la persona che aveva bisogno di aiuto era un amico, un collega o addirittura un familiare del volontario sottoposto alla prova; nella seconda, era una persona sconosciuta.

Il risultato fu in parte inaspettato: più era elevato il grado di religiosità della persona sottoposta al test, maggiore era la sua volontà di aiutare l’amico, il parente, il collega, ma non l’estraneo, anche a dispetto della dottrina cristiana, che non ammette distinzioni nella pratica della carità. Le persone con una spiritualità profonda, ma poco espressa nelle pratiche religiose, definite dagli autori dello studio “soggetti spirituali”, invece, risultarono ugualmente ben disposte ad aiutare conosciuti e sconosciuti.

Nella discussione di questo risultato, in cui i volontari sono stati solo sommariamente valutati in termini psicologici e di convinzioni personali, e forse troppo schematicamente etichettati in termini di fede, è stato proposto da alcuni che la religiosità, almeno di una parte di queste persone conservatrici nordeuropee, costituisse più un complemento di un’educazione conformista e legalitaria, che la fonte principale di ispirazione del proprio modo di sentire, amare e comportarsi.

Nel 2011 Saroglou, collaborando con Joanna Blogowska, una sua ex-studentessa, ripeté gli esperimenti con l’aggiunta di una nuova situazione.

Per inciso, voglio rilevare che tutti i partecipanti allo studio del 2005 erano Belgi, mentre, per lo studio di sei anni dopo, i volontari erano in massima parte Polacchi. La provenienza nazionale potrebbe essere totalmente ininfluente, ma è noto che quando si voglia trarre informazioni che si spera possano attingere ad un livello psicoantropologico più profondo o addirittura psico-biologico, si preferisce impiegare campioni trans-culturali.

La nuova prova introdotta nel 2011 prevedeva una situazione in cui si doveva decidere se aiutare una studentessa in condizioni di bisogno, in due casi distinti: nel primo caso la studentessa era presentata come femminista, nel secondo caso, invece, non era caratterizzata in alcun modo. I partecipanti con un alto grado di fondamentalismo religioso, indipendentemente dallo specifico credo professato, non erano disposti ad aiutare la femminista, che vivevano come minacciosa per i propri valori. Queste stesse persone erano anche poco inclini ad aiutare gli estranei nella prova della valigia che si apre, nella quale, al contrario, erano in maggior parte propensi ad aiutare la studentessa non femminista e conoscenti con i quali avessero almeno un minimo rapporto interpersonale.

Ho riferito di questi studi perché, oltre ad essere considerati fra i più autorevoli, sono stati citati a proposito dei legami causali fra profilo psicologico ed atteggiamento religioso; tuttavia, devo notare che nel metodo e nel merito mi sembra che difettino sotto molti aspetti, primo fra tutti quello costituito dal considerare i cinque tratti psicologici come elementi psichici di base rispetto alla tendenza religiosa, cosa mai realmente dimostrata e, in parte, in evidente contraddizione con alcune caratteristiche della descrizione dei tratti. Pertanto, sottopongo questi studi al vostro giudizio, riservandomi di formulare osservazioni critiche, sia nel metodo sia nelle conclusioni desunte dagli autori, in sede di discussione […].

Lo studio sull’importanza relativa di fattori genetici e ambientali è stato condotto sui gemelli monozigoti. In realtà, centinaia di coppie di gemelli sono stati esaminati da vari gruppi di ricerca che hanno paragonato 1) i risultati di differenti esperienze vissute da due persone con lo stesso patrimonio genetico; 2) il peso di fattori ambientali prima condivisi e poi differenziati; 3) gli elementi rilevanti per lo studio dell’ereditabilità.

Un esempio circa il profilo metodologico e i risultati ottenuti, lo fornisce un lavoro condotto da Laura Koenig e colleghi presso l’Università del Minnesota nel 2005. I ricercatori analizzarono dei resoconti sulla religiosità di coppie di gemelli durante il periodo della loro adolescenza, e li paragonarono a quelli ottenuti nell’età adulta. Lo scopo era quello di calcolare l’importanza relativa dei fattori genetici rispetto a quelli ambientali in quelle due epoche della vita. Per determinare l’importanza dei fattori valutati, i ricercatori hanno impiegato un modello statistico. La componente genetica è stata dedotta come predisposizione per alcuni tratti di personalità.

Il risultato indicava che, durante l’adolescenza, i fattori genetici, così desunti, incidevano solo per il 12% nel determinare l’identità religiosa, mentre l’educazione condivisa aveva un peso stimato del 56%. Al contrario, la religiosità nell’età adulta poteva essere attribuita per il 44% a fattori genetici e solo per il 18% all’ambiente.

Considerando complessivamente l’insieme degli studi condotti sui gemelli, si può concludere che l’approccio della famiglia alla religione gioca un ruolo importante e preponderante nell’infanzia e nell’adolescenza, creando un ambiente culturale che influenza l’atteggiamento e i sentimenti religiosi. I cambiamenti che si vanno affermando fra i 18 e i 25 anni, sono letti dalla maggior parte degli autori come il segno dell’emergere e del prevalere della predisposizione genetica.

Non è facile commentare questi studi, soprattutto per la concezione dei processi psichici, e della mente nel suo complesso, sottostante i disegni sperimentali, e in parte per l’equiparazione di pratiche comportamentali a vissuti spirituali che, nel complesso, sono spesso considerati come un  “abito” distinto dal “corpo”, costituito dalla psicologia del soggetto. E’ come se si desse per certo che le componenti psicologiche che costituiscono la struttura psichica della persona siano del tutto distinte da quelle appartenenti a spiritualità e religione, che possono essere assunte o meno senza che i caratteri costitutivi del soggetto mutino: proprio come un abito che può essere indossato o meno su un corpo che rimane indipendente da questa scelta.

In questi studi sperimentali si trascura per scelta di metodo un elemento che a me sembra rilevante, ossia che le radici antropologiche della cultura, quando trasmesse con l’esempio, prima ancora che col messaggio, e recepite per identificazione, possano incidere sulla dimensione psicologica costitutiva del soggetto e sulla sua psicofisiologia, potendo intervenire nella modulazione delle sue risposte neurofunzionali che entrano in ciclo con l’esperienza e la conoscenza, determinando evoluzione e cambiamento endofenotipico. Oggi è noto che le esperienze che influiscono sullo stile di vita si accompagnano a modificazioni dell’espressione genica. Un approccio che tenga conto di questi elementi potrebbe consentire di avviare studi molto interessanti.

Un’ultima osservazione, prima della discussione. Non si prende in considerazione, e perciò non si indaga, la possibilità che differenze di personalità, temperamento, carattere, istruzione e cultura, possano consentire di vivere secondo stili assolutamente diversi lo stesso messaggio spirituale. Capovolgere l’impostazione, considerando una costante la dottrina e una variabile l’interpretazione individuale, potrebbe consentire di rilevare aspetti ed elementi non ancora considerati. Un corollario potrebbe essere paragonare due persone ritenute perfette nella virtù di una dottrina, ma molto diverse fra loro per stile individuale e relazionale. Una sorta di confronto fra “santi” contemporanei, in tutti i parametri esplorabili e ragionevolmente rilevanti, potrebbe aiutare a definire in maniera fondata il rilievo di aspetti significativi della psicologia e della psicofisiologia per l’esperienza religiosa, e alcuni dei criteri in base ai quali operare distinzioni e costruire esperimenti. […]”.

Al termine della discussione e di un interessate serie di domande e risposte, sono seguite le altre relazioni previste dal programma e poi, nel corso delle conclusioni della giornata di studio tratte da chi scrive, si è deciso di programmare un meeting di aggiornamento su questo tema.

 

L’autore della nota ringrazia la professoressa Monica Lanfredini, con la quale ha discusso l’argomento trattato, e invita alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

 

Giovanni Rossi

BM&L-09 giugno 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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