Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello
umano
GIUSEPPE PERRELLA
(Trascrizione
di Lorenzo L. Borgia)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 21 aprile 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti
lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]
Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una
relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale
di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione,
Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain,
Mind & Life International”. Per i riferimenti bibliografici completi
scrivere al dott. Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.
(Seconda
Parte)
Numerosi studi comparativi, che hanno
valutato le caratteristiche morfologiche e funzionali della neocorteccia umana
e delle scimmie antropomorfe, hanno evidenziato che proprio la regione
corticale corrispondente ai poli frontali costituisce l’area di maggiore
distanza evolutiva fra noi e gli altri primati. Infatti, il confronto fra tutti
i territori anteriori alla scissura di Rolando, ha rivelato che, in assoluto e
in proporzione relativa, la corteccia cerebrale dei poli frontali umani era più
espansa e riccamente interconnessa; in altri termini, il fattore differenziale
esistente fra uomo e scimmia per le regioni prefrontali era notevolmente
accresciuto all’interno del perimetro che corrisponde al polo corticale
anteriore.
Una tale evidenza appare straordinariamente
suggestiva e coerente con l’interpretazione che considera l’abilità umana di
eseguire più compiti contemporaneamente come una conseguenza intraspecifica di
un cambiamento evolutivo apparso nel cervello degli ominidi in un’epoca
relativamente recente. Si può dunque affermare che, qualunque sia l’origine del
fenotipo dei superdotati, la base neurobiologica che ne ha consentito lo sviluppo
appartiene a quella ristretta frazione di elementi qualitativi che aiutano a
distinguere il cervello umano da quello di altri mammiferi.
Si può quindi affermare che, l’esito dello
studio dell’encefalo degli iperdotati mediante risonanza magnetica funzionale,
è coerente con la concezione attuale della filogenesi della cognizione.
Un ulteriore supporto alla significatività
dei dati rilevati da Strayer e Watson viene dalla
loro coerenza con considerazioni neuropsicologiche desunte su base anatomo-clinica: in pazienti affetti da lesione frontale, quanto
maggiore era l’estensione perimetrale e volumetrica del danno frontopolare, tanto più grande era la compromissione delle
abilità nell’esecuzione simultanea di più compiti.
A questo punto, identificate le regioni più
importanti per il multitasking,
se accettiamo l’interpretazione che considera la minore attivazione nel
maggiore impegno come indice di efficacia neurofunzionale, non ci resta che
cercare nei sistemi neuronici di queste aree le ragioni molecolari, cellulari e
sistemiche degli alti livelli di elaborazione efficiente.
Naturalmente si tratta di un’impresa
tutt’altro che semplice, soprattutto in considerazione dell’impossibilità di
impiegare nella nostra specie le procedure di neurobiologia molecolare e di
elettrofisiologia cellulare che costituiscono la base della sperimentazione
animale; pertanto si sta procedendo, da un canto, rilevando dati di genetica
molecolare e, dall’altro, definendo, mediante metodiche di neuroimmagine,
correlati morfo-funzionali di prestazioni in compiti specifici e controllati.
Nel mezzo, vi è una sorta di quadro teorico o cornice concettuale, un framework, come
si è soliti dire, entro cui sono organizzati i dati. In altri termini, per
creare un ponte fra caratteristiche molecolari ed immagini del cervello di
persone che eseguono delle prove cognitivo-comportamentali, allo scopo di
desumere l’attività dei numerosi sistemi e sottosistemi implicati, è necessario
riferirsi a nozioni tratte da uno spettro di discipline che vanno dalla
neurofisiologia dei sistemi alle neuroscienze cognitive, e compiere dei
ragionamenti basati su semplici principi, quali coerenza/incoerenza,
plausibilità e probabilità.
Su questa base, possiamo porci una prima
domanda sui risultati dello studio che stiamo considerando: quale rapporto
esiste fra la working memory, ossia
il supporto mnemonico che costantemente integra l’elaborazione cognitiva, e le
evidenze morfo-funzionali di Strayer e Watson?
Prima di dare una risposta questa domanda, mi
sia consentito un inciso volto a tenere alta l’attenzione critica sui termini
della discussione: working memory o memoria di funzionamento non è il nome
di una struttura anatomica o di un processo discreto e circoscritto, ma è una
definizione corrispondente ad un concetto che ha interpretato un complesso di
evidenze sperimentali che, in molti casi, si sarebbero potute organizzare
secondo un diverso disegno interpretativo. Di passaggio, mi piace ricordare che
lo stesso Joaquin Fuster, uno dei massimi esperti di
corteccia prefrontale, ha dichiarato di aver resistito per anni all’impiego di
questa definizione perché “aliena al fenomeno” realmente osservato (Fuster, 2008). Per tali ragioni, dovremmo parlare più
propriamente di rapporto fra i reperti tomografici e
la “teoria della memoria di funzionamento”. E dovremmo anche aver presente, a
mio avviso, che la working memory
effettivamente misurata negli esperimenti è diversa da quella teorizzata e così
bene descritta nelle sue ipotetiche componenti da Alan Baddley,
perché le valutazioni sperimentali sono basate su una concezione operativa e semplificata;
ma è anche diversa da quella inizialmente definita e proposta dalla compianta
Patricia Goldman-Rakic, perché interamente desunta da
osservazioni condotte su animali.
Tanto premesso, possiamo facilmente dare una
risposta, perché lo studio era “controllato per la working memory”, ossia strutturato in maniera
tale da avere valutazioni delle abilità ritenute appartenenti a questo ambito:
la memoria di funzionamento è risultata importante, ma da sola non in grado di dar
conto delle prestazioni superiori delle persone iperdotate nell’esecuzione
simultanea. Dunque, almeno secondo la visione teorica attualmente prevalente,
le facoltà necessarie al multitasking
non possono essere ridotte solo all’efficienza e all’estensione o capacità (span) dei
processi di ritenzione ed elaborazione di breve termine.
Una seconda domanda, che definisce una
questione di importanza notevole per la ricerca presente e futura, può essere
così formulata: i cosiddetti supertaskers costituiscono l’estremo più avanzato di una
gamma continua di livelli prestazionali, o rappresentano esempi di un’organizzazione
neurofisiologica qualitativamente diversa?
[continua]