Per la malattia di Alzheimer una nuova possibilità terapeutica
NICOLE CARDON
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 18 febbraio 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
I peptidi beta-amiloidi (βA), per la loro importanza nella patogenesi della malattia
di Alzheimer, sono stati attentamente studiati e, come è noto, si è cercato a
fini terapeutici di prevenire la formazione di quelli costituiti da 42 o più
aminoacidi, in quanto tendenti ad aggregarsi e ad indurre una serie di reazioni
di importanza causale per la neurodegenerazione. I peptidi βA sono ottenuti dal clivaggio del
precursore dell’amiloide, ossia la proteina APP (amyloid precursor
protein), prima da parte della β-secretasi che produce un ectodominio solubile e un frammento
C-terminale legato alla membrana (β-CTF, da C-terminal fragment),
e poi dalla γ-secretasi, che agisce su β-CTF, producendo un dominio intracellulare e un peptide βA.
Gli
inibitori
della γ-secretasi[1] sono stati testati come farmaci
inibitori dell’amiloide, con notevoli
aspettative per i buoni risultati ottenuti negli animali da esperimento,
ma ai trials clinici si sono rivelati
molto deludenti, perché in alcuni casi inducevano peggioramento delle
prestazioni cognitive. In particolare, si deve tener conto del fatto che, se è
vero che l’inibizione dell’enzima riduce i peptidi tossici, è pur vero che
aumenta la quantità di β-CTF,
ossia della porzione di APP associata alla membrana, con indesiderabili effetti sulle sinapsi.
Uno
studio biochimico approfondito dell’enzima ha chiarito da tempo che la
scissione di β-CTF può avvenire in varie posizioni, creando peptidi di
differente lunghezza: le mutazioni della γ-secretasi associate alla malattia di Alzheimer aumentano la
produzione di βA42 che, come è noto, si è rivelato
particolarmente neurotossico. Per questo motivo, si è fatta strada l’idea che
riuscire a modulare l’attività dell’enzima in modo
tale da ridurre l’attacco nel punto del substrato che lascia un frammento di 42
aminoacidi, possa essere di utilità terapeutica e, pertanto, vari gruppi di
ricerca hanno avviato studi in funzione di questa ipotesi.
Mitani
e collaboratori hanno sperimentato un modulatore della γ-secretasi,
comparando i suoi effetti con quelli degli inibitori, ed hanno ottenuto
risultati di sicuro interesse per possibili applicazioni cliniche (Mitani Y., et al. Differential
Effects between γ-Secretase Inhibitors and Modulators on Cognitive Function in Amyloid
Precursor Protein-Transgenic and Nontransgenic Mice. The Journal of Neuroscience 32 (6), 2037-2050, 2012).
Gli
autori dello studio provengono dai Pharmacology Research Laboratories, Astellas
Pharma, Inc., Tsukuba, Ibaraki (Giappone).
In
sintesi: topi esprimenti una APP associata alla malattia di Alzheimer, assumendo
un modulatore dell’enzima γ-secretasi,
presentavano un netto miglioramento
ad una prova di memoria spaziale, generalmente impiegata per la verifica
dell’efficienza cognitiva dei roditori di laboratorio, a fronte di un esito
negativo prodotto dagli inibitori dell’enzima, che non determinavano, con le
somministrazioni sub-croniche, effetti positivi in quel ceppo di topi e
causavano un peggioramento delle prestazioni negli animali a genotipo naturale.
La
sperimentazione è stata condotta a partire dall’osservazione che, se è stata
estesamente studiata la capacità dei modulatori dell’enzima γ-secretasi di ridurre i peptidi
responsabili della precipitazione amiloide senza aumentare β-CTF, a
differenza degli inibitori, pochi sforzi sono stati finora prodotti per
verificare gli effetti dei modulatori sulla cognizione e, in particolare, sulle prestazioni che richiedono
integrità ed utilizzo di memorie di funzionamento. Allo scopo di studiare tali effetti, Mitani e colleghi
hanno comparato un modulatore (GSM) di seconda generazione, così descritto chimicamente: [{(2S,4R)-1-[(4R)-1,1,1-trifluoro-7-methyloctan-4-yl]-2-[4-(trifluoromethyl)phenyl]piperidin-4-yl}acetic
acid (GSM-2)], con due inibitori (GSI) di frequente impiego sperimentale: LY450139
(semagacestat) e BMS-708163.
Il
confronto fra gli effetti degli inibitori e del modulatore
sulla working memory spaziale di topi
APP-transgenici (Tg2576) e non transgenici, è stato effettuato mediante la
prova del labirinto-Y.
Mentre
il dosaggio acuto con entrambi i GSI migliorava il deficit mnemonico dei topi
Tg2576 di 5.5 mesi di età, il dosaggio sub-cronico dopo 8 giorni faceva
registrare la scomparsa di questi effetti positivi. La somministrazione in topi
Tg2576 di 3 mesi di entrambi i GSI, secondo
il protocollo di posologia sub-cronica, disturbava la cognizione normale degli animali, senza causare inibizione
dei processi di altri substrati della γ-secretasi, quali Notch, N-caderina
ed EphA4.
LY450139
è risultato in grado di alterare la cognizione anche dei topi a genotipo
naturale fungenti da gruppo di controllo; tuttavia, in questo caso, la potenza
era 10 volte più bassa che nel ceppo transgenico Tg2576, dal che si deduce che
il danno cognitivo si sviluppa con un meccanismo APP-dipendente, probabilmente
con accumulo di β-CTF.
A
questo punto, gli autori hanno condotto studi accurati mediante immunofluorescenza,
che hanno consentito di rilevare e documentare la localizzazione degli accumuli di β-CTF in corrispondenza dei terminali presinaptici
dei neuroni dello strato lucido
dell’ippocampo e dell’ilo del giro dentato; reperto che implica un effetto
sulla funzione presinaptica delle fibre muscoidi.
Il
paragone con gli esiti della sperimentazione del modulatore di seconda generazione (GSM-2) è facilmente sintetizzabile: la
somministrazione della molecola, sia secondo la posologia acuta sia secondo lo
schema del dosaggio sub-cronico, determinava un sensibile miglioramento di prestazioni nei topi Tg2576 e
non interessava la cognizione normale nei topi a genotipo naturale.
Nel
complesso, la sperimentazione condotta da Mitani e collaboratori, ha dimostrato
una chiara differenza fra gli effetti del GSM e dei GSI sulle prestazioni
cognitive, fornendo nuove conoscenze utili per la ricerca finalizzata alla
realizzazione di nuovi farmaci da impiegare nella malattia di Alzheimer e in
altri disturbi dipendenti dalla formazione di placche amiloidi cerebrali.
L’autrice della nota ringrazia il
Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, con il
quale ha discusso l’argomento trattato e invita alla lettura delle numerose recensioni
di lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie”
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).
[1] Gli inibitori della γ-secretasi sono piccole molecole in grado di attraversare agevolmente la barriera emato-encefalica, tuttavia nella maggior parte dei casi non sono impiegabili a scopo terapeutico per gli effetti dannosi che produrrebbero. Infatti, l’inibizione della γ-secretasi blocca la sua azione sul recettore Notch, una proteina di superficie che genera un frammento endocellulare che si dirige verso il nucleo al quale invia un segnale specifico. Si è perciò cercato di individuare molecole che interferiscono con la γ-secretasi non legandosi ai residui di acido aspartico necessari per l’azione su Notch, ma formando un legame con un sito diverso e determinando un cambiamento di conformazione in grado di prevenire la catalisi necessaria per la sintesi di βA. Altri inibitori della γ-secretasi sperimentati, fra cui il Flurizan negli USA, sembrano in grado di spostare la produzione dai frammenti peptidici più amiloidogenici (42-43 aa) a quelli che lo sono di meno (40 aa) [Cfr. G. Perrella, Appunti di Neurochimica, BM&L, Firenze 2006].