La nuova edizione di Basic Neurochemistry e 40 anni di neurochimica

                                                                                                                                           

 

A cura di LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno X - 21 gennaio 2012.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RESOCONTO DI UNA CONFERENZA]

 

La Società Nazionale di Neuroscienze “BM&L” ha presentato ai soci e a tutti i cultori di neuroscienze del nostro paese la nuova edizione di Basic Neurochemistry: Principles of Molecular, Cellular and Medical Neurobiology (Edited by Scott T. Brady, George J. Siegel, R. Wayne Albers e Donald L. Price; Academic Press, Elsevier, 2012), con una relazione introduttiva del Presidente Giuseppe Perrella e numerosi interventi specialistici su singoli argomenti trattati nel volume da parte di soci membri della commissione scientifica. Come suggerito nella prefazione dai due Editors-in-chief storici, Scott Brady e George Siegel, l’occasione della pubblicazione dell’ottava edizione del trattato a cui è affidata l’immagine di prestigio dell’American Society for Neurochemistry, è una circostanza opportuna per considerare come l’evoluzione di questo straordinario strumento di formazione ed aggiornamento rifletta quattro decadi di sviluppo e progresso delle conoscenze neurochimiche che hanno contribuito a cambiare la visione della fisiologia e della patologia del sistema nervoso.

 

Qui di seguito forniamo, come testo non virgolettato, alcuni stralci della relazione del presidente Perrella, tratti dalla trascrizione della registrazione curata da Simone Werner.

 

Prima di proporvi, in una esposizione convenzionalmente ordinata e spero utile, la mia recensione di questa ottava edizione, voglio subito comunicarvi due novità che mi sono balzate agli occhi scorrendo la lista dei contenuti. Un capitolo, il trentatreesimo, interamente dedicato alla neuroimmunologia, grande assente nelle precedenti edizioni, e l’introduzione in ciascuno dei 63 capitoli di un approfondimento nella prospettiva della Translational Neurochemistry che, per la sua concezione in una forma monografica sintetica (box), ha consentito l’aggiornamento fino al momento di andare in stampa, ed ha permesso, come nel caso della patogenesi da infiammazione della depressione maggiore, di fornire una rassegna con i tempi di pubblicazione di una rivista. Ancora, da rilevare, che il 20% dei capitoli sono nuovi e un altro 25% ha nuovi autori; l’elenco di coloro che hanno coadiuvato gli autori principali si è notevolmente accresciuto e vi è stato un sensibile miglioramento delle illustrazioni che, in alcune parti delle precedenti edizioni, non erano all’altezza del testo.

Ma, ciò premesso, cercherò di presentare questo volume anche a coloro che, soprattutto fra i più giovani, non abbiano mai impiegato “Basic Neurochemistry” come libro di testo e non l’abbiano nemmeno mai consultato.

La prima edizione di quest’opera di riferimento per i neurochimici e per molti cultori di altre branche delle neuroscienze, vide le stampe esattamente quarant’anni fa, nel 1972, col titolo Basic Neurochemistry: Molecular, Cellular and Medical Aspects. In queste quattro decadi i contenuti di questo libro, che ha contribuito alla formazione di una parte considerevole dei neuroscienziati attualmente attivi, hanno rispecchiato l’evoluzione e il progresso delle discipline neuroscientifiche direttamente o indirettamente riconducibili allo studio biochimico del cervello e del sistema nervoso in generale.

A mio avviso uno dei pregi maggiori, conservato nel tempo, è l’efficacia didattica con la quale gli argomenti sono esposti e presentati, in particolare grazie all’impiego sistematico del metodo introdotto da James Watson di proporre nel titolo di ogni paragrafo la perfetta sintesi concettuale del suo contenuto. Ma credo che, per comprendere i motivi della struttura dell’opera, dei suoi molti pregi ed anche di qualche difetto, come l’apparire in alcune parti più un trattato di biologia che di chimica, sia necessario ritornare alla fine degli anni Sessanta, alle circostanze e al clima culturale nel quale nacque l’idea di realizzate un testo di riferimento per ricercatori e studenti.

A quel tempo la prima fra le neuroscienze, la neurobiologia, non era ancora riconosciuta come campo distinto di studi e in ambito accademico i metodi impiegati nella ricerca di base definivano l’identità del ricercatore più dell’oggetto stesso delle indagini e, talvolta, più della stessa formazione curricolare. Basti pensare che Linus Pauling definiva i biologi molecolari “biochimici non autorizzati”, e che due fondatori della biologia molecolare del calibro di Francis Crick e Maurice Wilkins, erano fisici che si erano dedicati alla soluzione di problemi biofisici.

R. Wayne Albers, Robert Katzman e George J. Siegel si posero il problema di definire il campo della neurochimica mediante un programma di studi che indicasse con precisione la base culturale e le nozioni necessarie e sufficienti a conferire competenze e identità da neurochimico a un ricercatore, e per proporre a medici e biologi un’angolazione prospettica nuova per lo studio della biologia e della patologia del sistema nervoso. A questo scopo, i tre ricercatori indissero una conferenza denominata “Conference on Neurochemistry Curriculum” e supportata dal National Institute for Neurological Disease and Stroke, che ebbe luogo nel quartiere Bronx di New York il 19 e 20 giugno 1969. Un gruppo di 30 neuroscienziati ante litteram, partecipanti alla conferenza, produsse un elaborato nel quale si delineavano lo scopo e i contenuti di un curriculum formativo in neurochimica per studenti e studiosi di formazione medica e neurobiologica. Da questo “syllabus” Albers, Katzman e Siegel, insieme con Robert Agranoff, diedero origine al progetto di un trattato che avrebbe costituito l’opera di riferimento dell’American Society for Neurochemistry (ASN) alla quale sarebbero andati il copyright e le royalties, da impiegare al fine di promuovere lo studio e la ricerca in quel settore.

Il successo del libro, fin dalla prima edizione, consentì di finanziare i viaggi di studenti e giovani ricercatori post-dottorato che presentavano le proprie ricerche all’ASN, di mandare copie gratuite alle biblioteche scientifiche di paesi in via di sviluppo, di conferire premi per ricerche condotte per conto della ASN e della International Society for Neurochemistry, e, infine, per sostenere dal 1979 in poi le Basic Neurochemistry Lectureships agli incontri annuali della ASN.

Le prime due  Basic Neurochemistry Lectures ci consentono di riconoscere una delle radici della nuova scienza, ossia l’impiego di metodologie e tecniche chimiche per integrare studi in larga parte fondati su base morfologica, ossia sull’anatomia. Infatti, la prima conferenza si intitolava “Neuroanatomia per il Neurochimico” e la seconda “Neurochimica per il Neuroanatomista”. La prima fu tenuta da Tomas Hokfelt, pioniere negli studi anatomici basati sulla fluorescenza delle amine, la seconda da Louis Sokoloff, che mise a punto la metodologia per ottenere immagini funzionali del cervello originariamente basate sul metabolismo del 2-deossiglucosio marcato da radionuclide.

Nel 1984, dodici anni dopo la prima edizione, dal cervello di pazienti affetti da malattia di Alzheimer e da quello di persone portatrici di sindrome di Down fu isolato il peptide Aβ e sequenziato: in tal modo due condizioni così lontane in medicina per la prima volta furono unite da un elemento biochimico comune. Il peptide Aβ comparve per la prima volta nella quarta edizione, quando cominciava a prendere forma la neurochimica della APP e della malattia descritta da Alois Alzheimer. Nella quinta edizione fu riportata la scoperta, ottenuta mediante metodi immunochimici nel 1988, che la proteina tau associata ai microtubuli è il maggior costituente della degenerazione neurofibrillare, il contrassegno patologico intracellulare che, insieme con le placche amiloidi, caratterizza l’anatomia patologica della degenerazione alzheimeriana.

Anche se la scoperta dei prioni risale al 1982, fu la quinta edizione a registrare per la prima volta una visione totalmente nuova del rapporto fra proteine e degenerazione nell’ambito delle ipotesi eziopatogenetiche delle malattie da prioni, alle quali fu dedicato uno specifico capitolo a partire dalla sesta edizione. Ancora nella quinta edizione, oltre a vari altri progressi nella genetica delle malattie neurologiche, è riportata l’identificazione avvenuta nel 1993 dell’huntingtina come il prodotto genico mutato nella malattia di Huntington e contraddistinto da una sequenza poliglutamminica. Nello stesso anno fu accertato che mutazioni nella superossido dismutasi tipo 1 (SOD1) causavano alcuni tipi di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) familiare.

Nel 1997 la sinucleina fu riconosciuta quale maggior costituente dei corpi di Lewy, fornendo un collegamento con la malattia di Parkinson, connessione rinforzata dalla concomitante identificazione di mutazioni nel gene dell’α-sinucleina come causa di una forma familiare di malattia di Parkinson. Questi ed altri dati sulla genetica e la biochimica delle malattie neurodegenerative furono aggiunti nella sesta e settima edizione.

Un pregio di questa ottava edizione consiste, sicuramente, nell’aver evidenziato lo stretto rapporto fra neurochimica di base e medicina clinica, non solo nelle branche della specialistica neurologica e psichiatrica ma anche dell’internistica in generale, mediante la Translational Neurochemistry. Come ho già accennato all’inizio di questa presentazione, in ciascun capitolo è stata selezionata una scoperta recente o un concetto emergente in funzione della sua potenziale significatività per la comprensione dei principi di Translational Neurochemistry: per esemplificare il valore a doppio senso del rapporto fra scienza e clinica, le finestre monografiche inserite come riquadri (boxes) dei capitoli dedicati ad argomenti di neuroscienze di base, contengono esempi di meccanismi patologici o terapie ricavati da quelle conoscenze, e i riquadri dei capitoli dedicati alla patologia vertono su nozioni di base acquisite grazie allo studio della patogenesi di malattie del sistema nervoso.

A questo proposito, voglio portare ad esempio la finestra monografica del capitolo 60 curata da Joseph T. Coyle, dal titolo: “Inflammation, Citokines and Glutamate: A New Pathway to Depression”. Campioni clinici e meta-analisi di altri studi hanno rivelato che nel Disturbo Depressivo Maggiore si ha un significativo innalzamento dei livelli plasmatici di markers infiammatori, inclusi IL-6, IL-1, TNF-α e la proteina C-reattiva. Dopo una review aggiornata a lavori autorevoli e recenti che pone in stretta relazione stati infiammatori quali quelli presenti nel diabete di tipo II, nell’obesità, nell’infarto del miocardio, nella demenza degenerativa, Coyle propone tutte le evidenze sperimentali che dimostrano il ruolo causale del processo infiammatorio, e nota come sia stato accertato che la depressione dei pazienti con epatite C trattati con interferone (IFN-α) sia da attribuire all’induzione da parte dell’IFN-α del rilascio di varie citochine proinfiammatorie, fra cui la IL-6 che causa il disturbo depressivo. Non mi soffermo sui meccanismi molecolari efficacemente sintetizzati, ma mi limito a ricordare che Coyle riporta gli effetti di due metaboliti del triptofano elevati nella depressione di origine infiammatoria, la kinurenina, che induce ansia, e l’acido quinolinico che è prodepressivo ed eccitotossico ad alte dosi (apoptosi), notando l’efficacia sperimentale antidepressiva della ketamina che è un antagonista dell’acido quinolinico per i recettori NMDA. E poi, opportunamente conclude che, su questa base e considerata anche l’inefficacia nel 50% dei pazienti degli antidepressivi attualmente impiegati, è il caso di prendere seriamente in considerazione una fisiopatologia depressiva di origine glutammatergica.

Quando apparve la prima edizione, nel 1972, le neuroscienze e l’immunologia costituivano “mondi separati”, per usare l’espressione di Brady e Siegel, forse con l’eccezione di processi autoimmuni implicati in malattie del sistema nervoso come la sclerosi multipla. La psiconeuroimmunologia fu fondata da Ader nel 1975, ma per molto tempo quel campo fu considerato con sospettosa prudenza, particolarmente dai chimici, provenienti da una tradizione metodologica di hard science seconda solo alla fisica per vicinanza al paradigma della scienza sperimentale ideale. Questa ottava edizione presenta un interessante capitolo di neuroimmunologia che fornisce una buona base per la comprensione delle complesse interrelazioni fra sistema nervoso e sistema immunitario, insieme con una disamina dei meccanismi infiammatori e dei fattori di trascrizione condivisi.

 

Dopo la relazione del presidente, prof. Giuseppe Perrella, sono intervenuti i professori Giovanni Rossi, Nicole Cardon, Diane Richmond e i dottori Ludovica R. Poggi, Roberto Colonna, Lorenzo L. Borgia e Simone Werner.

 

A cura di Lorenzo L. Borgia

BM&L-21 gennaio 2012

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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