Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello
umano
GIUSEPPE PERRELLA
(Trascrizione
di Lorenzo L. Borgia)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 02 giugno 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti
lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]
Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una
relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale
di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione,
Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain,
Mind & Life International”. Per i riferimenti bibliografici completi
scrivere al dott. Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.
(Ottava
ed Ultima Parte)
Una prima caratterizzazione mediante fMRI del
profilo funzionale di queste persone con abilità straordinarie, come abbiamo
visto, evidenzia il basso grado di attivazione cerebrale nell’affrontare le
difficoltà, ossia l’assenza di reperti collegati allo sforzo per un maggiore
impegno, e peculiarità nella corteccia fronto-polare,
prefrontale dorsolaterale e cingolata anteriore. I dati, desunti dall’esame di
solo sedici persone con queste caratteristiche, non consentono però di capire
se i supertaskers possano
considerarsi espressione dell’estremo di una gamma di potenzialità oppure siano
portatori di una condizione fisiologica speciale e qualitativamente diversa
dalla norma. L’esame dei circa settecento volontari dello studio di Strayer e Watson, che ho citato in precedenza, non sembra
suggerire l’esistenza di gradi intermedi e forme di passaggio fra lo schema
fisiologico dei normodotati e quello degli iperdotati; tuttavia, dobbiamo tener
conto che questo tipo di indagine fornisce solo quadri generici di funzione, il
cui rapporto con i reali processi neurali alla base delle prestazioni è
ipotetico e indiretto.
Il solo modo per comprendere esattamente la
differenza fra i supertaskers e il
resto della popolazione, consisterebbe nell’accertamento ad ogni livello, ossia
molecolare, cellulare e sistemico, delle somiglianze e delle differenze in base
alle quali desumere gli elementi realmente significativi. E’ perfino superfluo
ricordare la nostra conoscenza ancora scarsa dell’analitica dei processi alla
base delle abilità e delle prestazioni cognitivo-strumentali:
un limite che, naturalmente, si ripercuote sulla possibilità di tracciare
schemi e configurazioni di attività di neuroni, circuiti e sistemi
neuroni-glia, sottostanti l’esecuzione di compiti singoli o doppi. In altre
parole, a questi livelli della funzione normale, non abbiamo precisi quadri, ai
quali accostare e paragonare quelli che potremmo accertare negli iperdotati.
Per potere avere dati certi e completi sarà
necessario attendere che la ricerca consenta di compiere un salto di qualità
nel livello delle conoscenze neuroscientifiche; ma, nel frattempo, lo studio
condotto con i mezzi attualmente disponibili e sulla base delle nozioni sperimentalmente
confermate, oltre a tentare di decifrare correlati specifici delle prestazioni
dei superdotati, potrà essere utile, più in generale, alla comprensione del
sostrato neurobiologico dei processi cognitivi.
Cercare di decifrare i meccanismi alla base delle prestazioni, interrogando un fenotipo morfo-funzionale
definito mediante le attuali metodiche di neurimaging, sembra attualmente un’impresa
destinata all’insuccesso. Ancora più chimerica appare la possibilità di
individuare un genotipo del superdotato.
Non resta, allora, che abbordare il problema da entrambe le sponde
metodologiche ed andare avanti fino a quando i risultati avvicineranno i dati
molecolari a quelli anatomo-funzionali, tanto da poter formulare ipotesi di
lavoro basate su sintesi coerenti.
Se indagare le caratteristiche
morfo-funzionali macroscopiche peculiari del cervello degli iperdotati è
abbastanza semplice, in quanto l’indagine consiste in uno studio di
osservazione i cui limiti coincidono con quelli delle tecniche e delle
metodiche impiegate, la ricerca dei geni responsabili può apparire, sulle
prime, un’impresa disperata. Infatti, la maggior parte del genoma è espressa
nel cervello e la cosiddetta “dissezione genetica dei tratti cognitivi” non ha
ancora fornito direttrici semplici e sicure da seguire. E’ allora necessario
tentare di tracciare un identikit delle molecole che potrebbero avere un ruolo
in questa differenza, e poi studiarne le caratteristiche genetiche.
Proviamo a schematizzare i tratti
fondamentali: dovrebbero avere un ruolo diretto o indiretto nei meccanismi di
segnalazione rilevanti per la cognizione; dovrebbero essere state associate, in
base ad evidenze sperimentali, a processi di elaborazione e controllo in tempo
reale dell’informazione; infine, il loro rilievo dovrebbe trovare conferma in
condizioni patologiche dovute a un loro difetto funzionale.
Un enzima importante nel catabolismo del
neurotrasmettitore dopamina sembra corrispondere a questo profilo: la catecol-O-metiltransferasi o COMT.
Varianti del gene di questa proteina sono
state associate con differenze di prestazione nell’attenzione esecutiva, nella working memory e
nella predisposizione allo sviluppo di numerosi disturbi psichici. Si ritiene
che varianti allelomorfiche del gene della COMT siano implicate nel determinare
il grado di efficienza della segnalazione dopaminica nei sistemi neuronici
della corteccia frontale che, verosimilmente, sono alla base delle prestazioni
dei supertaskers. L’azione della COMT
accresce la quota del neurotrasmettitore avviato al catabolismo,
proporzionalmente riducendo la frazione disponibile per il legame ai recettori
e così determinando, di fatto, una riduzione dell’effetto fisiologico dei
sistemi dopaminergici, in generale, e della corteccia frontale, in particolare.
La COMT sembra, dunque, un buon candidato.
E’ lecito chiedersi perché non prendere in
considerazione geni di molecole legate alla segnalazione del GABA, il
neurotrasmettitore inibitorio dal quale dipende in massima parte la fisiologia
della corteccia? Oppure geni di proteine legate alla segnalazione del
glutammato, il principale mediatore eccitatorio del nostro cervello? O, ancora,
geni di altre vie di segnalazione dimostratesi importanti per l’attenzione e la
memoria di funzionamento? O, infine, tutti gli altri geni che direttamente o
indirettamente sono stati associati alla prestazioni cognitive?
La mia risposta a tutte queste domande è che
non vi sono fondate ragioni per escludere alcuna di queste ipotesi di lavoro,
ma naturalmente ci si atterrà alle priorità suggerite ai gruppi di ricerca
dalle nozioni in loro possesso, dai ragionamenti con le quali le
interpreteranno e, infine, dalle possibilità materiali di supporto finanziario
e di collaborazione scientifica di ciascuna opzione.
Intanto, come abbiamo visto, la COMT sembra
presentare requisiti fortemente suggestivi di specificità e, pertanto, non ci
meraviglia che Strayer e Watson abbiano deciso di cominciare
dallo studio del gene di questo enzima nei supertaskers da loro individuati.
La catecol-O-metiltransferasi
è sintetizzata, a partire da un unico gene, in due forme principali: una solubile,
o S-COMT, e una legata alla membrana, o MB-COMT (MB da membrane bound), che costituisce il
trascritto principale nell’encefalo ed è ordinariamente indicata con il
semplice acronimo COMT. Presente nei neuroni post-sinaptici con localizzazioni
subcellulari non unanimemente riconosciute ed ancora oggetto di controversia,
insieme con la MAO (monoammine ossidasi) costituisce l’enzima principale del
catabolismo delle catecolamine (adrenalina, noradrenalina e dopamina). La sua
azione, dipendente dal Mg2+ ed inibita dal Ca2+, consiste
nel trasferimento del gruppo metilico dell’S-adenosilmetionina
al gruppo idrossilico in posizione 3 di numerosi composti, fra cui L-DOPA, le
catecolamine e i loro metaboliti idrossilati, i catecolestrogeni e l’acido ascorbico, oltre a farmaci quali
l’α-metildopa, la benserazide
e la carbidopa. Poiché la maggior parte degli studi
sul metabolismo della dopamina sono stati condotti su neuroni dei nuclei della
base, tradizionalmente si è assegnato un ruolo minore alla COMT nella
terminazione dell’effetto del neuromediatore, rispetto alla MAO e alla ricaptazione.
Studi successivi hanno invece rivelato un’importanza elevata della COMT nella
regolazione del termine dell’azione della dopamina nella corteccia prefrontale.
Inoltre, studi recenti hanno identificato varianti dell’enzima che condizionano
differenti gradi di efficienza dei processi legati alla neurotrasmissione
dopaminergica.
Strayer e Watson, sequenziando
il DNA ottenuto da campioni di saliva o sangue dei supertaskers, hanno accertato che in queste persone è presente una
versione della COMT che garantisce una maggiore efficacia alla segnalazione dei
sistemi dopaminergici della corteccia cerebrale frontale, attivi
nell’esecuzione di compiti multipli. Un tale rilievo non consente di dedurre
automaticamente il nesso di causalità fra l’allele e l’abilità straordinaria,
tuttavia si sta indagando la possibilità che elementi caratteristici di questo
gene conferiscano proprietà funzionali in grado di spiegare il maggior potere
di attenzione.
Non si può certamente escludere a priori che
differenze in una singola molecola possano determinare conseguenze così
rilevanti, ma la conoscenza della morfologia e della fisiologia del cervello,
che ci mostrano una complessa architettura funzionale alla base delle abilità cognitive,
rende poco probabile una simile spiegazione. Per quanto mi riguarda, sono
propenso a credere che, indipendentemente dall’elemento o dagli elementi
principalmente ed originariamente responsabili, una tale differenza di abilità
richieda lo sviluppo di un fenotipo complesso con elementi distintivi
riconoscibili a ciascuno dei livelli di osservazione ed indagine attualmente
impiegabili.
Seguendo tale ipotesi, non appare infondato
sperare che il procedere delle osservazioni sperimentali in questo campo possa
contribuire a rivelare la struttura ancora ignota dei processi alla base della
nostra cognizione. E se questi studi consentiranno realmente di progredire
nella conoscenza della neurobiologia dell’attenzione e di quell’elaborazione
astratta che chiamiamo pensiero, i loro percorsi incroceranno la via maestra della
ricerca sulla fisiopatologia di una estesa gamma di disturbi psicopatologici
che va dal deficit dell’attenzione con iperattività al disturbo ossessivo-compulsivo.