Meccanismo di induzione del Parkinson da paraquat
NICOLE CARDON
NOTE
E NOTIZIE - Anno IX - 17 dicembre 2011.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente note di recensione di lavori neuroscientifici selezionati dallo
staff dei recensori fra quelli
pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti alla Commissione Scientifica.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
Nella
definizione di malattia
di Parkinson sono
attualmente comprese forme patologiche con diversa eziopatogenesi ed un comune
quadro clinico che ha riscontro in alcuni elementi anatomo-patologici costanti,
quali la degenerazione del contingente dopaminergico della connessione
nigro-striatale che dalla pars compacta
della sostanza
nera mesencefalica (o Substantia Nigra di Sömmering)
raggiungono il corpo striato[1].
Simili lesioni, accompagnate da gliosi reattiva, si osservano anche in altre
strutture con neuroni a contenuto melanico, quali le cellule del Locus Coeruleus. I neuroni dopaminergici della parte compatta della
sostanza nera sono fra le cellule più vulnerabili del sistema nervoso centrale, a causa di un relativo
difetto di fattori neuroprotettivi, quali l’antiossidante glutatione, e di un
alto livello di esposizione allo stress
ossidativo dovuto alla presenza del metabolismo dopaminergico e ad altri
fattori. Si ritiene che tali condizioni possano rendere queste cellule nervose
suscettibili di danno per l’azione di cause genetiche ed ambientali, che di per
sé non sarebbero in grado di determinare morte cellulare in molti altri tipi di
neuroni. Molti dei fattori implicati nel danno neurodegenerativo da malattia di
Parkinson, sembrano interferire con l’abilità della cellula di eliminare
proteine mutate o danneggiate mediante il sistema ubiquitina-proteasoma.
Un
altro elemento distintivo della morfologia patologica sono le inclusioni
filamentose intracellulari, già descritte nel 1912 da Friedrich Lewy e perciò
dette “corpi di Lewy”, che oggi sappiamo essere costituite da α-sinucleina. Come è noto, mutazioni nel gene
dell’α-sinucleina o un aumento del numero delle sue copie causa, oltre
alla “demenza con corpi di Lewy”, forme ereditarie della malattia di Parkinson.
Tuttavia, le forme ereditarie nel loro insieme non raggiungono il 10% del
totale, dunque la massima parte dei casi della malattia è costituita da forme
cosiddette “sporadiche”, che sembrano originare da una combinazione fra
predisposizione genetica e fattori ambientali o tossici.
Per
quanto riguarda la descrizione del quadro clinico che accomuna la maggior parte
delle forme, riportiamo qui di seguito una sintesi tratta da una recente nota
del professor Rossi.
“In questo modo nel 1817 James Parkinson descrisse le caratteristiche sintomatologiche salienti del disturbo neurologico denominato con il suo eponimo e definito “morbo”: movimenti involontari con carattere di tremore, accompagnati da diminuzione della forza, non rilevabili nelle parti del corpo a riposo e nemmeno in quelle sostenute; una tendenza alla flessione in avanti del tronco e a passare da una deambulazione normale a un passo di corsa, con conservazione delle facoltà intellettive.
A duecento
anni di distanza questa descrizione clinica è sostanzialmente valida, anche se
può essere integrata da elementi tratti da una più precisa semeiotica di
osservazione: il tremore (da 4-5 fino a 7-8 scosse al secondo) , ad
esempio, è evidente nella mano ferma non trattenuta dall’altra mano o impegnata
ad afferrare, e si distingue dal tremore di origine cerebellare che si accentua
nello sviluppo intenzionale dell’azione; la conservazione delle facoltà
intellettive è una caratteristica che bene si spiega sulla base di una
degenerazione in gran parte confinata alla componente originata dalla parte
compatta della sostanza nera del sistema nigro-striatale, ma l’associazione di
un decadimento cognitivo che evolve in un quadro di demenza è meno rara di
quanto si ritenesse un tempo.”[2]
Numerosi
studi epidemiologici hanno riportato che l’esposizione all’erbicida paraquat (PQ) accresce il rischio di sviluppare malattia di Parkinson. Per
verificare se realmente l’erbicida ha un ruolo nella eziopatogenesi del danno
sono stati condotti vari studi; in particolare, sperimentazioni condotte col
metodo caso-controllo hanno rilevato che le persone con varianti genetiche del trasportatore della
dopamina (DAT, SLC6A), quando esposte al PQ, presentano una probabilità
maggiore della media di sviluppare la degenerazione parkinsoniana. Il
meccanismo molecolare non è stato ancora definito ed è argomento di dibattito
se il PQ entri nei neuroni dopaminergici
grazie alla proteina trasportatrice DAT. Phillip M. Rappold e colleghi hanno
affrontato il problema in uno studio che ha fornito le prove di un meccanismo
molecolare del danno (Rappold P. M.,
et al. Paraquat neurotoxicity is
mediated by the dopamine transporter and organic cation transporter-3. Proceedings of the National Academy of Science USA [Epub ahead of
print doi:10.1073/pnas.1115141108], 2012).
La sperimentazione ha consentito di accertare un
meccanismo mediante il quale il PQ è trasportato
dal DAT. Nel suo stato nativo di catione bivalente, il PQ2+ non è substrato del DAT, ma quando
convertito nel catione monovalente PQ+, sia da un
agente riducente che da NADPH ossidasi sulla microglia, diventa un sostrato per
DAT ed è accumulato nei neuroni dopaminergici, nei quali induce stress ossidativo e citotossicità.
L’alterazione funzionale di DAT in cellule in
coltura e in topi mutanti, attenuava significativamente la neurotossicità
indotta da PQ+.
Oltre a DAT, il PQ+ è anche un
substrato per il catione organico transporter 3 (Oct3, Slc22a3), che è abbondantemente espresso in cellule non-DA
nelle regioni nigro-striatali. Questa accresciuta sensibilità probabilmente
deriva da una ridotta capacità di buffering
da parte di cellule non-DA, che porta ad una maggiore quantità di PQ+ disponibile per la captazione da parte dei
neuroni rilascianti dopamina.
Le evidenze emerse da questo studio individuano un
meccanismo mediante il quale DAT e Oct3 modulano il danno nigrostriatale indotto dal ciclo redox PQ2+/ PQ+.
L’autrice della nota ringrazia il
professor Perrella, con il quale ha discusso l’argomento trattato, e invita
alla lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono
nelle “Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del
sito).
[1] Tradizionalmente si indica la degenerazione dei neuroni dopaminergici nigro-striatali, i cui corpi cellulari hanno sede nella parte compatta della sostanza nera, quale elemento fondamentale della patologia neurodegenerativa. Le cellule in degenerazione presentano inclusioni eosinofile dette corpi di Lewy (costituiti da α-sinucleina) e neuriti di Lewy. Studi recenti hanno evidenziato anche componenti infiammatorie fra le cause di morte cellulare, ed è stato dimostrato che, prima dell’insorgenza di una chiara sintomatologia clinica, è necessaria una riduzione della dopamina striatale (nella sede dei neuroni post-sinaptici) di almeno il 70%. Inizialmente, la degenerazione nel versante dello striato, ossia fra i nuclei della base (parte esterna del lenticolare e caudato, che insieme formano il corpo striato) riguarda la parte posteriore del putamen (area motoria striatale). Le prime modificazioni degenerative, tuttavia, riguardano sedi distanti dai nuclei della base: il bulbo olfattivo, strutture del tronco encefalico come il nucleo motorio dorsale del nervo vago, il locus coeruleus e i nuclei del rafe (per ulteriori dettagli sulla patologia neurodegenerativa nella malattia di Parkinson si veda in G. Perrella, Appunti di Neurochimica. BM&L, Firenze 2006).
[2] G. Rossi, Origine delle oscillazioni beta-patologiche nel Parkinson, in “Note e Notizie” 02-07-11.