Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello umano

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

(Trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 12 maggio 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]

 

Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione, Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain, Mind & Life International”. Per i riferimenti bibliografici completi scrivere al dott. Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.

 

(Quinta Parte)

 

Se e quanto sia corretto considerare i processi dell’attenzione separati da quelli della memoria di funzionamento, o working memory, è molto dubbio; personalmente tendo a mettere in guardia circa il rischio che, sebbene siano state adottate definizioni nelle intenzioni corrispondenti ai fenomeni osservati sperimentalmente, quali appunto “memoria di funzionamento”, quando ci si allontani dalla realtà di osservazione, il valore di senso più comunemente attribuito a quei termini possa influenzare il modo in cui li si impiega concettualmente nelle riflessioni e nei ragionamenti scientifici.

In altri termini, quando Patricia Goldman-Rakic studiava i processi corticali che hanno dato luogo alla definizione “working memory”, sapeva bene di stare osservando un funzionamento attuale dell’animale, che si avvale della registrazione dei dati man mano acquisiti. Invece, traslando il concetto a partire dal termine memory, in un’astrazione di neuropsicologia teorica, la working memory diventa un tipo di memoria e perde il suo connotato di “aspetto di un funzionamento”. La concezione comune di memoria umana, fortemente influenzata dal prototipo della facoltà di apprendere che impieghiamo per gli studi scolastici e, in generale, per ricordare nozioni, ossia la memoria dichiarativa semantica, è distinta e distante dal concetto di “attenzione”, intesa come il rivolgersi vigile della mente ed attendere con diligenza a un compito determinato. La prima è comunemente considerata come un processo di conservazione e rievocazione di una traccia, la seconda come un atto di orientamento.

Non voglio dire che i concetti legati alle abitudini semantiche tipiche della comunicazione verbale possano facilmente fuorviare i ricercatori, ma che una tendenza pre-riflessiva, una bias inconsapevole, possa influenzare tutti coloro che impiegano quelle parole, potendo influire sul loro modo di elaborarne il senso quando si allontanino dai fatti sperimentali che hanno suggerito le definizioni. Nelle elaborazioni teoriche mi sembra che accada di frequente.

Non deve perciò meravigliarci che quanto da molti è incluso nell’argomento “attenzione”, secondo altri appartiene agli studi sulla memoria. Alan Baddley, infatti, dopo aver descritto la working memory secondo un modello che la vuole costituita da un “ciclo fonologico” e da un “blocco per appunti visuo-spaziale” cita, come esempio del ruolo delle immagini visive nella memoria, un episodio autobiografico che possiamo accostare agli studi sul compito doppio di parlare al telefono e guidare l’auto: “Ero stato colpito da un’esperienza che mi capitò durante un periodo trascorso in California quando sviluppai un grande interesse per il calcio americano. Un giorno stavo guidando sull’autostrada e nello stesso tempo stavo ascoltando alla radio una partita di calcio. Il calcio americano è naturalmente un gioco in cui la localizzazione spaziale è estremamente importante e mi accorsi che nel momento in cui mi costruivo una ricca e complessa immagine del campo di calcio, la mia macchina cominciava a sbandare da una parte all’altra della strada”.[1]

A mio parere, che la funzione psichica di base attuale sia limitata nella sua estensione e perciò nella sua capacità operativa, è nozione certa, ma non è facile ed è talvolta controversa la sua scomposizione in ambiti funzionali discreti da sottoporre a misurazione. Di passaggio, noto di aver sentito il bisogno di adottare una vecchia definizione della semeiotica psichiatrica, funzione psichica di base attuale, perché mi sembra tanto generica da esprimere la necessaria prudenza quanto ai processi neurobiologici cui si riferisce e, allo stesso tempo, sufficientemente efficace nell’indicare l’aspetto connotativo fondamentale della temporalità.

In proposito, mi piace osservare che se aumentiamo progressivamente l’impegno cognitivo di una persona che sta camminando e masticando una gomma in tutta scioltezza, prima si fermerà e poi, per pensare, potrà anche smettere di masticare. Due esempi di attività perfettamente automatiche che, in condizioni di sovraccarico intellettivo, possono disturbare i processi di elaborazione attuale. Istintivamente, si dice, la persona interrompe ciò che interferisce. Ma come si compie questa operazione? Ritengo che si debba ammettere l’esistenza di un livello funzionale sovraordinato che consente di gestire le proprie risorse, anche se so che, in assenza di dati sperimentali che consentano di definire esattamente il profilo di tale funzione, dobbiamo rinunciare all’impiego di questo concetto e seguire l’orientamento della massima parte dei ricercatori che tratta questi processi come automatismi, senza preoccuparsi di distinguerli in base al livello al quale si presume che operino.

Il livello di controllo che ci fa interrompere un’azione o ci induce a richiedere il silenzio degli astanti per concentrarci sull’ascolto di un messaggio, può facilmente essere eluso ma, come si vede in un classico video di YouTube, a proprio danno: una donna continua a camminare per strada mentre è intenta a comporre un messaggio sul proprio telefonino cellulare, senza minimamente distogliere l’attenzione dal testo, fino a quando capitombola in una fontana.

Dopo questo breve excursus, possiamo ritornare agli esperimenti che simulano l’uso del telefono portatile durante la guida, in particolare quelli volti a stabilire in che modo l’attenzione alla comunicazione telefonica riduce la prestazione del conducente. Gli effetti principali, più volte riprodotti si possono così sintetizzare: 1) allungamento dei tempi di reazione che portano a risposte riflesse ritardate; 2) difficoltà a tenere la strada rimanendo nella propria corsia di marcia; 3) difficoltà nel tenere la distanza di sicurezza dal veicolo che precede; 4) aumento della probabilità di attraversare un incrocio con il semaforo rosso; 5) mancato rilievo di dettagli dell’ambiente attraversato dal veicolo e generalmente notati in condizioni di guida ordinarie.

In uno studio di osservazione condotto da Strayer e Watson su 56.000 conducenti che dovevano effettuare un arresto completo con ripartenza presso un segnale di “stop” posto all’intersezione della via percorsa con un’altra importante arteria stradale, coloro che parlavano al telefonino presentavano una probabilità di fallire il corretto arresto dell’auto di due volte maggiore degli altri. Gli stessi autori nel 2006, usando il simulatore di guida che ho descritto all’inizio della relazione, hanno compiuto esperimenti per valutare se effettivamente l’uso del telefono accrescesse il rischio di incidenti. E’ risultato che, sia il parlare che il comporre messaggi, aumentava il rischio di incidente stradale, al punto da superare spesso la pericolosità calcolata per le persone al limite dell’intossicazione alcoolica secondo i tassi di alcool etilico plasmatico indicati dalla legge in vigore negli USA.

Ancora Strayer e Watson, hanno studiato l’elettrofisiologia della risposta cerebrale durante la simulazione di guida, impiegando il rilievo dell’attività corticale mediante elettrodi posti sul capo dei volontari. L’attenzione, intesa come amplificazione selettiva di alcuni segnali e soppressione di altri trascurabili e potenzialmente interferenti, era certamente invalidata dall’uso del telefonino alla guida, perché fino alla metà degli elementi introdotti dai ricercatori sul percorso, visti e percettivamente rilevati dal cervello dei volontari, non erano notati coscientemente e ricordati da coloro che erano impegnati nel comunicare. Anche il tracciato dell’attività relativa ai riflessi, indicava tempi di risposta notevolmente più lunghi, coerentemente con quanto rilevato negli studi precedenti.

Un altro aspetto importante del disturbo prodotto dal doppio compito del guidare telefonando, si può desumere dal confronto fra uno studio condotto nel 2003 e il follow up eseguito nel 2007. In questi due studi si è fatto un rilievo oggettivo dei movimenti dello sguardo e lo si è confrontato con la memoria soggettiva di ciò che il volontario conducente ricordava di aver visto: non solo si riduceva della metà la capacità di ricordare, ma si determinava un pattern di rievocazione identico per elementi di notevole importanza e particolari trascurabili del paesaggio. In altri termini, un bambino sul bordo di un marciapiede in procinto di attraversare la strada e un cartello pubblicitario poco evidente, erano considerati allo stesso modo. Questo indica la perdita dell’automatica elaborazione dell’elemento percepito in base alla priorità o, in altre parole, la compromissione dell’integrazione di significato che normalmente genera una risposta di allerta nel caso si possa mettere a rischio la vita di una persona.

Si può anche dire che, la riduzione quantitativa del sostrato neurale impiegato per elaborare la percezione visiva, determina un effetto qualitativo consistente nella perdita del “potere di segnale” dell’immagine di un bambino al bordo della via; ovvero, una diversione o distrazione delle risorse psichiche del momento, preclude un automatismo cognitivo con conseguenze potenzialmente disastrose.

 

[continua]

 

Giuseppe Perrella

 (trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

BM&L-12 maggio 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Alan Baddley, La memoria umana. Teoria e pratica, pp. 122-123, Il Mulino, Bologna 1992.