Alterata funzione del talamo nella schizofrenia

 

 

GIUSEPPE PERRELLA E GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X – 17 marzo 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La schizofrenia, spesso descritta come il più grave dei disturbi psichiatrici per l’entità dello sconvolgimento delle funzioni psichiche che produce e per le caratteristiche del suo decorso, è oggetto di studi sistematici e rigorosi, sia pure con diverse metodologie, fin dal XIX secolo, ma solo da qualche decennio le sue manifestazioni sintomatiche sono state ricondotte ad una base neuropatologica di alterazioni morfo-funzionali del cervello. L’impiego di modelli sperimentali, i progressi della genomica e della proteomica, lo studio in vivo dei pazienti mediante metodiche per il rilievo di neuroimmagini funzionali (PET e fMRI), hanno consentito di accertare numerose alterazioni al livello molecolare, cellulare e dei sistemi neuronici, tuttavia non è ancora possibile tracciare un quadro tipico e complessivo della fisiopatologia schizofrenica. Per riuscire in questo intento sarà necessario ottenere ancora una grande mole di dati e, probabilmente, l’organizzazione coerente dei risultati suggerirà criteri di descrizione e classificazione fondati sulla neuropatologia e, pertanto, diversi da quelli esclusivamente sintomatologico-clinici attualmente adottati in psichiatria.

Intanto, numerose linee di evidenze sperimentali sembrano convergere nell’indicare una disfunzione nel talamo, nodo cruciale e stazione sottocorticale principale per numerose reti neurali distribuite, responsabili dell’elaborazione della percezione, della cognizione e delle emozioni. Una tale “pista talamica” per la ricerca sembra molto promettente, alla luce del fatto che il cervello delle persone affette da schizofrenia sembra presentare una specifica disfunzione prefrontale. Il rilievo di tale deficit di funzionamento corticale, che ormai costituisce orientamento, traccia o riferimento per numerosi programmi sperimentali, da quelli di biologia molecolare a quelli di diagnostica per immagini, aveva già fatto ipotizzare una partecipazione del talamo, che riceve le fibre di tutte le vie sensitive e sensoriali dirette alla corteccia, e dalla quale riceve uno dei maggiori contingenti di assoni in uscita. Ricordiamo che il complesso delle connessioni talamo-corticali reciproche e rientranti, definito nucleo dinamico da Gerald Edelman, si ritiene abbia un ruolo cruciale nella coscienza, nei ritmi sonno-veglia, nella cognizione e in molti altri aspetti della vita psichica.

Le evidenze sperimentali, che suggeriscono una funzione talamica aberrante nella schizofrenia, sono basate su misure indirette dell’attività dei neuroni del talamo, ma fino ad oggi la disfunzione non è stata direttamente dimostrata con un metodo causale. Guller e collaboratori del Neuroscience Training Program, Health Emotions Research Institute, e di altri istituti della University of Wisconsin Madison, hanno provato a fornire questa dimostrazione (Guller Y., et al. Probing Thalamic Integrity in Schizophrenia Using Concurrent Transcranial Magnetic Stimulation and Functional Magnetic Resonance Imaging. Arch Gen Psychiatry [Epub ahead of print, Mar 5], 2012).

La professoressa Nicole Cardon, nel proporre alla nostra attenzione questo lavoro realizzato da un gruppo di ricerca della Wisconsin Madison di cui fa parte Giulio Tononi, a lungo collaboratore di Gerald Edelman, ci ha suggerito di far precedere il testo della recensione da una introduzione sulla schizofrenia, con l’intento di aiutare coloro che non abbiano una specifica formazione psichiatrica a meglio comprendere, apprezzare e contestualizzare il senso di questi esiti sperimentali. Abbiamo accettato volentieri il suggerimento, fornendo soprattutto qualche dato storico sull’evoluzione del concetto, che aiuta a rendersi conto di quanto l’intuizione di Bleuler della perdita delle connessioni fisiologiche fosse più vicina all’interpretazione attuale dell’origine dei sintomi, della maggior parte delle ipotesi sviluppate nei decenni successivi.

 

Introduzione e cenni storici. La schizofrenia, che secondo i maggiori studi epidemiologici avrebbe una prevalenza fra lo 0,5% e l’1,5%, presenta sintomi caratteristici che la semeiotica psichiatrica tradizionale ripartisce in tre gruppi: sintomi positivi, sintomi negativi e disturbi della cognizione. Rimandando ai manuali di clinica psichiatrica per una trattazione dettagliata, ricordiamo solo le nozioni essenziali. Per sintomo positivo si intende una produzione del sistema nervoso assente in condizioni normali, o un eccesso distorto di un’espressione fisiologica. Per sintomo negativo si intende l’assenza o la riduzione di un processo o di una manifestazione fisiologica.

I sintomi positivi sono i più drammatici e fenomenicamente evidenti nelle fasi acute, e consistono soprattutto nelle allucinazioni e nei deliri, ai quali si aggiungono manifestazioni comunicative, quali una marcata disorganizzazione dell’eloquio, o motorio-comportamentali come la catatonia o la progressiva perdita di organizzazione dei movimenti e delle azioni finalizzate. Alcuni fanno rientrare in questo novero i manierismi gestuali le stereotipie di moto.

Le allucinazioni, più spesso uditive, ma anche visive, tattili, gustative ed olfattive, consistono in percezioni in assenza dello stimolo, ossia dell’oggetto della percezione, e si distinguono dalle illusioni che consistono in distorsioni interpretative di uno stimolo percepito. Esempio del primo caso è l’udire voci che pronunciano parole in assenza di stimoli uditivi simili per frequenza; esempio del secondo caso è credere di riconoscere delle parole nel suono delle campane.

I deliri consistono in formulazioni del pensiero atipiche e distanti dal senso comune e dal contesto razionale, non soggette a correzione mediante critica o per effetto di una evidenza che le confuti. I deliri possono essere strutturati in una forma che conserva una certa plausibilità (“sono pedinato da ladri che cercano il momento opportuno per derubarmi”), oppure apparire totalmente destrutturati (deliri illogici) oltre che irrealistici (“gli alieni mi vogliono avvelenare il caffè mettendo il veleno nei miei termosifoni”).

I sintomi negativi includono anaffettività o ipoaffettività e scarsa percezione del piacere, mancanza di iniziativa o di atteggiamento attivo in risposta alle circostanze della vita, fino all’abulia. Un altro sintomo negativo importante è l’alogia, termine con il quale si intende un difetto di logos, ossia di linguaggio-pensiero, ovvero una povertà ideativa che si traduce in un deficit di espressione verbale.

I disturbi della cognizione si rendono evidenti alle valutazioni formali delle prestazioni intellettive, ed includono alterazioni dell’attenzione, riduzione della memoria dichiarativa verbale, perdita di abilità necessarie al problem-solving, marcata riduzione della fluenza verbale con allungamento dei tempi per la rievocazione di parole. E’ interessante notare che la valutazione dei disturbi cognitivi, insieme con quella dei sintomi negativi, fornisce un indice prognostico più affidabile di quello desumibile dal giudizio clinico dei sintomi positivi.

Nessun sintomo da solo, nemmeno, ad esempio, un delirio illogico e proiettivo strutturato su delle allucinazioni consistenti in voci che minacciano o suggeriscono il paziente, può essere ritenuto patognomonico di schizofrenia, e la diagnosi si pone valutando una costellazione di sintomi in rapporto a vari altri parametri, come quelli temporali e di relazione reciproca, alla luce di un giudizio di significatività che può maturare solo attraverso un’esperienza di conoscenza diretta di molti pazienti affetti da questo e da altri disturbi clinicamente simili.

Per quanto riguarda le forme cliniche, oggi si tende ad adottare la classificazione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM-IV-TR) che, nella tabella seguente, dove sono indicati anche i codici della classificazione internazionale adottata dall’OMS, poniamo a confronto con le denominazioni impiegate in precedenza ed ancora conservate da alcune scuole di psichiatria in Europa.

 

 

DSM-IV-TR

ICD-10

CLASSICA

F20.0x  Tipo Paranoide

[295.30]

(Schizofrenia Paranoide)

F20.1x  Tipo Disorganizzato

[295.10]

(Schizofrenia Ebefrenica)

F20.2x  Tipo Catatonico

[295.20]

(Schizofrenia Catatonica)

F20.3x  Tipo Indifferenziato

[295.90]

(Schizofrenia Simplex)

F20.5x  Tipo Residuo

[295.60]

(F. minore o in remissione)

 

 

Veniamo ora ai cenni storici sulla nascita e sull’evoluzione del concetto di schizofrenia.

Fu il celebre psichiatra e nosografista Kraepelin ad elaborare per primo una concezione unitaria di tutte le forme di disturbo psichiatrico caratterizzate da compromissione delle funzioni psichiche di base che contribuiscono a definire la personalità del soggetto, la sua coerenza affettiva e la sua efficienza cognitiva. Kraepelin intuì che alcune sindromi descritte dai maggiori psichiatri dell’epoca potevano essere comprese in una sola categoria nosografica sulla base della comune evoluzione verso la perdita complessiva e generalizzata delle funzioni psichiche. Aveva infatti notato che i pazienti affetti da oscillazione bipolare maniaco-depressiva, pur presentando deliri ed alterazioni della percezione, non andavano incontro a quel grave decadimento delle facoltà psichiche che sembrava essere l’esito inevitabile di ben quattro quadri clinici diversi. Fra questi, vi era la psicosi descritta in un giovane, nel 1860 dallo psichiatra belga Morel, con il nome di dementia praecox (o demence précoce)[1].

Così Kraepelin, nel suo celebre Trattato delle Malattie Mentali (1890-1907), adottando la definizione di “demenza precoce”, riunì in una sola categoria diagnostica la catatonia descritta da Kahlbaum, l’ebefrenia, già in parte descritta da Hecker, allievo di Kalhbaum, e la vesania tipica, pure descritta da Kahlbaum, come una sindrome caratterizzata da allucinazioni uditive e deliri di persecuzione, che potremmo identificare con la forma paranoide della schizofrenia. La costituzione della nuova categoria era giustificata in base a due elementi comuni: il disturbo dell’affettività, espresso come indifferenza, apatia o sentimenti paradossali, e un indebolimento psichico progressivo (Verblödung).

Bleuler accettò l’impostazione nosografica di Kraepelin, ma si rese conto che l’elemento caratterizzante questa sindrome non consisteva nel dato quantitativo di un decadimento mentale determinato da una progressiva perdita di risorse psichiche come accadeva nelle demenze ma, piuttosto, si esprimeva nell’alterazione qualitativa dell’esperienza psichica e del comportamento. Per la verità, molti osservatori dell’epoca, fra cui Chaslin, Seglas e Stransky, notarono già fra il 1905 e il 1910 che le persone incluse nella nuova diagnosi si caratterizzavano più per una disgregazione della personalità, per una perdita di coesione e coerenza interiore, che per un indebolimento intellettivo progressivo e irreversibile.

Bleuler ritenne di aver identificato un processo patologico fondamentale alla base di tutta la sintomatologia di questi pazienti, consistente nella perdita della funzione di associazione che garantisce le sintesi necessarie alle singole facoltà psichiche. La perdita di continuità associativa o, per usare la formula impiegata dallo stesso Bleuler nel celebre saggio del 1911, “l’allentarsi delle associazioni”, determina una scissione nella mente: una schizofrenia.

Oltre ad aver dato alla sindrome il nome che ancora oggi impieghiamo, Bleuler diede un contributo alla comprensione dello psichismo schizofrenico introducendo il concetto di autismo, quale forma di funzionamento mentale autoreferenziale, limitato entro confini intrapsichici che sembrano prevalere sul mondo esterno. Oltre all’autismo, ritenne si dovessero rilevare altri tre sintomi per comporre la tetrade sindromica necessaria per la diagnosi: ambivalenza, ipoaffettività e disturbi della volizione. E’ interessante ricordare che Bleuler fu fra i primi ad impiegare il simbolismo freudiano nella discussione interpretativa dei processi psichici che emergevano dallo studio dei pazienti. Questa traccia fu per alcuni una falsa pista, che indusse psichiatri come Meyer a ritenere che in un cervello privo di alterazioni la “reazione schizofrenica” potesse svilupparsi quale prodotto di un particolare esito psicodinamico in un vissuto costellato da “cattive abitudini” e “sotterfugi volgari e innocui”, non interpretati come prodromi dei sintomi, ma quali cause dei sintomi stessi. In altri termini, si cadeva nel più antico e banale degli errori popolari, ossia quello di attribuire alle manifestazioni delle malattie mentali il ruolo di causa del disturbo.

Ricordiamo che in un articolo pubblicato nel 1896, Freud impiegò per la prima volta il termine “proiezione” e propose la spiegazione di questo processo come meccanismo di difesa consistente nell’attribuzione ad altri di un proprio contenuto psichico inconscio, proprio nello studio di un paziente al quale fu poi diagnosticato il tipo paranoide della “demenza precoce” di Kraepelin. Si possono anche ricordare altre applicazioni da parte di Freud del metodo psicoanalitico all’interpretazione di stati psicotici; tuttavia, si deve tener presente che il padre della psicoanalisi dedicò tutta la vita allo studio delle nevrosi, riservando alle psicosi un interesse molto limitato. In particolare, si può osservare che in alcuni casi se ne occupò solo per effetto di un errore di fondo, ad esempio quando interpretò la schizofrenia, sulla base di un’esperienza clinica molto limitata di pazienti psicotici, come “nevrosi narcisistica”. Fu Carl Gustav Jung, nel suo saggio del 1906 intitolato Psicologia della demenza precoce, ad applicare in modo sistematico criteri e concetti psicoanalitici all’interpretazione della schizofrenia, sulla base di semplici intuizioni personali presentate mediante l’elaborazione di analogie suggestive. Ad esempio, scrisse: “Se colui che sogna agisse e si movesse come se fosse sveglio, avremmo immediatamente il quadro clinico della demenza precoce” (op. cit., 1906). Jung sostenne che i deliri, le allucinazioni e gli altri sintomi della schizofrenia fossero causati da “un gruppo di idee che, per la loro carica emotiva patologica, erano state rimosse dalla coscienza e mantenevano un’esistenza più o meno indipendente” (v. in Arieti, 1969).

Anche se la psicoanalisi e la fenomenologia hanno ampliato molto l’orizzonte culturale degli psichiatri ed accresciuto la prassi di approfondire la conoscenza psicologica ed umana delle persone affette da disturbo psichico, il riferimento costante e rigido a congetture interpretative considerate alla stregua di teorie scientifiche provate e generalizzabili, e la loro applicazione spesso passiva e pedissequa alla realtà clinica, ha isterilito l’osservazione riducendola sempre più ad una pratica di rilievo di compatibilità con stereotipi predefiniti ai quali si attribuiva rilievo patogenetico se non eziologico, in tal modo rallentando il progresso nello studio scientifico delle cause delle psicosi. Danni sono venuti anche dalla formulazione di altre congetture elaborate a prescindere da osservazioni scientifiche o derivanti da applicazioni improprie di teorie comportamentiste della comunicazione: fino a un decennio fa vi erano ancora psichiatri che attribuivano lo sviluppo delle psicosi a una patologica interazione madre-bambino o ad una comunicazione familiare deviante.

Il cambio generazionale e la costituzione, con la nascita delle neuroscienze, di un unico, grande campo di comunicazione, scambio ed integrazione fra discipline, tecniche e metodi di ricerca diversi e sempre più specializzati, ha consentito al cammino delle conoscenze di riprendere la sua marcia. L’ereditabilità, le alterazioni neurochimiche e quelle dell’hardwiring dei sistemi neuronici dell’encefalo, costituiscono attualmente una base di dati sperimentali che non può più essere ignorata da alcuno che voglia studiare le cause di questo grave disturbo, e non può essere posta in alternativa, quasi si trattasse di un’opinione e non di fatti, con costruzioni interpretative proposte nel recente passato e spesso fondate unicamente sull’intuito e sull’abilità inventiva degli autori e, frequentemente, accettate per effetto della verosimiglianza e dell’efficacia persuasiva e suggestiva delle argomentazioni addotte a sostegno.

Oggi è nota l’ereditabilità come tratto genetico complesso che determina una concordanza fra gemelli del 50%, che raggiunge il 60% nei monozigoti, e scende al 10% nei parenti di primo grado e al 3% in quelli di secondo grado. Percentuali compatibili con il profilo di una condizione ad eredità complessa nella quale molti geni di effetto limitato interagiscono determinando il fenotipo. Le analisi di associazione hanno identificato elementi di rischio ipotetico in alleli di geni implicati nello sviluppo del cervello, nella neurotrasmissione e nella mielinizzazione del sistema nervoso centrale. Ma per molti di essi, gli studi di associazione estesi all’intero genoma, non hanno confermato la qualità di “geni di rischio”, evidenziando invece un’aumentata probabilità di sviluppo della schizofrenia per particolari varianti del numero di copie di date regioni del DNA (copy number variants).

I limiti di spazio che ci sono imposti in questa introduzione sulla schizofrenia, non ci consentono di illustrare le acquisizioni nel campo della neurochimica e, più in generale, della biologia e patologia cellulare e molecolare, per cui ci limitiamo a ricordare che, dopo quarant’anni dominati dall’ipotesi della centralità della dopamina, l’attenzione si è rivolta all’ipofunzione dei recettori NMDA del glutammato, quale tratto dell’endofenotipo del disturbo, e poi alle alterazioni dei neuroni GABAergici, del sistema colinergico, delle molecole di segnalazione intracellulare, delle proteine strutturali e funzionali del neurone e, più di recente, della glia.

Per ciò che concerne l’alterazione dello schema delle connessioni cerebrali fondamentali per l’attività psichica, gli studi sono solo all’inizio e proprio la definizione di un pattern cortico-talamico patologico, potrebbe fornire un contributo di importanza decisiva per questi studi.

 

Prove della disfunzione talamica. Esaurita questa esposizione introduttiva allo studio della schizofrenia, breve se la si rapporta a una trattazione esaustiva di questo argomento, ma certamente troppo lunga se la si considera una premessa alla recensione del lavoro condotto da Guller e colleghi, passiamo a considerare i tratti salienti di questa ricerca.

L’obiettivo principale del lavoro consiste nella verifica dell’ipotesi secondo cui una stimolazione diretta della corteccia cerebrale in persone affette da schizofrenia produrrebbe una risposta talamica anomala.

Il disegno sperimentale, realizzato nel setting di un laboratorio di ricerca accademico, è consistito nell’erogazione di uno stimolo alla corteccia cerebrale di volontari, sia diagnosticati di schizofrenia sia privi di disturbi psichiatrici, mediante un apparecchio per TMS (transcranial magnetic stimulation), e nello studio contemporaneo delle risposte nelle regioni sinapticamente connesse, mediante un tomografo per risonanza magnetica funzionale (fMRI).

I ricercatori hanno stimolato con TMS in singolo impulso (spTMS) la circonvoluzione precentrale di tutti i partecipanti, costituiti da un gruppo di pazienti schizofrenici a ciascuno dei quali faceva riscontro un soggetto sano della stessa età e dello stesso sesso fungente da controllo, ed hanno esaminato con la fMRI la corteccia frontale mediale superiore, il talamo e l’insula di Reil in qualità di regioni maggiormente connesse con l’area stimolata. La risposta emodinamica media proveniente da queste regioni corrispondeva alla somma di 2 funzioni gamma.

Le risposte evocate dall’impulso spTMS nel sito di stimolazione corticale non facevano registrare differenze fra pazienti schizofrenici e persone sane del gruppo di controllo. Al contrario, evidenti diversità sono emerse nelle aree connesse con la corteccia prefrontale. In particolare, è stata rilevata una ridotta risposta funzionale nel talamo (P = 1.86 x 10 (-9)) e nella corteccia frontale mediale superiore (P = .02); simili risultati sono stati registrati in corrispondenza dell’area dell’insula. Una TMS simulata ha consentito di escludere l’origine spuria di questi effetti.

Guller e colleghi hanno poi eseguito l’analisi della connettività funzionale, che ha rivelato negli schizofrenici un collegamento neurofisiologico più debole, rispetto ai soggetti di controllo, fra il talamo e la corteccia prefrontale mediale superiore e fra il talamo e l’insula.

Concludendo, la diretta stimolazione della corteccia cerebrale nelle persone affette da schizofrenia ha rivelato un’attivazione talamica ridotta, così confermando ed estendendo i risultati di precedenti studi che implicavano il talamo nella fisiopatologia della schizofrenia, e suggerendo che le connessioni talamiche contribuiscono ai patterns di connettività aberrante caratteristici di questo grave disturbo mentale.

 

Gli autori della nota invitano alla lettura delle oltre 40 recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito). Per il riferimento bibliografico completo delle citazioni in parentesi nel testo inviare e-mail di richiesta all’attenzione della dottoressa Floriani all’indirizzo brain@brainmindlife.org.

 

Giuseppe Perrella & Giovanni Rossi

BM&L-17 marzo 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Per una introduzione con cenni storici sulla schizofrenia e una discussione su aspetti non trattati in questo testo, si veda in “Note e Notizie 22-12-07 Una scoperta nella patogenesi della schizofrenia”.