Una
discussione neuroscientifica sulla sessualità animale e umana
SIMONE WERNER
NOTE E
NOTIZIE - Anno IX - 22 ottobre 2011.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica.
[Tipologia del testo:
RESOCONTO]
(Quinta
Parte)
La
quarta parte della discussione è stata pubblicata la scorsa settimana con le
“Note e Notizie” del giorno 15-10-11.
Ludovica R. Poggi. Julie Totten, che ha avuto un
ruolo non secondario nella promozione di quella campagna, attualmente presiede
l’associazione “Families for Depression Awareness” che svolge un capillare
lavoro di informazione sui sintomi della depressione, perché possa essere
riconosciuta dai familiari delle persone affette. Uno dei principali gruppi di
supporto dell’organizzazione è costituito da donne che discutono circa la
maniera migliore per convincere i propri mariti depressi a chiedere aiuto.
Lorenzo L. Borgia. Conosco l’organizzazione della
Totten ma, al rigurado, ricordo anche le osservazioni proposte dal professor
Perrella. L’attività, in sé veramente meritoria, si presta però ad una critica,
ossia la tendenza a condurre tutte le persone con una sintomatologia
depressiva, anche solo sfumata, sulla via del trattamento farmacologico
cronico. Il Presidente notava che il trauma di aver perso il fratello per
suicidio, aveva indotto Julie Totten a portare il padre dallo psichiatra per la
sua irritabilità e le frequenti espressioni di rabbia, che furono interpretate
come sintomi di depressione e trattate con un inibitore selettivo della
ricaptazione di serotonina. Nulla di negativo, se non fosse per il fatto che
dall’epoca dei fatti, ossia dal 1990 quando il padre della Totten aveva 54 anni
ad oggi che ne ha 75, continua ad assumere l’antidepressivo.
Ludovica R. Poggi. Si è vero, ma proprio su alcune
conoscenze neurobiologiche o neurofunzionali che rendono critico l’uso degli
antidepressivi stava argomentando Nicole Cardon prima delle nostre
interruzioni, perciò sarà lei a commentare questo aspetto. Intanto, voglio
sottolineare che la differenza psicologica fra uomini e donne nella depressione
che, come dicevi tu, non sappiamo quanto sia da attribuire ad influenze
ormonali e quanto sia un portato culturale, quasi di antropologia dei generi,
riguarda in modo molto marcato l’atteggiamento nei confronti del malessere
psichico. Un articolo recente che enfatizzava la tendenza a non chiedere aiuto
degli uomini si intitolava “Women seek help, men die”. Il sospetto che gli
stati funzionali influenzati dal testosterone abbiano un ruolo è accresciuto
dall’evidenza che dopo l’andropausa questo atteggiamento di chiusura è
percentualmente ridotto. Naturalmente potrebbero avere un ruolo importante
altri fattori, quali la più frequente consultazione di medici per altre cause
in età avanzata e una complessiva influenza dello status relazionale e sociale
della senilità che non richiede più le prestazioni e l’immagine di uomo che non
mostra debolezze, propria delle società occidentali e di quelle orientali
economicamente più evolute. Una conseguenza positiva della conoscenza delle
differenze sessuali trasmessa ai clinici dai ricercatori e, probabilmente, entrata
nella cultura clinica anche per l’intenso lavoro svolto da associazioni come
quella della Totten, è l’impiego di strumenti diagnostici specifici per i
maschi, come la Gotland Male Depression
Scale, un questionario elaborato nel 1999 e focalizzato sulla
sintomatologia più tipica degli uomini.
Giovanna Rezzoni. Avevo intenzione di menzionare
questo strumento diagnostico parlando delle differenze legate al sesso nelle
manifestazioni cliniche dei principali disturbi psichiatrici. Ma ora ridiamo la
parola alla professoressa Cardon per consentirle di proseguire l’esposizione
che abbiamo interrotto.
Nicole Cardon. Oltre dieci anni fa, Susan
Kornstein[1]
e colleghi della Virginia Commonwealth University, pubblicarono uno studio che
dimostrava che antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione di 5-HT o
SSRI, quali Zoloft, Prozac e Lexapro, non avevano negli uomini l’efficacia fino
ad allora presunta sulla base della sperimentazione precedente e accertata, in
questo caso, solo nelle donne. Lo studio, condotto con estremo rigore e su un
campione altamente significativo, fece grande scalpore ed apparve come una
sorta di esame di verifica di quanto emerso in tutti i principali studi clinici
precedenti. Negli USA, in particolare, causò dibattiti ed aspri contrasti fra
gli psichiatri, e si fece strada il sospetto che anche per altri parametri le
valutazioni in campo farmacoterapeutico fossero state influenzate, più o meno
consapevolmente, dalle pressioni esercitate dalle case farmaceutiche. In
proposito, Giuseppe Perrella riferì una dichiarazione della stessa Kornstein
che, commentando il fatto che i trials
clinici su cui si era basata l’approvazione degli SSRI da parte della FDA erano
stati effettuati su soli uomini (!), perché i ricercatori avevano voluto
eliminare i problemi rappresentati dalle variabili legati ai cicli mestruali,
parlava di red-faced defensiveness.
Rossi di vergogna e imbarazzati perché, evidentemente, lo studio condotto alla
Virginia Commonwealth University aveva rivelato qualcosa di più di una semplice
bias.
Ricordo
che, dopo aver intervistato Giuseppe Perrella nel 2003[2],
ho seguito per alcuni anni gli studi relativi all’assunzione di antidepressivi,
documentandomi sullo straordinario numero di prescrizioni: secondo i dati
ufficiali CDC, fra il 2003 e il 2006, ben 17 milioni di persone hanno assunto
SSRI.
Gli
studi che dimostrano l’estrogeno-dipendenza di una componente considerevole
dell’effetto antidepressivo degli SSRI si sono moltiplicati negli anni seguenti,
e le verifiche sperimentali negli animali hanno ampiamente confermato questo
dato. Non mi ricordo se abbiamo già citato in precedenza lo studio del 2008,
pubblicato su Psychoneuroendocrinology,
che dimostrava l’assenza di effetti antidepressivi dell’SSRI sertralina
(Zoloft) in femmine di ratto che non producevano estrogeni e la ricomparsa
degli effetti a seguito di un trattamento con estrogeni. Due anni fa, la
Kornstein ha condotto uno studio di follow-up
che ha dimostrato che le donne presentavano una probabilità maggiore degli
uomini di remissione dopo un trattamento con SSRI, anche se mediamente le
sindromi depressive delle donne erano più gravi.
In
precedenza, lo stesso gruppo di ricerca aveva dimostrato che gli uomini
rispondono meglio ad antidepressivi come il triciclico imipramina (Tofranil)[3]
e il buproprione (Wellbutrin) che hanno per principale obiettivo dell’azione
farmacologica la ricaptazione della dopamina e della noradrenalina anziché
della serotonina. Il perché di questa differenza di genere in effetti si trova
già in un lavoro a lungo ignorato del 1997, condotto da ricercatori dei
National Institutes of Mental Health (NIH) e della Yale University[4].
In
questo studio si impiegò una tecnica basata sulla tomografia ad emissione di
positroni (PET) per misurare i livelli della proteina trasportatrice della
serotonina, ossia il bersaglio degli SSRI, in donne e uomini che in passato
erano stati in terapia con questi farmaci ma che al momento dello studio non li
assumevano più. Nei neuroni delle regioni-chiave del cervello per i processi
psichici studiati, le donne mostravano una riduzione del 22% della proteina
trasportatrice della serotonina, mentre i maschi non presentavano alcuna
differenza con i volontari sani del gruppo di controllo che non avevano mai
sofferto di depressione.
Questo
dato sembra indicare - come sottolineato da Perrella - che nel sesso maschile
la riduzione della disponibilità di serotonina ha un’importanza decisamente
minore e, considerato che fra i dati neurobiologici certi c’è la riduzione del
volume dell’ippocampo e della produzione di dopamina, noradrenalina e
serotonina, verosimilmente per compromissione funzionale e/o perdita di
neuroni, pur con una differenza sessuale di risposta, rimane fondata l’idea che
il trattamento della depressione non deve basarsi principalmente su farmaci che
bloccano il processo fisiologico della ricaptazione delle monoammine
deficitarie per aumentarne la quota disponibile per la trasmissione sinaptica,
ma dovrebbe avere come principale riferimento un cambiamento di condizioni
esistenziali in grado di accrescere la neurogenesi cerebrale ed eliminare o
almeno ridurre le fonti di stress che
continuano a causare perdita di neuroni.
[continua]
[1] Attualmente Susan Kornstein dirige
l’Institute for Women’s Mental Health.
[2] Si veda su questo sito nella sezione “RUBRICHE” l’Intervista a Giuseppe Perrella, Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life – Italia”, in cui si parla di aspetti della neurobiologia e della terapia della depressione.
[3] Alla fine degli anni Settanta i triciclici inibitori della ricaptazione delle monoammine, imipramina e amitriptilina, erano già nello strumentario terapeutico della depressione e per quasi un ventennio sono stati i farmaci più prescritti per questo disturbo.
[4] Nishizawa S., et al. Differences between males and
females in rates of serotonin synthesis in human brain. PNAS USA, Vol. 94 No
10, May 13, 1997.