Una rivoluzione nello studio della schizofrenia?

                                                                                                                                           

 

SIMONE WERNER

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno IX - 17 settembre 2011.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori neuroscientifici selezionati dallo staff dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti alla Commissione Scientifica.

 

 

[Tipologia del testo: RESOCONTO]

 

Un nuovo approccio allo studio biologico della schizofrenia e di molte altre patologie psichiatriche e neurologiche è stato impiegato al Salk Institute for Biological Studies in La Jolla (California) da un team di ricercatori guidato dal genetista Fred H. Gage, e, con una variante metodologica, da ricercatori della Stanford University. La pubblicazione dei due lavori sulla rivista Nature ha suscitato un enorme interesse presso la comunità neuroscientifica internazionale, inducendo molti studiosi a ritenere che questo nuovo modo di studiare la psicosi consentirà di comprendere presto e definitivamente, al livello cellulare, le alterazioni che contraddistinguono il cervello psicotico e consentirà di sviluppare terapie mirate ed efficaci. Ma non tutti concordano con questo punto di vista, e la Commissione Scientifica della nostra Società ha promosso un incontro per riflettere e dibattere su questo argomento. Qui di seguito si propone una sintesi dei principali interventi.

Nicole Cardon. È necessario, a mio avviso, partire da una breve descrizione del metodo impiegato dal gruppo di Fred Gage del Salk Institute e da quello del team della Stanford University. La procedura di base, nota negli Stati Uniti come disease-in-a-dish strategy, è stata già adottata per studiare la biologia di malattie come l’anemia a cellule falciformi e le aritmie cardiache, ma non era stata ancora impiegata per lo studio di disturbi psichiatrici e neurologici geneticamente complessi. Gage e colleghi sono stati i primi ad applicarla allo studio della schizofrenia, prelevando cellule dei tessuti cutanei da pazienti diagnosticati, appunto, della forma più grave di psicosi. I fibroblasti posti in coltura in una piastra (dish) sono stati convertiti in cellule staminali dell’adulto che, successivamente, sono state riprogrammate e indotte a differenziarsi in neuroni. Le cellule nervose, con tutte le caratteristiche genetiche del soggetto schizofrenico donatore dei fibroblasti di partenza, sono state sottoposte ad uno studio attento del quale sono stati pubblicati i primi risultati.

Il secondo gruppo di ricerca, quello della Stanford University, ha apportato una variante, probabilmente rendendo il processo più efficiente: ha convertito direttamente in neuroni le cellule prelevate dalla cute, senza passare per lo stadio di cellula indifferenziata totipotente.

Sicuramente questo approccio potrà fornire una quantità di informazioni impressionanti sul comportamento dei neuroni patologici in vitro, ma si deve tener conto che si è solo agli inizi e che, dunque, sarà necessario un lungo lavoro prima di definire le alterazioni comuni a tutti i pazienti e, in generale, la corrispondenza delle anomalie rilevate al livello cellulare e nell’interazione fra pochi neuroni, con i difetti funzionali dei sistemi neuronici e, in definitiva, con il funzionamento della mente nel suo complesso.

Diane Richmond. Intanto, si può notare che lo studio di cellule cutanee, prelevate da una persona affetta da schizofrenia e convertite in neuroni, al confronto di cellule simili originate da una persona non affetta, tendevano a formare un numero minore di sinapsi. Mi sembra già un dato oggettivo di rilievo. Poi un dato ancora più significativo riguarda la genetica. E’ noto che, soprattutto nelle due ultime decadi, più o meno da quando la psichiatria molecolare è considerata una branca indipendente della ricerca, molti geni sono stati associati a condizioni di patologia psichiatrica cronica invalidante e, in particolare, a quelle riconducibili al disturbo schizofrenico nelle sue varie forme cliniche. Lo studio delle cellule nervose neoprodotte da donatore schizofrenico, ha rivelato un’espressione alterata di circa 600 geni, ossia circa quattro volte il totale dei geni implicati dagli studi condotti fino ad oggi. L’alterata espressione genica è stata posta in relazione con il deficit nella formazione di connessioni.

Ludovica R. Poggi. A mio avviso, più che consentire progressi nella comprensione dei meccanismi alla base della sintomatologia, il nuovo approccio consentirà sulle basi attuali un miglioramento della terapia farmacologica delle psicosi per due ordini di ragioni: 1) si presenta come un metodo che permette la sperimentazione umana di numerosi farmaci; 2) consente lo studio personalizzato del farmaco che può essere scelto e dosato in funzione delle risposte in vitro dei “nuovi neuroni” dello stesso paziente.

Giuseppe Perrella. La definizione nosografica corrente di schizofrenia, soprattutto sotto l’influenza delle scuole di psichiatria d’oltreoceano, include la maggior parte dei casi di psicosi - categoria diagnostica della semeiotica psichiatrica classica - con una prevalenza dell’1% ed una componente genetica forte, la cui ereditabilità è attualmente stimata intorno all’80-85%. La straordinaria mole di studi sulla neurobiologia della schizofrenia ha chiarito l’importanza della base neurale e indotto molti studiosi a considerarla un vero e proprio disturbo neurologico. Gli studi post-mortem hanno rivelato riduzione del volume encefalico, della dimensione cellulare e della densità delle spine dendritiche, con anomalie nella distribuzione degli elementi cellulari nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo. Gli studi molecolari e neurofarmacologici hanno descritto anomalie principalmente nei sistemi dopaminergici, glutammatergici e gabaergici, tuttavia non è ancora stato definito un quadro patologico generale paradigmatico della schizofrenia e in grado di spiegare la fisiopatologia alla base dei sintomi. E’ noto che gli stessi sintomi possono essere prodotti da alterazioni diverse, e identiche anomalie genetiche (gemelli monozigoti) possono esprimersi in forme cliniche differenti. Se pure accantoniamo la mia visione, secondo cui a questo punto delle conoscenze sarebbe necessaria una completa riformulazione dei criteri che fondano la clinica psichiatrica, dobbiamo certamente considerare la necessità di progredire nel sapere neurobiologico, fino al punto di poter ridefinire i disturbi in base ai fattori causali, alla patogenesi ed alla fisiopatologia, per superare la contraddizione di un livello sintomatologico-clinico che non corrisponde univocamente ai processi fisiopatologici sottostanti, ma che costituisce il riferimento pressoché esclusivo per le scelte terapeutiche. I due studi di cui discutiamo introducono un metodo che consentirà proprio di accelerare l’acquisizione di conoscenze sulle basi neurali delle psicosi e di altri disturbi psichiatrici e neurologici.

Il lavoro di Gage e colleghi ha rilevato che i neuroni derivati dai fibroblasti degli affetti da schizofrenia, rispetto alle analoghe cellule nervose ottenute da soggetti sani, presentavano un numero minore di neuriti in associazione con un più basso tasso di giunzioni, accanto alla riduzione di espressione dei recettori del glutammato e ai bassi livelli della proteina PSD-95. Nel profilo di alterazione genica di questi neuroni neoformati erano inclusi numerosi componenti delle vie di segnalazione del WNT e dell’AMP-ciclico.

Daniel Weiberger, che presso il National Institute of Mental Health dirige il programma “Genes, Cognition and Psychosis”, sembra veramente entusiasta e ha infatti dichiarato che questo studio apre un’area interamente nuova di ricerca.

Sulla sperimentazione farmacologica e sulla possibilità di personalizzare la terapia è già stato detto da chi mi ha preceduto. Ma voglio osservare che si tratterebbe sempre di verifiche di efficacia di molecole già in uso, e non di una sperimentazione ex-novo, per la quale i tempi rimangono estremamente lunghi, visto che in media il tempo richiesto perché un nuovo composto passi dai primi saggi di tossicità all’impiego clinico come psicofarmaco è di 18 anni.

In ogni caso, non dobbiamo chiedere a questo approccio più di quanto possa dare, perché credo che siano necessari ancora grandi progressi nella conoscenza della neurofisiologia dei sistemi alla base della psiche umana, per comprendere il nesso delle lesioni di base con le manifestazioni sintomatologiche e con lo stato soggettivo esperito dalle persone affette.

Nella complessa realtà del cervello in sviluppo e in funzione, alterazioni molecolari e cellulari comportano conseguenze al livello dei sistemi di neuroni e delle cellule della glia encefalica che, nella loro organizzazione funzionale, tendono a generare compensazioni ed adattamenti plastici che possono tradursi in ulteriori differenze funzionali. Nel cervello degli psicotici sono presumibilmente presenti queste ed altre anomalie, al livello delle funzioni globali e dei rapporti fra sistemi, che difficilmente possono essere indagate con questo nuovo approccio.

 

Simone Werner        

BM&L-17 settembre 2011

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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