Milgram e i suoi normali mostri da Olocausto
A cura di MONICA LANFREDINI
NOTE
E NOTIZIE - Anno IX - 17 dicembre 2011.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente note di recensione di lavori neuroscientifici selezionati dallo
staff dei recensori fra quelli
pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti alla Commissione Scientifica.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
Lo scorso sabato 10 dicembre è stata pubblicata la sintesi
della prima parte di una relazione dal titolo “Rivisitare il lavoro di Milgram
per comprendere come ordini di ferocia bestiale possano essere eseguiti con un atteggiamento
ordinario” tenuta dal Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze
Giuseppe Perrella, intervenendo ad un incontro su “Il Male secondo la
Psicologia e le Neuroscienze” organizzato da “Brain, Mind & Life
International”. Qui di seguito si riporta la seconda parte. La terza parte sarà
pubblicata sabato 14 gennaio. I riferimenti bibliografici citati nel testo sono
quelli riferiti a voce dal professor Perrella durante l’esposizione; per
ulteriori indicazioni scrivere alla prof. Monica Lanfredini all’indirizzo e-mal
brain@brainmindlife.org.
(Seconda
Parte)
La
presenza dei due infiltrati che facevano prevalere ragioni etiche ed umane
sull’obbligo di seguire le istruzioni per la corretta conduzione
dell’esperimento, sortì i suoi effetti, riducendo al 20% la quota degli
“assassini”. Una buona notizia, rispetto al primo esperimento, ma ancora poco
per la nostra sensibilità: uno su cinque partecipanti aveva torturato a morte un
esaminato.
La
completa disamina di tutte le varianti ideate dallo psicologo newyorkese fa
rilevare solo tre casi in cui nessuno degli esaminatori arriva ad erogare
scariche elettriche punitive fino ai 450 volts:
1) quando è l’esaminato a chiedere lo shock
elettrico; 2) quando è l’autorità a ricoprire il ruolo dell’esaminato; 3)
quando due autorità danno istruzioni fra loro in conflitto.
Prima
di discutere l’interpretazione degli esiti sperimentali, vorrei soffermarmi
brevemente sulle reazioni suscitate dalla notizia di questo studio, nuovo per
concezione ed esecuzione, e inquietante per ciò che rivelava.
Probabilmente
i risultati del lavoro di Milgram ebbero la maggiore divulgazione e la massima
risonanza nel 1963, per effetto di un articolo pubblicato sul New York Times. Thomas Blass, uno
psicologo dell’Università del Maryland, riferisce in un saggio biografico su
Milgram di un vero e proprio furore seguito alla lettura di quell’articolo da
parte di molti osservatori ed esperti. In particolare, un editoriale del St. Louis Post-Dispatch descriveva la
ricerca come una “tortura ad occhi aperti”. Una considerazione a parte merita
la reazione di uno psicoanalista dell’infanzia che allora godeva di grande fama
internazionale, Bruno Bettelheim, il quale definì il lavoro di Milgram “vile” e
“in linea con gli esperimenti umani dei Nazisti”. Alla luce di quanto è emerso
solo molto tempo dopo, questa accusa si comprende bene. Bettelheim, il cui mito
da se stesso costruito sulla base delle tecniche di propaganda nazista e
sostenuto da un’efficiente macchina economico-editoriale, era sopravvissuto
allo sterminio di un campo di concentramento, non per un caso fortunato o per
un atto eroico, ma perché aveva collaborato con i Nazisti. Gli esperimenti di
Milgram rivelavano che anche persone ordinarie e insospettabili potevano essere
indotte a provocare la morte di propri simili, mettendo in luce una possibilità
che, seguita una come traccia, avrebbe potuto condurre i suoi contemporanei a
scoprire la principale delle imposture sulle quali aveva fondato il suo
prestigio e il suo insegnamento presso la Scuola Ortogenica di Chicago[1].
Alla
immediata sollevazione contro Milgram degli opinion
makers americani ed europei e alla presa di distanze di una piccola parte
della comunità scientifica internazionale, aveva fatto seguito il formarsi di un’opinione
negativa sempre più consolidata nel tempo che, a dieci anni di distanza,
induceva il poeta gallese Dannie Abse a inserire in un suo lavoro destinato alla
rappresentazione teatrale, The Dogs of
Pavlov, un personaggio di nome Kurt che impiegava espressioni volgari per
esprimere condanna e disprezzo per quegli esperimenti.
Milgram,
quando fu attaccato, rispose con una vigorosa ed appassionata difesa della
correttezza del proprio lavoro e del suo nobile obiettivo che consisteva
proprio nel tentativo di comprendere qualcosa di più di una realtà tanto
disumana, come quella della tortura e del massacro di persone inermi. Spiegò
che “nessuno di coloro che aveva preso parte allo studio sull’obbedienza aveva
sofferto un danno, e la maggior parte dei soggetti aveva trovato l’esperienza
istruttiva ed arricchente”[2].
In
effetti, a tutti i partecipanti agli esperimenti si chiese di rispondere alle
domande di un questionario. Le risposte, oltre a costituire in generale un
materiale interessante, contenevano le opinioni dei diretti interessati sull’esperienza;
opinioni in massima parte positive e che Stanley Milgram poté impiegare in sua
difesa. Infatti, la stragrande maggioranza dei 656 partecipanti ai vari studi
ne aveva approvato ed apprezzato l’intento e, soprattutto, ne traeva un
bilancio positivo. In dettaglio: l’84% si diceva contenta di aver partecipato,
il 15% si dichiarava neutra e solo l’1% aveva riportato un’impressione
negativa. Più della metà dei partecipanti ammetteva di aver provato un certo
grado di disagio in alcuni momenti delle prove, ma solo un terzo ammetteva di essere
stato turbato.
Il
materiale che ho potuto esaminare, ed anche la lettura di alcuni testi recenti
che ne propongono un’analisi, mi induce a ritenere che Milgram non si
sbagliasse nell’affermare che la maggior parte delle persone non abbia avuto
problemi ed abbia avuto stimoli positivi dall’esperienza, tuttavia mi sembra
altrettanto probabile - come hanno sostenuto Stephen Reicher e Alexander Haslam
- che una minoranza abbia esperito una sia pur lieve sofferenza psicologica. La
probabilità di quest’ultimo giudizio è, a mio avviso, molto elevata se si
considera lo spettro di sensibilità osservabile nella popolazione generale e le
variazioni individuali che, anche per reazioni ad eventi della vita e a
condizioni esistenziali, in alcuni periodi abbassano in ciascuno di noi la
soglia delle risposte emotive, con aumento della vulnerabilità.
Mettendo
da parte le critiche, le reazioni e i commenti, la cui mole rischierebbe di
prendere tutto il tempo di cui dispongo per la relazione, passiamo a
considerare le principali osservazioni e riflessioni proposte dallo stesso
Milgram nelle sue pubblicazioni.
Innanzitutto,
ai volontari veniva proposta un’esauriente presentazione del fine ultimo degli
esperimenti, principalmente consistente nell’ottenere un progresso delle conoscenze
psicologiche alla base del comportamento umano e nella comprensione dei
meccanismi della memoria, tenendosi sulle generali perché, inizialmente, non
poteva essere rivelato il disegno sperimentale e lo specifico oggetto dello
studio. Secondo lo psicologo newyorkese, lo scopo del progresso della
conoscenza era rispettato e tenuto in grande considerazione dai partecipanti, che
spesso rivelavano di essere presi dal dilemma del conflitto fra il dovere di
procedere, legato all’obbedienza all’autorità, e la richiesta degli esaminati
di non infliggere loro ulteriori sofferenze. Nelle sue discussioni, Milgram
espresse grande interesse per il ruolo svolto dalle varianti del setting sperimentale, in particolare per
la distanza che materialmente separava esaminatore ed esaminato: la differenza
fra la presenza e l’assenza di una parete interposta e fra il non vedere e il
vedere la persona, potendo essere guardato negli occhi dalla potenziale
vittima, era un fattore decisivo nel prevenire la disumanizzazione dell’altro
in molti casi. Lo psicologo notava come l’attenuazione della percezione
dell’altro fosse sufficiente a far prevalere in molti un atteggiamento mentale
che riduceva ad oggetto una persona: la reificava al punto di renderla
uccidibile.
Ma
di tutto quanto Milgram ha proposto nelle sue discussioni, è rimasta
all’attenzione dei critici, tanto quanto dei neuroscienziati di oggi, la sua
interpretazione circa i processi mentali alla base del comportamento criminale
indotto verosimilmente dall’obbedienza. La congettura postula l’esistenza di
uno stato di coscienza particolare nel quale sarebbero entrati i partecipanti
fungenti da esaminatori, una condizione neurofisiologica definita agentic state nella quale, secondo
Milgram, le persone avrebbero ceduto la propria autorità a chi era “in carica”,
focalizzando il proprio interesse sull’ordine ricevuto e non considerando le
conseguenze delle proprie azioni. In altri termini, quello stato avrebbe
comportato una restrizione del campo di coscienza e una perdita dell’esercizio
delle facoltà di giudizio ed azione indipendente, come si ritiene avvenga
nell’ipnosi e si ipotizza possa avvenire in quella condizione estrema di
influenza psichica esercitata su persone affette da grave deficit neuropsichico
e corrispondente al concetto giuridico di circonvenzione di incapace.
L’esistenza
di questo agentic state e la sua
evocazione nelle condizioni dell’esperimento lasciano molto perplessi, al punto
che si è portati più a pensare al come possa essere stata concepita l’ipotesi,
che al suo rapporto con le nozioni scientifiche di neurofisiologia della
coscienza di cui attualmente disponiamo.
E’
certa l’influenza sullo studioso newyorkese dell’analisi del criminale nazista
Adolf Eichman proposta da Hanna Arendt[3]. Ricordiamo
come la filosofa fosse rimasta sorpresa nel vedere per la prima volta Eichmann,
quando questi entrò nell’aula di giustizia dove sarebbe stato processato:
stempiato, dalla postura lievemente incurvata, un uomo dall’atteggiamento un
po’ dimesso, in tutto ordinario e quasi insignificante. Tutti coloro che non lo
avevano mai visto si aspettavano, consapevolmente o inconsapevolmente, qualche
tratto o caratteristica dell’aspetto fisico o dell’atteggiamento che
immediatamente riportasse agli atti mostruosi che aveva compiuto e causato. Ma
non ne trovarono alcuno. Nessun segno dell’ira funesta di epica memoria o della
ferocia omicida scatenata da un insaziabile desiderio di vendetta, nessuna
traccia del ghigno e dello sguardo agghiacciante dello psicopatico criminale,
nessun accento che lasciasse trasparire quel freddo disprezzo per la vita che
caratterizza gli assassini incalliti. Era un uomo come se ne incontrano tanti
nelle vie di una città, e che potrebbe abitare in un qualsiasi condominio
borghese o popolare.
Proprio
questo aspetto comune e non mostruoso - sostenne la Arendt- lo rendeva
terribile, perché richiamava alla mente la presenza connaturata del male in
tutti noi, e la possibilità che si manifesti non come evento eccezionale o
estremo, o come prodotto di una mente malata o resa perversa dal male subìto,
ma come il portato di circostanze che lo richiedono, con la stessa ordinaria
naturalezza con la quale compiamo gli atti abituali della vita quotidiana. La “banalizzazione
del male”, appunto. Secondo Hannah Arendt questo male emerge quando le persone
smettono di pensare alle conseguenze delle proprie azioni e si concentrano sui
dettagli della prestazione nell’esecuzione dei compiti loro richiesti. La sua
idea implica che ciò riduca il campo di coscienza e, infatti, ha scritto:
“Eichmann […] non ha mai realizzato ciò che stesse facendo”[4].
Una
concomitanza di evidenze storiche, filosofiche e psicologiche, in quegli anni
sembrava supportare la visione della Arendt, rendendola punto di vista
dominante, tanto nella cultura accademica, quanto in quella politica e di
massa.
Stanley
Milgram, nella sua ipotesi dell’agentic
state, postulava di fatto una condizione mentale caratterizzata da una, sia
pur parziale, perdita funzionale di consapevolezza, non prodotta da sostanze psicotrope
o da induzione ipnotica, ma indotta dall’obbedienza. Non fece certo mistero
circa la sua fonte di ispirazione, e scrisse: “La concezione della
banalizzazione del male della Arendt è più vicina alla verità di quanto si osi
immaginare”[5].
Coerentemente
con questa visione, Milgram interpretava il comportamento omicida dei
partecipanti ai suoi esperimenti come una focalizzazione del campo di coscienza
su ciò che era stato detto loro di fare, negligendo gli aspetti relativi alle
conseguenze delle scariche elettriche che erogavano: la loro preoccupazione era
quella di essere un buon esecutore, non una buona persona.
Ma
in tempi recenti, come l’idea dell’inconsapevolezza di Eichmann è stata
smentita dagli storici sulla base di nuove documentazioni risalenti all’epoca,
così la nozione di agentic state è
stata messa in dubbio dai ricercatori alla luce delle conoscenze attuali.
[continua]
[1] Si veda “La terribile verità su Bruno Bettelheim”.
[2] Cfr. Thomas Blass, The Man Who Shocked the World: The Life and
Legacy of Stanley Milgram. Basic Books, New York 2004; Stanley Milgram, Obedience to Authority: An Experimental View.
Harper and Row, 1974.
[3] Cfr. Hannah Arendt, op. cit.,
1963.
[4] Cfr. Hannah Arendt, op. cit., 1963.
[5] Cfr. Stanley Milgram, op. cit,
1974.