Milgram e i suoi normali mostri da Olocausto
A cura di MONICA LANFREDINI
NOTE
E NOTIZIE - Anno X - 21 gennaio 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
Con la quarta ed ultima parte (prima parte pubblicata il 10
dicembre 2011, seconda il 17 dicembre 2011 e terza il 14 gennaio 2012) si
completa la pubblicazione della sintesi della relazione dal titolo “Rivisitare
il lavoro di Milgram per comprendere come ordini di ferocia bestiale possano
essere impartiti con un atteggiamento ordinario”, tenuta dal Presidente della
Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, intervenendo ad un
incontro su “Il Male secondo la Psicologia e le Neuroscienze” organizzato da
“Brain, Mind & Life International”. I riferimenti bibliografici citati nel
testo sono quelli riferiti a voce dal professor Perrella durante l’esposizione;
per ulteriori indicazioni scrivere alla prof. Monica Lanfredini all’indirizzo
e-mail brain@brainmindlife.org.
(Quarta
ed Ultima Parte)
Questa
dura realtà pone un interrogativo la cui risposta è di cruciale importanza per
poter comprendere le atrocità umane al fine di prevenirle: qual è la natura e
la struttura delle condizioni che rendono capaci, persone psichicamente sane e
non dedite al crimine, di infliggere sofferenza e uccidere propri simili?
Il
modo stesso in cui è posta questa domanda, sembra implicare un pregresso
giudizio di importanza spostato verso fattori ambientali e circostanze
intrapsichiche attuali e reattive. Non si è certi che le cose stiano così; in
altri termini, fattori morfo-funzionali simili a quelli operanti in una
condizione ritenuta patologica, ossia la psicopatia, non ancora valutati e
conosciuti potrebbero avere un ruolo preponderante nel costituire parte di
quelle “condizioni” che si vogliono accertare. Tuttavia, oggi non si dispone
ancora di una traccia che possa guidare la ricerca verso basi neurobiologiche o
endofenotipi di predisposizione che si rivelerebbero in contesti anche banali
di messa alla prova delle abilità di una persona, pertanto gli studi volti a
definire le condizioni psicologiche che maggiormente si associano al
manifestarsi di comportamenti criminali gratuiti, costituiscono ancora l’unica
fonte di informazione.
Al
riguardo, si può notare che già intorno alla metà degli anni ’50 Muzafer
Sherif, uno psicologo sociale americano di origine turca, aveva condotto degli
esperimenti con giovani studenti che soggiornavano in campi estivi ed aveva
notato, con sorpresa, che dei bravi ragazzi potevano diventare crudeli e
aggressivi verso ex-amici, dopo essere stati assegnati a gruppi diversi che
competevano fra loro in condizioni di scarsità di risorse. In questo caso, nel
quale non era certo in questione l’obbedienza all’autorità, si era manifestata
una cattiveria eccessiva e imprevista prima della sperimentazione. La feroce
aggressività fu interpretata in termini di psicologia di gruppo.
A
questo genere di studi si può accostare il più noto esperimento condotto da
Philip Zimbardo nel 1971 e famoso fra gli psicologi sociali con il nome di Stanford prison experiment. In breve, Zimbardo
e colleghi allestirono una finta prigione nei sotterranei dell’edificio di
psicologia della Stanford University, ed assegnarono con un criterio casuale a
degli studenti di college il ruolo di carcerati e secondini. Lo scopo era
quello di studiare, all’interno di ciascun gruppo e fra i due gruppi definiti
dai ruoli, le dinamiche che si sarebbero sviluppate in un periodo di due
settimane. I ragazzi che avevano il compito di carcerieri svilupparono, nei
confronti dei loro pari che interpretavano il ruolo di galeotti, una grande
ostilità che si manifestò in un comportamento tanto duro da indurre Zimbardo,
per evitare conseguenze pericolose, a sospendere l’esperimento dopo soli sei
giorni[1].
Le
esperienze di Sherif e Zimbardo, e tutti gli studi successivi impostati secondo
tali paradigmi, hanno indotto a focalizzare l’attenzione sulla formazione dei
gruppi e sui meccanismi di identificazione quali condizioni rilevanti per il
manifestarsi delle condotte indesiderabili. D’altra parte, questi due elementi
erano stati presi in considerazione dallo stesso Milgram, come fattori
importanti nel determinare la scelta da parte dei suoi volontari fra lo stare
dalla parte dell’autorità o delle vittime.
Con
questa considerazione torniamo all’argomento principale del nostro interesse,
anche perché la ricerca sulla natura e sulla struttura delle condizioni
favorenti lo sviluppo di condotte criminose ci riporta nel solco tracciato
dallo psicologo newyorkese.
Per
decenni, molti ricercatori hanno condotto analisi secondarie dei dati di
Milgram, hanno studiato gli eventi storici e definito disegni sperimentali che,
pur prevedendo comportamenti meno estremi, sono apparsi sempre più mirati,
acuti nella concezione e curati nei dettagli. Eppure, nessuno di tali studi è
riuscito ad indagare in un modo tanto diretto ed efficace quanto quello di
Milgram la possibilità di trasformare tranquilli cittadini in torturatori.
Dunque, per cercare di identificare come dicevo prima la “natura e la struttura
delle condizioni”, teoricamente si dovrebbe tornare indietro a quel tipo
esperimento, ma per motivi di etica e deontologia della ricerca ciò è
attualmente impossibile.
Questa
condizione di stallo è stata recentemente superata grazie ad una ingegnosa
realizzazione di Mel Slater, un ricercatore nel campo della scienza dei
computer che lavora presso lo University College di Londra.
Slater
ha creato una simulazione del paradigma di ricerca di Milgram in realtà virtuale,
che consente ai volontari agenti da esaminatori di entrare in uno spazio
simulato dove si trovano di fronte a delle riproduzioni tridimensionali
abbastanza realistiche delle persone con il ruolo di esaminati. La simulazione
virtuale può consentire di lasciare intendere ai partecipanti che, anche se
vedono solo delle animazioni, le loro azioni avranno effetto su persone reali. Ma,
ciò che più conta, è che questo setting
è stato messo alla prova, ed è risultato che le persone si comportano
sostanzialmente allo stesso modo in questa dimensione e nel mondo reale.
Mel
Slater ritiene che la sua realizzazione potrà essere molto utile per proseguire
gli esperimenti in condizioni in gran parte identiche a quelle di mezzo secolo
fa. Magari, aggiungerei, studiando con tecniche di neuroimaging funzionale e di elettrofisiologia il cervello dei
partecipanti nel corso delle prove.
A
far ben sperare sugli esiti futuri della ricerca in questo campo, vi sono anche
alcune osservazioni recenti di Jerry Burger che, come ho ricordato in
precedenza, ha ripetuto gli esperimenti di Milgram in una forma riveduta e
corretta, nel rispetto della deontologia e delle linee-guida delle commissioni
di controllo etico. Burger ha rilevato, in base ad una proiezione statistica,
che la probabilità che chi ha erogato la scarica di 150 volts prosegua fino al
termine della scala contrassegnato con XXX, è tanto alta da poter essere
considerata virtualmente del 100%. E’ perciò sufficiente, secondo il
ricercatore della Santa Clara University, fermarsi a questo livello per
ottenere risultati significativi, senza incorrere nel problema del trauma
psicologico postumo verosimilmente indotto in alcuni partecipanti giunti fino
al livello XXX, i quali hanno dichiarato di aver sofferto nello scoprire di essere
capaci di comportarsi in un modo così disumano.
Lasciando
ogni altro commento alle vostre domande, mi avvio alla conclusione.
Due
fra i massimi studiosi di Milgram, il cui lavoro ho sempre seguito con
interesse - parlo di Reicher ed Haslam - hanno concluso un loro recente
articolo menzionando torture e massacri contemporanei e auspicando maggior
interesse e maggiori finanziamenti per questo ambito di ricerca, allo scopo di
comprendere “come le persone possano essere indotte a far del male ad altre e come
possiamo fermarle”.
Se
mi unisco a loro nell’auspicio di un maggior sostegno a questi studi, devo però
dissentire dall’opinione secondo cui tali esperimenti, al pari delle indagini
sulle cause di una patologia del sistema nervoso, ci possano fornire elementi
necessari e sufficienti a debellare il male.
Se
dopo il genocidio degli Ebrei sono ancora possibili massacri ordinati dai
governi, come quelli recenti in Libia e Siria, o torture come quelle di Abu
Graib e Guantanamo Bay, non è certo perché non si conoscono le basi mentali di
quelle azioni. Il “come” psicologico, ed anche neurobiologico, non aggiungerebbe
nulla al già noto “perché” tali condizioni vengano create e, certamente, la
soluzione non è nel trovare un farmaco che aiuti gli esecutori di ordini a
resistere alla spinta verso il male. Ma credo che sia nella costruzione a
partire dal singolo, ciascuno da se stesso e dal proprio ambito di relazione,
di società fondate su valori diversi da quelli dell’affermazione di sé
sull’altro, del tornaconto egoistico, del cinico profitto cieco al bisogno
altrui, di quello stile di irresponsabilità della vita dell’altro che è
divenuto modo di pensare comune, religiosamente trasmesso nella formula “non è
un mio problema”. Mi rendo conto che quanto dico, oltre a poter apparire ad
alcuni come un discorso di vecchia retorica umanitaria, datato e inefficace
come ogni pensiero utopistico, esula dai limiti tematici dell’argomento
trattato; ma non ho voluto rinunciare ad esprimere la mia opinione a proposito
dell’affermazione di Reicher ed Haslam, ritenendola emblematica della frequente
tendenza alla neutralizzazione di responsabilità morali, individuali e
collettive, culturali e politiche, attraverso l’attribuzione di comportamenti
eticamente e socialmente rilevanti a presunte cause psicologiche, determinate
biologicamente e virtualmente incoercibili in quanto non conosciute.
Se
le cose nel mondo cambieranno, non dipenderà certo dai risultati di queste
ricerche e di altre simili, ma dalle intenzioni con le quali sarà gestito il
potere di decisione e di influenza, soprattutto da parte di chi ha la
responsabilità del governo degli stati e della formazione culturale e morale
dei singoli cittadini. Ad esempio, lo studio delle basi neurobiologiche
dell’empatia e della cooperazione fra individui della stessa specie, fornisce
una conoscenza che potrà essere impiegata dai buoni educatori per aiutare a
coltivare la sensibilità al bisogno altrui e alla solidarietà, o potrà essere
impiegata dai “cattivi maestri” per affinare e diffondere le proprie strategie
di protezione di sé, di reificazione dell’altro, di esclusione del bisogno e
della sofferenza altrui dalla propria consapevolezza agìta.
In
conclusione, la risposta ai quesiti che rendono ancora attuale la ricerca di
Milgram, sarà importante per la conoscenza neuroscientifica e psicologica della
psiche umana, ma credo che dipenderà molto dalle intenzioni, dall’impegno e
dalle capacità di ciascuno di noi, se da questo sapere si potrà trarre spunto e
vantaggio per promuovere una crescita morale collettiva.
[1] Haslam S. A. & Reicher S. D., The Psychology of Tyranny, p. 46, Sci. Am. MIND 16 (3): 44-51, 2005. Per gli esperimenti di Sherif si può consultare Muzafer Sherif, Experiments in Group Conflict. Scientific American 195 (5): 54-58, November 1956.