Pericoli e problemi per una nuova diagnosi del DSM 5
A cura di GIOVANNA REZZONI
NOTE
E NOTIZIE - Anno IX - 19 novembre 2011.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente note di recensione di lavori neuroscientifici selezionati dallo
staff dei recensori fra quelli
pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti alla Commissione Scientifica.
[Tipologia del testo:
RESOCONTO]
«Uno
psicotico attualmente delirante e in preda ad allucinazioni, con il suo
distacco dalla realtà e con quell’insieme peculiare di manifestazioni somatiche
e comportamentali, può essere riconosciuto anche da un profano come “matto”, “pazzo”
o “malato di mente grave”; ma la diagnosi di psicosi in clinica psichiatrica è
un compito di ben altra portata tecnica e responsabilità morale».
Con queste parole Giuseppe
Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze (BM&L-Italia),
ha introdotto una discussione su un problema di interessante attualità in
psichiatria: la possibilità di aggiungere alla nosografia psichiatrica una
nuova diagnosi nell’ambito dei disturbi psicotici. Qui di seguito, senza più
adoperare le virgolette, riporto la trascrizione dei punti salienti dell’esposizione,
che ho personalmente registrato. Di comune accordo si è deciso di eliminare
qualche eccessivo tecnicismo. Diamo, dunque, la parola al Presidente Perrella.
Basandosi
sull’osservazione di numerose persone che giungono all’attenzione clinica e
che, pur non potendo essere definite psicotiche, presentano segni e sintomi che
spesso precedono la piena espressione clinica di una psicosi, alcuni psichiatri
hanno proposto l’adozione di una nuova categoria diagnostica: la sindrome psicotica attenuata.
La
nuova diagnosi dovrebbe rientrare in quell’ambito che gli psichiatri americani,
influenzando i criteri adottati in tutto il mondo, definiscono del rischio di psicosi.
Voglio
subito fare un’osservazione critica di carattere lessicale, per richiamare
l’attenzione e la riflessione su una forma che tradisce la sostanza. Si sta
perdendo, in questo ambito, il reale significato della parola “rischio”, sempre
più spesso intesa nel senso che ha assunto in una deriva del gergo
epidemiologico-statistico. A rigore di termini, il rischio si configura nell’esposizione ad un pericolo che, in genere, è costituito da un fattore esterno,
presente nell’ambiente o caratteristico di una circostanza, come nel caso in
cui si visiti un paese ad endemia colerica e si rischi il contagio o il caso in
cui si cammini in equilibrio su un filo e, perciò, si rischi la caduta. In
questi due casi paradigmatici, se non si incontra l’elemento esterno o non si
mette in atto il particolare comportamento, scompare la minaccia. Ora, dire che
quando sono presenti dei particolari sintomi si configura un aumentato rischio
di psicosi, non è corretto, perché i sintomi non sono una condizione come il
viaggio che espone al contagio o il camminare sul filo che espone alla caduta,
aumentando un pericolo, ma sono manifestazioni di uno stato interno che
possiamo associare, sulla base di osservazioni precedenti, ad una probabilità
più elevata che successivamente si sviluppi un disturbo psicotico.
Dunque,
a meno che non si decida che rischio
significhi probabilità, e che non
importa distinguere fra rapporto associativo e causale, la terminologia appare
alquanto impropria. In generale, quando parliamo, ad esempio, del fumo come
fattore di rischio per il cancro del polmone, sono rispettati i vincoli
logico-semantici: il fumo di sigaretta è un fattore esterno con un ruolo
causale, al quale è esposto l’organismo.
Quando
in epidemiologia si individuano dei fattori di rischio per una condizione
morbosa, si è soliti includere elementi che appartengono all’individuo, come i fattori di predisposizione. Anche se non
troppo felice semanticamente, è ragionevole questa inclusione quando si
vogliano indicare dei geni che aumentano il rischio determinato
dall’esposizione a fattori ambientali quali, ad esempio, la sedentarietà e il
regime alimentare nello sviluppo di obesità e diabete. In effetti, si includono
nella stessa categoria elementi interni ed esterni che favoriscono lo sviluppo
di una condizione accrescendone la probabilità, ossia si attribuisce
l’etichetta di “rischio” ad un insieme eterogeneo di elementi che possono concorrere
al determinarsi di processi causali. Ma quando si giunge ad indicare dei
sintomi come “fattori di rischio” si opera una vera e propria forzatura, perché
le manifestazioni di una fisiopatologia appartengono all’ordine logico degli effetti, non delle cause.
Quando
si traccia il profilo di un disturbo caratterizzato da una sintomatologia
psicotica parziale o sfumata, non si sta individuando una condizione di pericolo ma si sta definendo o il quadro
di una diagnosi precoce o quello di
una forma meno grave. In assenza
della certezza che la sindrome evolva con le caratteristiche attualmente
richieste per la diagnosi di psicosi in generale e di schizofrenia in
particolare, gli psichiatri proponenti la nuova categoria diagnostica hanno
optato per una generica “forma minore”, ma proponendo un termine che, tradotto
ad orecchio in italiano, non è certo dei più felici: “attenuata”. Resa più
tenue da cosa? Ci si potrebbe chiedere. Anche se in questo caso, se si
scegliesse cioè di adoperare questa terminologia, si sarebbe in buona
compagnia, perché la nosografia nell’ambito della medicina interna si avvale
spesso dell’espressione “forma attenuata” per indicare espressioni clinicamente
più lievi di una malattia.
Ma,
accantonando queste questioni terminologiche che ho voluto proporre anche per
rimarcare l’impressione che la nuova proposta non sia il frutto di una
riflessione adeguatamente profonda e meditata dei problemi posti alla clinica e
alle neuroscienze da quelle espressioni disfunzionali che facciamo rientrare
nella categoria delle psicosi, occupiamoci dei problemi reali che
l’introduzione di questa diagnosi comporta.
I
proponenti sostengono che una delle ragioni a supporto dell’introduzione di
questa categoria consiste nel fatto che consentirebbe l’individuazione precoce
dei casi in fase iniziale e a rischio, consentendo di istaurare un trattamento
tempestivo con conseguente miglioramento della prognosi.
Se
i veri casi di psicosi, ossia quelli correttamente diagnosticati, corrispondono
ad un endofenotipo caratterizzato da un’alterazione del piano delle connessioni
fondamentali per il funzionamento psichico, difficilmente i mezzi terapeutici
attualmente a disposizione possono essere considerati alla stregua di uno
specifico trattamento preventivo secondo gli standard della medicina interna e
della chirurgia. Tuttavia, si deve tener conto di un ruolo positivo
sull’espressione dei maggiori sintomi comportamentali di diagnosi e trattamenti
precoci, emerso in numerose osservazioni cliniche condotte con metodi diversi.
David
L. Penn e colleghi nel 2005 analizzarono 30 studi di valutazione dei
trattamenti del primo episodio psicotico (esordio) e conclusero che un
intervento precoce con psicoterapia e farmaci era in grado di ridurre l’impatto
della malattia sulla vita dei pazienti. Studi più recenti hanno dimostrato che
metodi di intervento psicoterapeutico che favoriscono in qualche modo un
funzionamento normale attraverso la consapevolezza e l’impegno cosciente del
soggetto (tecniche cognitivo-comportamentali) e metodi che insegnano un savoir faire con i sintomi (accettazione
ed assunzione di compiti per una autogestione delle fasi critiche), senza
l’impiego di farmaci riescono di giovamento in molte condizioni.
Adottando
i criteri attuali per definire le psicosi precliniche, in alcuni studi si è
dimostrato che anche un semplice intervento dietetico può prevenire e ritardare
l’insorgenza dei sintomi. In particolare, si è data molta enfasi ai risultati
di uno studio del 2010 condotto da un team
guidato da G. Paul Amminger, psichiatra dell’Università di Vienna, che
sembra aver dimostrato la riduzione del 23% sul totale previsto di sviluppo di
una psicosi completamente espressa mediante il supplemento alimentare con acidi
grassi insaturi tipo “omega3” in giovani diagnosticati di una forma preclinica.
Lascio
a voi le considerazioni, i dubbi, le perplessità e le critiche
sull’affidabilità delle diagnosi sulle quali si è basata la selezione del
campione di questo studio, perché tali osservazioni richiederebbero un tempo
lungo ed esulerebbero dall’argomento in oggetto, implicando un’ampia
discussione sul modo stesso di fare psichiatria a partire dall’assunzione che i
criteri clinici individuino dei quadri corrispondenti a categorie
neuropatologiche precise ed omogenee. Qui ci limitiamo a notare che, anche
sulla base di tali studi, William T. Carpenter Jr. dell’Università del
Maryland, che presiede lo “Psicotic Work Group for DSM-5”, si è dichiarato
favorevole all’impiego della diagnosi di attenuated
psychosis syndrome per la prossima edizione del manuale
diagnostico-statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric
Association, che guida e influenza l’agire clinico della maggior parte della
comunità degli psichiatri.
Vediamo
come dovrebbe essere condotta questa diagnosi. Innanzitutto il mezzo mi lascia
un po’ perplesso: una checklist che
potrebbe essere somministrata da vari professionisti della salute, secondo il
suggerimento degli autori, come se attingesse a dati certi ed evidenti, quali i
segni radiologici di una frattura ossea o ecografici di una lacerazione
muscolare. Al contrario, invece, a mio avviso, un aspetto fondamentale da
cogliere e difficile da accertare ove difetti una particolare sensibilità
psicologica bene istruita e consolidata attraverso una lunga esperienza, riguarda
il grado di appartenenza alle costruzioni deliranti, agli effetti di illusioni
ed allucinazioni su cognizione ed affettività, così come la distanza interiore
dalla realtà che, spesso, è nascosta da formule verbali appartenenti a modi
acquisiti di una comunicazione sociale d’abitudine o di cortesia.
Molte
persone nella fase dell’esordio della psicosi o affette da una sintomatologia
non grave e, soprattutto, quando non sono attualmente deliranti, possono
apparire come invase dalla realtà esterna; una condizione che fece dire allo
psicoanalista Jacques Lacan che gli psicotici sono “porosi al mondo”: tutto il
contrario di quell’immagine di impenetrabilità dell’alienato dalla realtà descritta nei manuali e centrata
prevalentemente sulle manifestazioni della fase acuta.
Ho
fatto questo esempio, per dire che il riconoscimento di uno stato cerebrale che
si manifesta o si manifesterà con una sintomatologia corrispondente a uno dei
tipi clinici della schizofrenia o di altre forme di psicosi, è tutt’altro che
semplice e richiede competenza ed esperienza psichiatrica, oltre a doti
personali che consentano di porsi alla giusta distanza per meglio comprendere
il mondo interiore della persona esaminata. Se mancano questi presupposti, i
criteri diagnostici del DSM sono insufficienti o, se male intesi e impiegati,
possono divenire fuorvianti.
I
grandi maestri di semeiotica psichiatrica del passato insegnavano che la forma
in cui i sintomi appaiono e si esprimono è di grande aiuto ed è di per sé
sufficiente a porre una giusta diagnosi, solo quando la gravità del disturbo ha
portato ad una tale semplificazione della complessità mentale, da averla ridotta
quasi esclusivamente ad uno degli
stereotipi nosografici da manuale, virtualmente privo di eccezioni o
contraddizioni.
Da
giovane ho insegnato a molti colleghi che frequentavano i corsi di didattica
integrativa della clinica psichiatrica, a studiare aspetti apparentemente
marginali per cercare di rilevare tratti significativi della fisiologia
mentale.
Dicevo,
ad esempio, di cercare di capire come
una persona mente e se è capace di
fingere. Alcuni psicotici e pre-psicotici sono in grado di confabulare e
inventare storie di sana pianta o creare delle razionalizzazioni plausibili per
collegare formazioni deliranti fra loro o con comportamenti che la coscienza
della fase non acuta diversamente non potrebbe spiegare o giustificare. Eppure,
non sono capaci di mentire per un lucido calcolo di convenienza personale o per
proteggere una persona anche molto importante affettivamente. Suggerivo, poi,
di notare l’incapacità di fingere dei veri psicotici.
Nello
studio dei modi della cognizione e dell’uso del ragionamento spontaneo, fra le
tante particolarità che si rilevano negli psicotici compensati e nei
pre-psicotici, facevo notare un atteggiamento mentale, prima ancora che
comportamentale, che potremmo descrivere come impiego stabile e generalizzato
di un modo e di criteri che nelle persone non affette possono apparire in forma
reattiva, limitata nel tempo e circoscritta alle persone e alle circostanze in
cui si è prodotta. Mi spiego meglio con un esempio: un costante formare il
pensiero, nei confronti di una intera categoria di persone, come se fosse
ispirato ad una intransigenza dettata da rivalsa, ripicca o vendetta; ovviamente,
in una condizione assolutamente neutra per le esperienze personali del soggetto
e a totale insaputa della sua coscienza. Di passaggio, voglio ricordare che ho
riscontrato tale tipo di pensiero/atteggiamento anche in varie forme di deficit
cognitivo che non sfociano mai in psicosi. Un equivalente nel funzionamento
mentale normale potrebbe essere dato da “antipatie viscerali”; ma in questo
caso sebbene vi sia un’origine inconscia, la persona è cosciente di provare
quel tipo di avversione e non presenta il funzionamento psichico alterato.
Ma
nei criteri diagnostici per la sindrome di psicosi attenuata non si tiene conto
di nulla di tutto questo, né - se si eccettuano illusioni e allucinazioni - di
ben più importanti tracce costituite da familiarità per disturbi mentali,
sporadica comparsa di sintomi sospetti quali esperienze dissociative,
sensazione di essere oggetto di persecuzione o complotti, mancato
riconoscimento di persone ed ambienti familiari, perdita della sensazione di
appartenenza del proprio corpo o di una sua parte in assenza di malattie
neurologiche e di uso di sostanze psicotrope. Ecco la riproduzione della
checklist tradotta in italiano:
§
Hai
avuto illusioni o allucinazioni all’incirca una volta la settimana nello scorso
mese.
§
Tu
o una persona a te cara siete infastiditi dal tuo comportamento.
§
I
sintomi sono apparsi o peggiorati nell’ultimo anno.
§
Il
problema non è spiegato da nessun altro disturbo mentale, quale l’abuso di
sostanze o il disturbo bipolare.
E’
quasi imbarazzante commentare questa lista di 4 affermazioni da verificare come
domande indirette, fra le quali solo la prima, pur essendo vaga e generica, ha
una parvenza di quesito volto ad accertare la presenza di sintomi
psicopatologici. In particolare, sconcerta la scelta del secondo item.
La
diagnosi di pre-psicosi o di condizione a rischio per lo sviluppo di una forma
clinicamente definita di psicosi esiste già ed è anche più frequente di quanto
comunemente si pensi; la nuova categoria, soprattutto se individuata in base
alle sensazioni di fastidio e alla ricorrenza di sintomi mal definiti
nell’ultimo anno, è destinata a far crescere il numero di queste
pseudo-diagnosi. Il pericolo consiste nel fatto che si ritiene che, posta
questa diagnosi, bisogna stabilire un trattamento precoce e protratto; cosa
che, per molti psichiatri, vuol dire una somministrazione di psicofarmaci
antipsicotici potenzialmente a vita.
Non
è solo una mia preoccupazione. Per fortuna, anche nel campo degli stessi autori
del DSM, c’è chi condivide il mio punto di vista. La pensa come me Allen
Francis, psichiatra emerito della Duke University e presidente del gruppo che
creò il DSM-IV, il quale mette in guardia sull’alto rischio di diagnosi
erronee.
D’altra
parte, Patrick McGorry e i suoi collaboratori dell’Università di Melbourne in
Australia, in un autorevole studio del 2003 avevano già rilevato e dimostrato,
mediante una lunga ed attenta analisi longitudinale, che il 60% delle persone
etichettate “a rischio di psicosi” non aveva mai sviluppato il disturbo.
Francis
ha recentemente espresso la sua preoccupazione per i pericoli derivanti da
trattamenti non necessari istaurati per effetto di false diagnosi che,
inevitabilmente, crescerebbero con l’adozione di criteri diagnostici così mal
definiti. E’ nota a qualsiasi studente di farmacologia la diversa risposta
dell’organismo ai farmaci, in dipendenza dello stato fisiologico o
fisiopatologico nell’ambito del quale la molecola impiegata agisce. Gli errori
diagnostici e la natura stessa dei trattamenti farmacologici in psichiatria
potrebbero determinare un incalcolabile danno iatrogeno. Francis si è
soffermato sugli effetti collaterali indesiderati più comuni dei farmaci
antipsicotici che, in caso di somministrazione per diagnosi erronea in persone
non affette o che non svilupperanno mai la fisiopatologia cerebrale tipica
delle psicosi, potrebbero essere più marcati: iperglicemia, ipercolesterolemia,
incremento ponderale, disturbi del movimento quali forme di discinesia,
ipocinesia e bradicinesia, fino a stati di inibizione con goffaggine motoria.
Il
DSM-5 Psychotic disorders Work Group
deciderà se adottare la diagnosi di attenuated
psychosis syndrome, se rigettarla o includerla come categoria provvisoria
che richiede ulteriori studi. Per questa decisione c’è di tempo fino al maggio
2013: nel frattempo sarà necessario far capire quanto c’è ancora da correggere
e migliorare sia nei criteri diagnostici vigenti per i disturbi psicotici sia
nella formazione degli psichiatri.
Andando
a concludere queste riflessioni, che spero di poter articolare in una forma più
organizzata e dettagliata in un prossimo incontro su questo tema, voglio
osservare che l’impegno di molti ricercatori sta attualmente cercando di
definire markers genetici affidabili
di predisposizione e patterns
anatomo-funzionali caratteristici di specifici disturbi mentali mediante neuroimaging: lasciamo che maturino i
frutti di questo lavoro scientifico che potrà bene integrare lo scrupoloso impegno
di conoscenza clinica, fenomenologica e psicologica del paziente, invece di
compiere improvvisate e dilettantesche accelerazioni creando quadri sindromici
fittizi sulla pelle di persone vere.
L’autrice della nota invita alla
lettura delle recensioni di lavori di argomento connesso che compaiono nelle
“Note e Notizie” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).