Compiti simultanei rivelano caratteristiche della cognizione e del cervello umano

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

(Trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 14 aprile 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: TRASCRIZIONE DI UNA RELAZIONE ORALE]

 

Il presente testo è stato tratto dalla registrazione di una relazione tenuta venerdì 13 aprile 2012 dal Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Attenzione, Coscienza e Controllo Cognitivo” organizzato da “Brain, Mind & Life International”. Per i riferimenti bibliografici completi scrivere al dott. Lorenzo L. Borgia all’indirizzo e-mail brain@brainmindlife.org.

 

(Prima Parte)

 

Per puro caso, durante l’analisi dei dati di un esperimento in cui si chiedeva a delle persone di guidare, telefonare o fare entrambe le cose contemporaneamente, David Strayer e Jason Watson della University of Utah individuarono una persona che, infrangendo la regola della riduzione di prestazione nell’esecuzione simultanea, era in grado di mantenere la stessa efficienza nell’eseguire i due compiti allo stesso tempo.

E’ noto che non è possibile seguire coscientemente e con continuità più fili logici o elaborazioni intellettive; è possibile, invece, spostare la focalizzazione dell’attenzione da un compito all’altro, governando intenzionalmente le procedure che ci consentono un’esecuzione in parallelo. In questo caso però, come è stato documentato sperimentalmente, l’efficienza nei singoli compiti fatalmente e invariabilmente diminuisce, tanto che fra i ricercatori si parla convenzionalmente di “regola” della riduzione della prestazione. Per questa ragione, sulle prime, Strayer e Watson erano sicuri di aver commesso qualche errore nel rilevare o nel registrare i dati e, pertanto, avviarono una verifica degli esperimenti nei quali quel volontario aveva ottenuto virtualmente gli stessi punteggi per l’esecuzione del singolo compito e del doppio compito. Ma, dopo numerosi controlli e approfondimenti, i due ricercatori dovettero ammettere di trovarsi di fronte a una persona con abilità superiori e mai descritte scientificamente in precedenza.

L’aver individuato una tale eccezione, autorizzava a supporre l’esistenza nella popolazione generale di una frazione, sia pur limitata, di persone il cui cervello potrebbe funzionare in un modo diverso e non ancora conosciuto; una possibilità in grado di aprire un nuovo ed entusiasmante orizzonte per la ricerca neurocognitiva.

Strayer e Watson decisero allora di verificare l’esistenza di altre persone iperdotate in questo senso e, a tale scopo, sottoposero al vaglio sperimentale circa 700 volontari, rilevando in 19 di essi, ossia circa il 2,5% del totale, le caratteristiche straordinarie della persona individuata per caso, e alla quale avevano attribuito l’appellativo di supertasker, per indicare la speciale abilità di eseguire con efficienza più compiti (tasks) simultaneamente. L’appellativo appariva giustificato per queste 19 persone, anche in considerazione del livello prestazionale assoluto che, indipendentemente dall’esecuzione singola o doppia, li collocava nella fascia più alta costituita dal 25% del campione.

Lo studio volto ad identificare le aree dell’encefalo responsabili delle abilità straordinarie fu condotto mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI), sottoponendo a scansione 16 superdotati e 16 volontari fungenti da controllo e corrispondenti, uno ad uno, per punteggio nelle singole prove, capacità di working memory, sesso, età ed altre caratteristiche di minore importanza. Negli studi precedenti era stato adoperato un apparecchio simulatore di guida tecnologicamente avanzato e di ottima fattura, con volante e cruscotto di un’auto vera e con schermi perfettamente corrispondenti al parabrezza e ai vetri laterali, sui quali scorrono immagini estremamente realistiche e coerenti con quelle visualizzate nei riquadri riproducenti lo specchietto retrovisore e gli specchi laterali esterni. Purtroppo, per effettuare la tomografia funzionale cerebrale, si è dovuto rinunciare all’impiego di questo apparecchio, in quanto fMRI e simulatore di guida sono tecnologie incompatibili. Si è allora scelta una soluzione meno prossima alle esperienze reali, ma sperimentalmente più completa e consistente in una collaudata prova computerizzata multitasking, che richiede la ritenzione e l’elaborazione contemporanea di flussi di informazione visiva e uditiva separati.

I risultati hanno evidenziato differenze notevoli e significative fra iperdotati e normodotati nei reperti funzionali delle sezioni tomografiche.

Una prima importante particolarità delle persone dotate della capacità di eseguire più compiti senza perdere in efficienza, riguarda il modo in cui il loro cervello risponde alla difficoltà crescente.

In condizioni sperimentali, virtualmente in tutte le persone esaminate in precedenza, al crescere dell’impegno o dello sforzo necessario per superare una prova, corrisponde una maggiore attivazione cerebrale rilevata alla fMRI, come maggiore intensità ed estensione delle aree implicate nell’esecuzione delle prove. I supertaskers mostravano una minore attività ai livelli di difficoltà più elevati. L’analisi dettagliata dei reperti ha mostrato che i 16 iperdotati, quando le prove richiedevano un maggiore impegno, anziché presentare segni macroscopici del reclutamento di estese popolazioni neuroniche e gliali a sostegno di quelle ordinariamente impiegate, conservavano le configurazioni di base, al più presentando variazioni minime. Un simile dato potrebbe indicare l’esistenza di condizioni per un’efficienza di elaborazione notevolmente superiore alla norma, che consentirebbe prestazioni più elevate col minimo sforzo.

Poiché non è chiaro, in generale, quanto l’aumento di attività cerebrale al crescere delle difficoltà sia dovuto a reclutamento di unità cognitive a supporto della specifica attività richiesta e quanto sia espressione di una reazione poco ordinata alla pressione esercitata dal sovraccarico mentale e accostabile a una risposta da stress, si comprende che Strayer e Watson possano interpretare il dato come indice di freddezza esecutiva. I due ricercatori della University of Utah infatti affermano che le persone iperdotate sembrano avere la giusta competenza e l’esperienza per “tenere il cervello freddo sotto un pesante carico, proprio come si dice che facciano i piloti da combattimento nelle situazioni che lo richiedono” (Strayer e Watson, 2012).

Ma le maggiori differenze rilevate in questo studio fra iperdotati e normodotati riguardano tre aree frontali alle quali, già in passato, la ricerca neuropsicologica sull’abilità di eseguire più compiti aveva riconosciuto importanza: la corteccia del polo frontale, la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia cingolata anteriore.

Fra queste regioni, quella che per motivi filogenetici ed anatomo-clinici è in assoluto la più interessante è la corteccia frontopolare.

 

[continua]

 

Giuseppe Perrella

 (trascrizione di Lorenzo L. Borgia)

BM&L-14 aprile 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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