Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello umano

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

(Trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 19 maggio 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]

 

Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione, Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain, Mind & Life International”. Per i riferimenti bibliografici completi scrivere al dott. Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.

 

(Sesta Parte)

 

Si può dedurre, sulla base di queste osservazioni, che non si verifica sotto la soglia della coscienza una redistribuzione automatica delle risorse cognitivo-attentive secondo le priorità garantite all’agire cosciente dal buon senso e perfino da risposte istintive. Non è perciò azzardato affermare che l’uso del telefono cellulare durante la guida può causare una sorta di cecità attentiva, ossia una mancanza di rilevamento cognitivo di cui non si è consapevoli.

Per cercare di comprendere la base neurofunzionale della riduzione di prestazione in un compito doppio e, ancor di più, nelle condizioni in cui si trovavano i piloti studiati da Broadbent, Strayer e Watson hanno impiegato il rilievo elettroencefalografico nelle solite condizioni di guida simulata con uso del telefono cellulare, studiando potenziali evocati rilevanti per giudicare le caratteristiche di risposta cerebrale e mentale alle circostanze.

Ricordo, per coloro che non abbiano una specifica preparazione in elettrofisiologia, che è possibile registrare potenziali corticali corrispondenti all’elaborazione che segue la percezione. Ad esempio, il semplice ascolto di una frase quale “la penna serve per scrivere”, produce lo sviluppo, dopo circa 300 millisecondi, di un’onda positiva (P) che si diffonde attraverso tutto l’ambito corticale ed è correlata con la comprensione del messaggio verbale. Convenzionalmente questo potenziale evocato è definito P300, ed è il primo ad aver meritato l’attributo di “cognitivo”. Se la frase è del tipo: “La penna serve per scrivere come l’ombrello”, il non senso rilevato all’ascolto corrisponde alla comparsa, dopo 400 millisecondi, di un’onda negativa (N400). E’ sperimentalmente dimostrato che la concentrazione su un compito fa aumentare l’ampiezza della P300. I ricercatori hanno valutato questo parametro nei volontari che attendevano semplicemente al compito di guida e in quelli che contemporaneamente telefonavano, rilevando con sorpresa che in questo caso l’ampiezza della P300 era ridotta addirittura alla metà.

La registrazione di un tale dato spiega perché la capacità di rilevamento era così compromessa negli esecutori del compito doppio: la conversazione telefonica reclutava così tante routines funzionali da ridurre della metà il sostrato neurale disponibile per l’elaborazione in risposta ad un nuovo stimolo percettivo.

Il significato di questi esiti sperimentali non sembra dare adito a dubbi sull’importanza della sottrazione di risorse comuni all’elaborazione percettiva e cognitiva da parte del compito di comunicazione telefonica; dunque, è lecito supporre che gli incidenti stradali causati dall’uso del telefonino durante la guida possano essere attribuiti, almeno in parte, alla riduzione della prestazione attentivo-cognitiva conseguente all’impegno competitivo degli stessi sistemi di neuroni.

Eppure, non è questa la visione corrente da parte delle autorità preposte alla sicurezza del traffico nella maggior parte dei paesi del mondo. Nelle norme sulla circolazione stradale, in vari Stati degli USA, sembra che il rischio sia stato legato unicamente ad un impedimento motorio nell’esecuzione dei movimenti necessari al conducente per manovrare il volante e azionare gli altri comandi, ossia all’impiego della mano per impugnare il telefono cellulare: in molti Stati, infatti, se è severamente punito chi guida tenendo in mano un portatile, è invece ritenuto in regola chi comunica mediante telefoni veicolari con il dispositivo “viva voce”, oppure adoperando degli auricolari per l’ascolto o, anche, impiegando alcuni dei più recenti dispositivi computerizzati che non richiedono l’uso delle mani. E’ lecito chiedersi se i responsabili della sicurezza stradale che hanno ispirato queste regole siano in errore.

In effetti, il gruppo di studio che fa capo all’Highway Loss Data Institute, un’organizzazione non-profit impegnata nel miglioramento della sicurezza stradale, ha pubblicato a più riprese statistiche dalle quali si deduce che il divieto di telefonare in auto tenendo un apparecchio portatile con le mani, non ha migliorato il bilancio dell’incidentalità.

Nel laboratorio dell’Università dello Utah, impiegando il solito simulatore, è stata sottoposta a verifica l’importanza della distrazione cognitiva determinata dalla conversazione telefonica, rispetto ad una circostanza che possa costringere il conducente a togliere una mano dal volante (distrazione manuale) o rispetto ad un elemento percettivo che possa attrarne lo sguardo (distrazione visiva). E’ risultato che, con entrambe le mani sul volante e lo sguardo fisso alla strada, il conducente presentava lo stesso grado di disturbo da parte del telefono cellulare. In conclusione, l’uso manuale del cellulare e la comunicazione senza impiego delle mani hanno fatto registrare lo stesso grado di interferenza.

Se consideriamo probanti i risultati di questi studi, dobbiamo attribuire la massima importanza alla distrazione attentivo-cognitiva causata dalla comunicazione telefonica.

E’ interessante notare che, nel periodo in cui sono stati condotti questi esperimenti, si è andata diffondendo un’opinione senz’altro influenzata, se non direttamente immessa nei circuiti mediatici, dai costruttori di telefoni cellulari, secondo cui era in atto un’ingiusta ed infondata demonizzazione di questi utili prodotti della tecnologia, il cui uso non avrebbe distratto l’automobilista più di uno scambio di parole con un passeggero.

E’ davvero la stessa cosa parlare con un passeggero dell’auto che si sta guidando o conversare per telefono? Si sono chiesti Strayer e Watson che, per cercare di dare una risposta sperimentale al quesito, hanno provato a ricreare le condizioni di un viaggio in auto nella vita reale.

L’esperimento si è rivelato molto istruttivo. Il paragone fra le due condizioni di comunicazione ha evidenziato differenze abissali.

Tutta la conversazione fra conducente e passeggero era influenzata dalle circostanze di guida, con pause del passeggero nei momenti in cui intuiva la necessità dell’autista di focalizzare la propria attenzione sulla guida. Altro aspetto, probabilmente sottovalutato prima degli esperimenti, è quello della spontanea tendenza di tutti coloro che sono impegnati nel ruolo di passeggero a cooperare alla guida, rilevando e notando, sia pure con discrezione, i rischi, e rammentando al conducente la destinazione cui si è diretti. Come era facile prevedere, nessun aggiustamento in tempo reale della conversazione si è invece rilevato quando lo scambio comunicativo dell’autista avveniva con un interlocutore telefonico.

Nell’esperimento, i conducenti che conversavano spontaneamente con il passeggero non hanno mai avuto problemi nel raggiungere la destinazione finale del viaggio, costituita da un’uscita in corrispondenza di una piazzola di sosta situata al bordo della strada. Al contrario, la metà di coloro che guidavano parlando al telefono, è andata oltre, dimenticando del tutto il punto in cui si sarebbe dovuta fermare.

Un’obiezione che spesso viene sollevata, parlando di questi argomenti, è che si sottovaluta l’efficacia della pratica: chi ha l’abitudine di svolgere due compiti contemporaneamente diventa sempre più abile ed esperto, riducendo così al minimo i possibili effetti negativi. A me è stato detto da qualcuno che ha la cattiva abitudine di parlare al telefonino mentre guida: “Ormai lo faccio da così tanto tempo che la mia attenzione alla strada non si riduce affatto”.

E’ possibile che sia vero?

Anche qui disponiamo dei risultati di una verifica sperimentale. Il confronto fra due gruppi di autisti, il primo solito all’uso del telefonino alla guida e il secondo non esercitato in tal senso, non ha mostrato sostanziali differenze; allo stesso modo, persone che si sono impegnate in una intensa esercitazione di laboratorio per l’esecuzione simultanea dei due compiti, hanno presentato gli stessi limiti di volontari non esercitati.

Si può dire: un’ulteriore riprova che nei compiti doppi o multipli la principale facoltà impiegata è di tipo attentivo, una risorsa di orientamento delle capacità di elaborazione che non si accresce con la pratica del compito. Ma, se teniamo conto dei risultati di uno studio condotto nel 2009 presso la Stanford University da Clifford Nass con Eyal Ophir e Anthony Wagner, possiamo facilmente supporre che la realtà vada oltre questa interpretazione.

I ricercatori californiani, dopo aver valutato il livello di impegno in compiti multipli delle persone partecipanti all’esperimento, hanno misurato il tempo che occorreva loro per passare da una prova all’altra, in particolare, dal classificare delle cifre come omogenee od eterogenee al distinguere delle lettere in vocali e consonanti. Il risultato, definito sorprendente dagli stessi autori del lavoro, mostrava una correlazione negativa fra l’impegno abituale come “media multitaskers” e il tempo necessario per passare dalla classificazione dei numeri a quella delle lettere. In altri termini, coloro che erano maggiormente impegnati in compiti multipli facevano registrare le peggiori prestazioni nell’abilità di passare da un compito all’altro.

Possiamo dedurre che l’esercizio all’esecuzione simultanea di più procedure o attività, non solo non migliora la prestazione in ciascuna di esse, ma potrebbe incidere negativamente peggiorando l’abilità nel passare dall’una all’altra, come nel caso dello studio che ho appena citato.

Accertato, dunque, che l’esercizio all’esecuzione di più compiti non sembra migliorare le prestazioni del sistema cognitivo che assicura attenzione, supervisione e gestione delle risorse, passiamo ad esaminare un aspetto che considero di notevole importanza nelle condizioni di vita reale.

 

[continua]

 

Giuseppe Perrella

 (trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

BM&L-19 maggio 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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