La
paternità riduce il testosterone negli uomini
DIANE RICHMOND
NOTE E
NOTIZIE - Anno IX - 01 ottobre 2011.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
E’
stato rilevato e confermato da vari gruppi di ricerca che i padri, rispetto a uomini celibi senza prole, a parità di condizioni
fisiologiche presentano livelli di testosterone più bassi. Se questo dato appare
incontestabile, la sua ragione è tutt’altro che chiara. La maggior parte degli
studi che hanno registrato tale esito nel dosaggio ormonale, infatti, è stata
condotta sulla base del metodo di acquisizione di dati in un determinato
momento della vita, come in una istantanea fotografica (cross-sectional study) che non fornisce informazioni diacroniche e
dinamiche. Tali rilievi, se pure consentono di affermare che sulla popolazione
generale gli uomini che vivono la condizione di padri hanno mediamente tassi di
testosterone più bassi dei coetanei che non hanno ancora sperimentato la gioia
di avere figli, non permettono di dedurre se la paternità ha effetto soppressivo sulla secrezione di testosterone o se gli uomini con
livelli limitatamente più bassi dell’ormone hanno una maggiore probabilità di diventare padri.
Lee
Gettler e colleghi hanno perciò condotto uno studio longitudinale, che sembra
aver fornito una risposta convincente al quesito (Gettler L., et
al. Longitudinal
evidence that fatherhood decreases testosterone in human males. Proceedings of the National Academy of
Science USA [Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1105403108], 2011).
I
ricercatori che hanno preso parte a questo studio afferiscono al Department of
Anthropology e ad altri istituti della Northwestern University, Evanston, e
della University of San Carlos (Filippine).
E’
noto che nelle specie animali in cui i maschi contribuiscono alla cura dei piccoli, i livelli di testosterone sono in genere alti durante il
periodo dell’accoppiamento, ma si riducono sensibilmente nelle fasi temporali
che seguono la nascita, per un adattamento evolutivo che consenta al genitore
di sesso maschile di dedicarsi alla prole o, almeno, cooperare con la femmina
nei compiti di accudimento, nutrizione e protezione.
I
ricercatori hanno ipotizzato che tale modello possa applicarsi alla realtà
umana, perciò hanno allestito, nelle Filippine, uno studio longitudinale includente 624
volontari giovani (età
21.5 ± 0.3 anni) che sono stati studiati per circa 5 anni a partire dal 2005, allo scopo di verificare nel tempo le variazioni
nei singoli e nel campione.
Durante
il periodo dello studio, circa un terzo degli uomini ha avviato un rapporto
coniugale stabile ed è diventato padre per la prima volta. Gettler e colleghi
hanno rilevato che gli scapoli con i livelli
più alti di
testosterone avevano una probabilità maggiore degli altri di essere scelti come
partner e di diventare padri entro il tempo stabilito per la verifica (4.5 anni
dopo – P < 0.05); un dato che suggerisce un’azione dell’ormone steroide sul
cervello in grado di influenzare l’atteggiamento e il comportamento nei
confronti dell’altro sesso, accrescendo la capacità di attrazione. Allorquando
tali uomini diventavano padri, si registrava una discesa a picco dei livelli
dell’ormone maschile, con un decremento di entità maggiore di qualsiasi
altro osservato fra gli scapoli senza figli.
Un
altro aspetto ancora più interessante è rappresentato dal riscontro di una
ulteriore riduzione del testosterone nei padri che
erano attivamente impegnati nella cura
dei figli (3 o più ore
quotidiane), rispetto a quelli che non se ne occupavano. Un dato, questo, che
suggerisce la riduzione di sintesi ed increzione di testosterone evocata dal
rapporto diretto e frequente con i bisogni e col corpo stesso dell’infante
totalmente dipendente dall’adulto.
Nel
loro complesso, i risultati di questo studio evidenziano la coerenza fra
l’andamento dei livelli di testosterone e la strategia riproduttiva della specie, intesa in senso biologico evoluzionistico:
l’incremento dei tassi dell’ormone aumenta la probabilità di accoppiamento ma,
come accade in innumerevoli altre specie, una volta che il fine riproduttivo è
stato raggiunto, è necessario che il genitore sia vincolato al compito di cura
che assicura la sopravvivenza della prole e non sia distratto dall’interesse
sessuale e reso incapace di accudimento dalla soppressione dei fap (da fixed action pattern) di cura parentale, causata dall’attivazione
dell’assetto fisiologico dell’accoppiamento. Una particolarità dell’uomo[1],
sembra essere anche l’ulteriore riduzione di testosterone che si verifica solo
se si occupa direttamente della cura quotidiana della prole: un adattamento funzionale
indotto dall’interazione col piccolo, necessariamente
mediata dall’elaborazione della percezione visiva, uditiva, tattile e,
probabilmente, ferormonica. La mediazione cerebrale di questi effetti sarà sicura
materia di indagine neurobiologica per i prossimi anni.
In
conclusione, i livelli di testosterone riflettono la conversione fisiologica
dallo stato funzionale caratteristico dell’accoppiamento a quello appropriato
al compito genitoriale. Gli autori dello studio osservano anche che i tassi più
bassi di testosterone conseguenti alla paternità potrebbero spiegare i migliori
parametri di salute rilevati nei coniugati con prole rispetto agli scapoli
senza prole.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni
dei lavori di argomento connesso che compaiono nelle “Note e Notizie” (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).
[1] A proposito di specificità, ricordiamo che, a differenza degli altri mammiferi, il maschio della specie umana, non essendo vincolato dalla ciclicità di periodi di refrattarietà ed attività, è sempre potenzialmente in grado di riprodursi.