Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello
umano
GIUSEPPE PERRELLA
(Trascrizione
di Lorenzo L. Borgia)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 05 maggio 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]
Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una
relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale
di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione,
Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain, Mind & Life
International”. Per i riferimenti bibliografici completi scrivere al dott.
Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.
(Quarta
Parte)
Numerose verifiche sperimentali hanno
demolito la credenza aneddotica che vi siano persone in grado di eseguire più
compiti cognitivi allo stesso tempo: ricordiamo, ad esempio, i pianisti di
Allport, Antonis e Reynolds (1972) che, mentre suonavano, potevano ripetere un
brano di prosa appena udito, ma non erano in grado di eseguire due compiti
anche semplici simultaneamente se almeno uno dei due non era attuabile con una
procedura automatica. Un altro esempio simile, frequentemente citato, è quello
della dattilografa di Shaffer (1975), capace di scrivere a macchina ripetendo
la prosa udita, ma non in grado di combinare la scrittura sotto dettatura alla
lettura ad alta voce.
Potrei continuare, elencando numerosi altri
casi sottoposti a verifica, ma non è necessario in quanto tutti concorrono a
confermare che il controllo cognitivo cosciente non può sdoppiarsi e deve
necessariamente spostarsi da una successione di processi all’altra e, dunque,
la sensazione dello svolgimento di più compiti con una perfetta
contemporaneità, è tanto maggiore quanto più grandi sono le componenti
automatizzate di ciascun compito e minore è la frequenza del controllo
cosciente obbligatorio, che può essere bilanciato con un’alternanza che sfrutta
le fasi completamente automatiche o gli intervalli di ciascun compito.
Quest’ultimo concetto è particolarmente
evidente se si pensa ad un cuoco che prepara contemporaneamente sei piatti
diversi, ciascuno dei quali richiede una procedura di almeno cinque passi ed un
impiego di ingredienti che vanno dai quattro ai sette e non sono tutti diversi
fra loro (rischio di interferenza). I sei procedimenti, basati sulle ricette,
costituiscono sei memorie dichiarative indipendenti e ben consolidate - per inciso rileviamo che in questo caso le
memorie procedurali hanno un ruolo solo marginale - gestite attraverso un
sapiente interrompere e riprendere ciascuno dei “copioni di esecuzione”, che
contiene un filo mnemonico automatizzato, ma che è gestito attraverso abilità
coscienti basate su una efficiente working
memory. Gli intervalli fra le fasi di preparazione dei piatti, ossia le
sospensioni programmate che rendono possibile far procedere in parallelo le sei
preparazioni, costituiscono la chiave di questa abilità.
In proposito, voglio fare un’osservazione
sulla base di una mia opinione che si discosta un po’ dal modo di considerare
la neurofisiologia di questi processi da parte di molti psicologi cognitivisti
e neuropsicologi, inclusi Strayer e Watson. Quando ci riferiamo a comportamenti
semplici, costituiti da un atto o pochi atti volti ad uno scopo materiale
tangibile ed immediato (lanciare una palla in un canestro, unire tanti punti
con una linea, riconoscere ed appaiare oggetti), è facile essere d’accordo su
ciò che definisce un compito, ed è anche facile supporre una base neurobiologica
univoca per tutte le persone, ma quando ci troviamo di fronte ad esperienze
complesse, dobbiamo fare i conti con tanti processi di apprendimento ed
abitudini di gestione delle proprie facoltà, nonché con i modi umani di
memorizzare le esperienze collegate alle azioni, che possono creare differenze
individuali anche notevoli. Non è questa la sede per spiegare ed approfondire
questa mia tesi, ma vi ho fatto riferimento per dire che a mio avviso, sia nei
termini della base neurale comune, sia per le maggiori differenze individuali
che comportano, le esecuzioni di procedimenti che prevedono un lungo script di esecuzione e contengono più
obiettivi (si pensi anche semplicemente alla realizzazione di un dolce che
prevede un’estetica visiva e precisi risultati nella resa gustativa ed
olfattiva) non possono essere poste sullo stesso piano dei compiti semplici.
Ma, tornando all’evoluzione degli studi sull’abilità
di eseguire più compiti allo stesso tempo, è opportuno osservare che
attualmente quest’area sperimentale è considerata parte integrante della
ricerca sull’attenzione.
Infatti, se il limite principale per la
simultaneità è costituito dall’esecuzione motoria di più azioni finalizzate,
subito dopo in ordine di priorità viene il potere cognitivo di controllare e
gestire mentalmente i compiti: facoltà convenzionalmente studiata con il nome
di attenzione.
Con questo termine, nei primi decenni del
secolo scorso e, precisamente, fino agli studi di Donald Broadbent, si indicava
il rivolgere la coscienza intenzionalmente verso un oggetto percettivo o
cognitivo. Non si credeva fosse una facoltà illimitata nella sua estensione,
come qualche volta si legge, ma piuttosto non si disponeva di elementi
sperimentali che ne consentissero una precisa definizione, distinzione e
delimitazione dai processi ai quali la si associava. Lo studio delle abilità
richieste per pilotare un aereo segnò un punto di svolta in questo campo.
I progressi tecnologici compiuti
dall’aviazione militare durante la seconda guerra mondiale, avevano consentito
la realizzazione anche in campo civile di aerei in grado di offrire al pilota,
istante per istante, una grande quantità di informazioni di alta precisione per
la gestione del volo attraverso il monitoraggio automatico di parametri,
indicati su un numero impressionante di quadranti, e la segnalazione del
superamento di soglie mediante dispositivi di allerta e allarme volti a
richiamare l’attenzione. Si riteneva che la crescita esponenziale dei dati a
disposizione degli uomini specializzati nella guida degli aeromobili sarebbe
andata a tutto vantaggio della sicurezza del volo. Invece, non fu così: il
numero degli incidenti dovuti ad errore umano crebbe sensibilmente.
Donald Broadbent ipotizzò che, soprattutto in
condizioni di emergenza, la quantità di informazioni da elaborare nell’unità di
tempo superasse le facoltà cognitive dei piloti. Su questa base allestì una
specifica sperimentazione che, in breve, dimostrò in maniera inequivocabile che
solo una parte delle informazioni poteva essere realmente ritenuta, così da
consentire l’elaborazione del loro valore assoluto e relativo, allo scopo di
prendere decisioni e definire priorità. Paradossalmente, il grande progresso
tecnologico aveva ridotto la sicurezza fornendo un eccesso di informazioni per
la limitata capacità umana di gestione simultanea dei dati.
Questo limite, che successivamente è stato
studiato in termini di memoria di funzionamento, fu attribuito da Broadbent
alla funzione attentiva, da lui descritta come una possibilità di focalizzarsi
su una quantità ristretta e misurabile di informazioni. Tale tesi, con qualche
adattamento, costituisce ancora una base condivisa nella concezione
dell’attenzione in seno alle neuroscienze cognitive, quale facoltà a capacità
limitata che può essere flessibilmente spostata fra compiti concomitanti.
Secondo tale visione teorica è inevitabile che, in presenza di più compiti,
prestare maggiore attenzione ad uno condizionerà una riduzione delle risorse
disponibili per gli altri.
Ma se questo è vero, o almeno appare
ragionevolmente plausibile alla luce dei risultati degli esperimenti, è
naturale porsi un preciso interrogativo sulla natura dei processi che
corrispondono al concetto psicologico di attenzione. Se è lecito considerarla
una facoltà distinta dalla coscienza, è pur lecito chiedersi in cosa consista
realmente in termini neurofunzionali.
La risposta emersa dalla ricerca recente può
essere sintetizzata in questo modo: l’attenzione consiste nell’amplificazione mirata di alcuni segnali
e nella soppressione di altri,
mediante due processi noti rispettivamente come facilitazione e inibizione.
In altri termini, gli esperimenti hanno provato che ciò su cui si concentra il
nostro interesse viene materialmente rappresentato nell’encefalo da una
un’attività neuronica più intensa, che nettamente lo distingue da ciò che,
ritenuto trascurabile, viene smorzato nei suoi effetti di segnale all’interno
del sistema nervoso centrale. Non è perciò azzardato dire che la natura
neurofunzionale dell’attenzione consiste in una scelta.
[continua]