La vita straordinaria di Renato Dulbecco
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 25 febbraio 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: BREVE
BIOGRAFIA]
Voglio
rivolgere, anche a nome della nostra società scientifica, il mio estremo,
addolorato e commosso saluto a un gentiluomo della ricerca, che è stato
operoso, volitivo e coraggioso esempio di intelligenza e modello di integrità
morale. Non devo giustificarmi se dalle pagine del sito neuroscientifico per
eccellenza spendo qualche parola per tenere vivo il ricordo di uno scienziato
che nel 1975 ha ricevuto il Premio Nobel per studi di genetica oncologica,
perché la grandezza di Renato Dulbecco non può essere certo confinata
all’ambito disciplinare nel quale si è esercitato l’ingegno del ricercatore, ma
è quella di una figura che può essere proposta alle giovani generazioni nell’esemplarità
umana di valori realizzati. Non vi sembri una giustificazione, così come a me
non sembra sia stato un caso, che la sua storia biografica si sia intrecciata
in due momenti cruciali con quella di Rita Levi-Montalcini, la madre nobile
delle neuroscienze italiane.
La
mattina dello scorso 20 febbraio abbiamo ricevuto il triste annuncio della
scomparsa dello scienziato, avvenuta nella notte, a La Jolla, in California,
dove viveva da quando era tornato al Salk Institute, del quale era già stato
presidente dal 1998 al 1992.
Di
padre ligure e madre calabrese, Dulbecco nasce a Catanzaro il 22 febbraio del
1914, ma vi rimane pochi mesi, perché allo scoppio della guerra del 1915-18 il
padre fu chiamato alle armi e, così, la famiglia si trasferì a Cuneo e poi a
Torino. I suoi primi ricordi di bambino, di scuola e di vacanza, sono della
Liguria, di Imperia, dove dalla fine della Prima Guerra Mondiale si stabilì la sua
famiglia. Amava ricordare l’infanzia in quella terra alla quale sentiva di
appartenere; ed amava anche ricordare di essere sempre stato un po’ speciale,
fin da piccolo: una sorta di bambino prodigio.
A
soli 16 anni completava il liceo classico al “De Amicis” di Imperia e si iscriveva
alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino, pur amando la
matematica e la fisica almeno quanto le scienze biologiche. Entrato
all’Istituto di Anatomia Umana come allievo interno di Giuseppe Levi, che gli
insegnò i metodi istologici e i rudimenti di coltura cellulare, conobbe altri
due studenti di qualche anno più grandi di lui: Salvador Luria e Rita
Levi-Montalcini. La qualità degli studi condotti in quel laboratorio e lo
straordinario valore dell’insegnamento di Levi sono provati dal fatto che tutti
e tre gli allievi hanno ottenuto il Premio Nobel: nessun altro laboratorio
italiano, purtroppo, può fregiarsi di una simile gloria.
Durante
gli anni dell’Università, Dulbecco era considerato il più bravo del corso,
sebbene avesse almeno due anni meno dei suoi colleghi. Laureatosi in medicina e
chirurgia con una tesi in anatomia patologica nel 1936, a soli 22 anni, fu
chiamato a prestare servizio di leva come ufficiale medico. Finita la ferma
militare, nel 1938 poté ritornare alla patologia, ma solo per poco tempo,
perché fu richiamato alle armi allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Inviato prima al fronte francese, fu poi mandato in Russia e da qui, dopo una
lunga ospedalizzazione seguita ad un’offensiva russa del 1942, fu rimandato a
casa. Quando cadde il governo Mussolini e l’esercito tedesco occupò gran parte
del Nord Italia, Dulbecco si nascose in un piccolo paesino del Piemonte dove,
come medico dell’unità partigiana, partecipò alla resistenza. In quel periodo,
riprese a frequentare l’Istituto di Anatomia Patologica dove ebbe modo di
svolgere attività clandestine a supporto della liberazione nazionale con
l’illustre anatomopatologo Giacomo Mottura. Divenne membro del Comitato di
Liberazione Nazionale della città di Torino dove, dopo la guerra, fu eletto consigliere
comunale; ma presto, rendendosi conto di non tollerare la routine politica, decise di tornare agli studi scientifici e alla
ricerca. Seguendo le sue inclinazioni, frequentò corsi di fisica per due anni,
acquisendo nozioni che gli sarebbero tornate di grande utilità per le tecniche
biofisiche che avrebbe impiegato in seguito. Ma, il richiamo per la nuova
biologia che studiava le molecole responsabili della trasmissione dell’eredità,
prevalse e decise di ritornare al laboratorio del professor Levi. Cominciò,
così, a collaborare con Rita Levi-Montalcini, la quale lo incoraggiò molto
nell’intraprendere la via che gli avrebbe consentito di realizzare un suo
sogno, ossia studiare la genetica degli organismi più semplici, possibilmente
impiegando le radiazioni.
Questo
sogno divenne realtà quando Salvador Luria, che lavorava proprio in quel campo
e durante tutto il periodo bellico era rimasto negli USA, ritornò a Torino da
esperto di virus che infettano i batteri, i batteriofagi
o fagi, di cui aveva studiato la
struttura e compreso a fondo la biologia, fornendo una definizione di questi
microrganismi, subito adottata in tutto il mondo: “parassiti a livello
genetico”.
La
guerra, che aveva portato distruzione materiale e morale in Europa, non aveva
consentito agli scienziati superstiti del Vecchio Continente di vivere il
momento straordinario che attraversava la ricerca negli USA: nel 1944 i coniugi
Avery avevano compiuto l’esperimento cruciale, conosciuto come esperienza di Avery, che aveva
consentito di identificare il DNA come il materiale genetico della cellula.
Un’acquisizione che avrebbe cambiato per sempre il modo di concepire lo studio
degli organismi viventi, gettando le basi per la nascita della genetica
molecolare e della biologia molecolare. Questo risultato fu possibile anche
grazie agli studi sui batteriofagi.
Luria,
conosciute le intenzioni di Dulbecco, nell’estate del 1946 lo invitò ad unirsi
al suo gruppo e gli offrì un piccolo stipendio per la collaborazione. La Montalcini
ebbe un peso decisivo nella sua scelta di seguire Luria: la neuroscienziata ante litteram stava preparando il suo
viaggio in America per andare a lavorare con Victor Hamburger a St. Louis, e
così indusse Dulbecco, nell’autunno del 1947, ad imbarcarsi per gli Stati Uniti,
e a proseguire per Bloomington, nello stato dell’Indiana, dove avrebbe
condiviso con Luria un piccolo laboratorio in un sottotetto, e presto sarebbe
stato raggiunto da Jim Watson. Dulbecco ha varie volte ricordato le lunghe
chiacchierate con la Montalcini sul ponte della nave che li avrebbe condotti,
oltre i loro sogni, al compimento di un destino così luminoso. Mai, quando si
erano conosciuti, i “tre ragazzi del professore Levi” avrebbero immaginato di
giungere a compiere scoperte tali da lasciare una traccia indelebile nella
storia delle scienze biomediche.
A
Bloomington, nel giro di un anno, Dulbecco ottenne buoni risultati applicando
le sue conoscenze matematiche alla genetica, e scoprì la foto-riattivazione dei
batteriofagi inattivati dalla luce ultravioletta. Questo risultato attrasse
l’attenzione di Max Delbrück, che gli offrì di lavorare col suo gruppo presso
il già prestigioso Caltech di Pasadena.
Nel
1949, con un viaggio memorabile dall’Indiana alla California in auto con la sua
famiglia, Dulbecco raggiunse il laboratorio di Delbrück. Quel viaggio fu una tappa
importante nel percorso che lo portò a conoscere ed amare il paese che lo
ospitava e che gli stava offrendo opportunità impensabili in Italia. Così si
esprime nell’autobiografia scritta per la Nobel Foundation: “Ero affascinato
dalla bellezza e dall’immensità degli Stati Uniti e dalla gentilezza del suo
popolo. Raggiungere l’Oceano Pacifico nell’Oregon fu come arrivare in un nuovo
mondo, un’impressione che continuò e crebbe quando ci dirigemmo a sud verso
Pasadena. Decisi allora che non mi sarebbe piaciuto vivere in nessun altro
posto del mondo…”.
Al
Caltech continuò a lavorare sui virus dei batteri per alcuni anni, accumulando
conoscenza ed esperienza che gli avrebbero consentito, se non altro, di
ripetere gli stessi esperimenti con altri tipi di virus, come quelli che
infettano gli animali e nel cui novero sono compresi gli agenti patogeni di
molte malattie umane. Un giorno, Delbrück gli comunicò che un ricco cittadino aveva
donato al loro istituto una ingente somma di danaro per finanziare la ricerca
nel campo dei virus animali e gli chiese se fosse interessato. La formazione
medica e l’esperienza maturata nel laboratorio di Levi costituivano una
preparazione sufficiente per accettare la sfida e per indurlo ad iniziare
questa nuova avventura di conoscenza. Visitò i maggiori centri americani per lo
studio dei virus, dopodiché decise di cercare il modo di testare i virus
animali mediante una tecnica basata sull’impiego di una piastra, simile a
quella adoperata per i batteriofagi, usando colture cellulari.
In
meno di un anno mise a punto tale metodo, che consentì il lavoro quantitativo
nel campo della virologia animale. Proprio impiegando questa tecnica, poté
scoprire le proprietà biologiche del poliovirus.
In proposito, si ricorda che una variante del poliovirus da lui identificata nel 1955 fu impiegata da Sabin per
il suo vaccino antipolio. Questi successi gli valsero l’incarico di professore
associato, che presto fu mutato nella posizione corrispondente a quella del
nostro professore ordinario. Intanto, nel 1953, Dulbecco aveva acquisito la
cittadinanza americana.
L’interesse
nel campo dei virus che causano tumori e sono perciò detti oncogeni, che lo portò al Nobel, nacque dal lavoro condotto da due
allievi: un suo studente, Howard Temin, e un postdoctoral fellow del suo laboratorio, Harry Rubin. I due giovani
studiavano il virus del sarcoma di Rous. In tempi brevissimi Dulbecco avviò
questo tipo di ricerca e, nel 1958, cominciò a studiare un virus oncogeno molto
interessante: il poliomavirus.
L’intenso
lavoro che condusse in quel periodo, lo portò a scoprire molti aspetti dell’interazione
del poliomavirus e dell’SV40 con la cellula ospite nell’infezione litica e nella trasformazione.
E’ importante ricordare che in quegli anni si riteneva che i virus oncogeni
danneggiassero il DNA della cellula ospite e svanissero, si diceva, “come un
pirata della strada che arreca un danno e scappa”. Ma Dulbecco e collaboratori
scoprirono un ben diverso meccanismo dell’azione patogena. Inizialmente,
rilevarono la presenza di una molecola distintiva, detta antigene T, dove “T” sta per “tumorale”, presente nelle cellule
infettate o uccise dal virus. In seguito, l’antigene
T fu identificato con DNA virale
integrato nel genoma della cellula ospite. Il passo successivo consistette
nella comprensione del ruolo svolto dai geni del virus oncogeno nel materiale
genetico della cellula parassitata: tali geni attivano quelli necessari alla
proliferazione cellulare, che in assenza di segnali di arresto procede
indefinitamente.
Nel
1960 Dulbecco aveva già concluso la sperimentazione grazie alla quale la
Commissione di Stoccolma decise quindici anni più tardi di tributargli il
massimo riconoscimento, e nel 1962 si trasferì al Salk Institute dove, con la
collaborazione della seconda moglie, Maureen, avviò una nuova e intensa
attività sperimentale. Dieci anni più tardi ebbe, dall’Imperial Cancer Research
Fund Laboratories di Londra, la possibilità di lavorare nel campo dei tumori
umani e così, nel 1972, si trasferì in Inghilterra.
Nel
1975 gli fu conferito il Premio Nobel in condivisione con David Baltimore e con
il suo ex-allievo Howard Martin Temin, con questa motivazione: “Per le loro
scoperte concernenti le interazioni fra i virus oncogeni e il materiale
genetico della cellula”.
Intanto,
il suo interesse si era spostato dai meccanismi molecolari della trasformazione
delle cellule sane in cellule cancerogene da parte di virus - ovvero un
processo che molto di rado è all’origine di tumori nella realtà epidemiologica
e clinica - all’eziopatogenesi delle forme di cancro che si sviluppano senza
una causa apparente: l’argomento principe della ricerca oncologica. Scelse di
occuparsi dei tumori del seno, concentrandosi su un sistema-modello costituito
dalle neoplasie maligne della ghiandola mammaria indotte nei ratti.
Pur
continuando a lavorare a questo importante problema oncologico, nel 1977 decise
di lasciare l’istituto londinese per tornare al Salk Institute in California
dove, con alcuni collaboratori, ritenne che sarebbe stato necessario conoscere
quanto più possibile i meccanismi cellulari e molecolari dello sviluppo normale
della ghiandola mammaria, per capire cosa accadeva esattamente nella perdita di
differenziazione e nella proliferazione anaplastica del cancro.
Questa
ricerca, sebbene di minore risonanza, produsse risultati biologicamente
rilevanti. Usando anticorpi monoclonali, Dulbecco e collaboratori poterono
identificare e distinguere vari tipi cellulari ed ipotizzare ruoli specifici per
ciascun tipo nello sviluppo della ghiandola mammaria.
L’esperienza
maturata in questo lavoro ebbe notevole importanza teorica, perché mostrò tutti
i problemi e gli ostacoli esistenti per la definizione di tipi cellulari e ruoli
funzionali di popolazioni distinte in base a varie caratteristiche, sia nello
sviluppo normale sia nella carcinogenesi. Questi studi condotti a metà degli
anni Settanta indussero Dulbecco a ritenere che fosse necessario compiere ogni
sforzo per conoscere i geni attivi
nelle popolazioni cellulari studiate; il punto di partenza per questa impresa
immane sarebbe stata la determinazione del corredo completo di geni posseduti
da una specie. L’idea, ritenuta irrealizzabile da molti, fu presentata
ufficialmente alla comunità scientifica internazionale da Renato Dulbecco in
due conferenze, tenute nel 1985 e nel 1986, nel corso delle quali suggerì
l’avvio di un “Progetto Genoma”.
Le
sue convincenti perorazioni non ottennero risultati immediati, anzi da parte di
alcuni autorevoli genetisti furono avanzate molte riserve, ad esempio
sull’opportunità di investire tanto danaro e tanti sforzi in un’impresa che
rischiava di non poter essere mai portata a termine, e sull’effettiva utilità
di avere una simile mappa, considerate le dimensioni spesso imponderabili del
polimorfismo genetico. Allora, sempre nel 1986, Dulbecco decise di scrivere, a
sostegno del “Progetto Genoma”, un articolo che fu pubblicato dalla maggiore
rivista scientifica americana: Science.
La risonanza questa volta fu immediata: sulle prime prevalsero i pareri
negativi, ma poi, in breve, la maggior parte dei ricercatori più autorevoli si
schierò a favore dell’iniziativa.
Nel
1992, quando Dulbecco era Presidente del Salk Institute, il CNR gli chiese di
organizzare un “Progetto Genoma” in Italia. L’adesione entusiastica alla
richiesta e il grande impegno profuso dallo scienziato negli anni seguenti,
durante i quali fece la spola fra La Jolla e Milano, non trovarono un riscontro
adeguato e l’impresa si risolse in una grande delusione. Al riguardo, così si
legge nella citata autobiografia: “Il Progetto italiano ha prodotto qualche
risultato, ma è stato handicappato dall’isolamento dei ricercatori e dalla
limitazione di possibilità e finanziamenti. E’ venuto a termine dopo cinque
anni e non è stato rinnovato”.
Gli
studi di quegli anni gli consentirono di stabilire che le cellule staminali
della ghiandola mammaria sono implicate nella genesi del cancro.
Dulbecco
si spese molto, personalmente, per ottenere finanziamenti per la ricerca
italiana e accettò anche di partecipare, per un accordo intercorso con
Telethon, alla presentazione del Festival della Canzone Italiana di San Remo,
allo scopo di promuovere le donazioni spontanee per contribuire ad un fondo che
egli stesso aveva creato (il “Progetto Carriere Dulbecco”), per facilitare il
ritorno in patria di ricercatori italiani emigrati all’estero. Si fece leva
sulla sua passione per la musica: Dulbecco era un bravo pianista. Profondamente
deluso dalla scarsa considerazione in cui è tenuta la ricerca in Italia, nel
2005 annunciò tramite il sito web della Fondazione Nobel che, a partire
dall’inizio del 2006, sarebbero cessati i suoi viaggi in Italia: “I will give
up the Italian connections”, e non sarebbe mai più tornato, preferendo seguire
il lavoro in atto al Salk Institute e suonare il pianoforte nel tempo libero.
Rita
Levi-Montalcini, alla quale diceva di essere debitore per l’aiuto che gli aveva
dato nel definire precocemente i suoi obiettivi, ha ricordato l’amico e collega
come “uno dei più grandi protagonisti nella storia della medicina moderna del
’900 del nostro Paese e a livello internazionale”.
Ringrazio il Presidente della Società Nazionale di
Neuroscienze, Giuseppe Perrella, per avermi ricordato vari dati biografici ed
avermi segnalato alcune circostanze della vita di Renato Dulbecco di cui non
ero a conoscenza.