Danza
terapeutica nel Parkinson e in altre malattie neurodegenerative
A cura di LORENZO L. BORGIA
NOTE E
NOTIZIE - Anno IX – 21 maggio 2011.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica, e
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società
Nazionale di Neuroscienze.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
Il testo qui presentato è la sintesi della
trascrizione di una relazione tenuta dal Presidente della Società Nazionale di
Neuroscienze, Giuseppe
Perrella,
nel quadro di una sessione di aggiornamento del gruppo di studio di BM&L
sulla neurofisiologia del movimento, giovedì 24 marzo 2011, ad un incontro dal
titolo: “Le basi neurali
della danza e dei suoi effetti sul movimento patologico”. L’inizio dello
studio di questo argomento risale al settembre 2008 (si veda la nota: Note e Notizie 13-09-08 BM&L e la
neurofisiologia della danza).
(Settima
ed Ultima Parte)
In
questo studio sono state disposte delle prove di imitazione di movimenti della
mano e, per valutare l’influenza delle aree della corteccia cerebrale indagate,
si è impiegata la tecnica della stimolazione magnetica del cervello (MBS, da magnetic brain stimulation) in grado di consentire
un’interferenza selettiva dell’attività neurale di territori anatomici
circoscritti. L’abolizione mediante MBS, sia della normale funzione dell’area
di Broca che della sua omologa controlaterale, ha notevolmente ridotto
l’abilità di imitare movimenti delle dita con la mano destra da parte dei
volontari partecipanti all’esperimento. Iacoboni e i suoi colleghi ne hanno
dedotto che popolazioni di neuroni presenti in queste due aree simmetriche
della corteccia del lobo frontale sono essenziali per l’imitazione, un elemento
fondamentale per apprendere movimenti e comportamenti dagli altri e, in tal
modo, diffondere aspetti elementari e fondamentali della cultura umana nel
corso dell’evoluzione.
Brown
e Parsons forniscono di questi risultati una diversa interpretazione, che ci
appare più che plausibile sulla base di oltre 150 anni di osservazioni
neurologiche e neuropsicologiche su lesioni corticali che compromettono la
funzione di queste aree. I due ricercatori non hanno decodificato i risultati
in termini di abilità imitativa, ma hanno osservato che sia i passi del tango
da loro studiati, sia i movimenti delle dita degli esperimenti del gruppo di
Iacoboni, richiedono che il cervello ordini correttamente successioni di segmenti
interdipendenti di moto. Così come l’area di Broca si è specializzata
nell’ordinamento sequenziale di parole e frasi, la sua omologa dell’emisfero
destro potrebbe, su una base funzionale comune, intervenire nel porre unità semplici
di movimento nelle corrette successioni temporali necessarie alla danza. È
rilevante che questo montaggio in sequenza avvenga eliminando ogni cesura o
interruzione, conferendo continuità e fluidità automatica, così come avviene
nell’eloquio spontaneo.
Le
due interpretazioni non si escludono a vicenda, anzi ritengo che possano
rappresentare la lettura di due diversi aspetti di uno stesso fenomeno, secondo
un criterio tradizionale che distingue i processi imitativi dalle funzioni
necessarie alla selezione di schemi esecutivi; in altri termini, un substrato neurale che facilmente possiamo
ricondurre alla stessa matrice neurofisiologica. La scelta dei segmenti
codificati in memoria per il riconoscimento alla base della comprensione
motoria che consente di imitare, e
quella che permette normalmente di eseguire,
si basano evidentemente su un processo comune di selezione/collegamento che
richiede l’intervento delle popolazioni neuroniche dell’area di Broca e della
sua omologa controlaterale.
A
questo punto, posso proporre qualche considerazione conclusiva circa le ragioni
dell’efficacia della danza nel trattamento della malattia di Parkinson e sul
perché andrebbe impiegata sperimentalmente in altre malattie neurodegenerative.
La
mia idea è che l’efficacia della danza abbia una sua specificità
nell’evocazione di schemi funzionali globali che costituiscono dei paradigmi
originari dai quali si è evoluta tutta la gamma psiconeuromotoria di cui
disponiamo, accanto all’attivazione di modelli di processi interdipendenti che
consentono la combinazione nuova, variata e creativa di movimenti che attingono
alla specificità esclusivamente umana. Ciò avviene reclutando processi cruciali
di base specifici, come quelli che abbiamo appena considerato, e componenti
funzionali del movimento quali quelle dipendenti dal verme cerebellare, dal
corpo genicolato mediale e dal precuneo, che agiscono in modo globale e, per
effetto della sincronizzazione con la musica, attivano schemi che pongono in
correlazione processi naturali elementari di lunga storia filogenetica, come
quelli basati sui generatori centrali di movimento, con il complesso delle
possibilità motorie tipicamente umane e soggette alla parcellizzazione
dell’apprendimento dichiarativo che impiega razionalità e cultura nel definire
modi e forme di esercizio dell’intenzionalità volontaria.
Il
danno neurodegenerativo penalizza in genere una componente di un complesso in
equilibrio che, per questo, si sbilancia generando i sintomi. Nella malattia di
Parkinson la componente maggiormente colpita dalla degenerazione è il
contingente dopaminergico nigro-striatale che origina dalla pars compacta della substantia nigra mesencefalica. Nella Malattia di Huntington,
almeno inizialmente, la componente maggiormente interessata è costituita dai
neuroni dello striato contenenti encefalina, che proiettano alla parte esterna
del globus pallidus; poi, col
procedere della malattia, la perdita di neuroni appare meno circoscritta che
nel Parkinson, estendendosi in altre aree, quali il tronco encefalico, il
talamo, gli altri nuclei della base e la corteccia cerebrale.
Se
le ragioni dell’efficacia della danza sono quelle appena ricordate, si
giustifica l’impiego nella Corea di Huntington, soprattutto nella fase
iniziale, anche con fini di prevenzione secondaria, ossia prima che la
sintomatologia sia pienamente sviluppata. In altri termini, l’esercizio
potrebbe favorire un progressivo compenso da parte delle componenti non
danneggiate con un riadattamento plastico indotto, di volta in volta, dagli
sforzi compiuti per raggiungere gli obiettivi motori dell’apprendimento.
Ricordiamo
che l’affezione neurodegenerativa descritta per la prima volta nel 1872 da
George Huntington, medico di Pomeroy, nell’Ohio, non è così rara come si era
creduto in passato, presentando una prevalenza di 5-10 per 100.000 nelle
popolazioni studiate[1].
Vediamo
ora una sintesi schematica che ci consente di accostare questa patologia a
quella parkinsoniana.
La
malattia di Huntington si manifesta come disturbo ipercinetico del movimento con una fisiopatologia, per buona parte del suo decorso,
opposta a quella della malattia di Parkinson[2].
La degenerazione striatale sembra interessare primariamente
i neuroni contenenti encefalina che costituiscono l’uscita inibitoria verso la
parte esterna del
pallido (globus pallidus esterno,
GPe), il quale normalmente inibisce il nucleo subtalamico o corpo di Luys, attivo soprattutto
all’inizio dei movimenti. La degenerazione fa mancare, così, il normale
controllo esercitato su GPe, provocando un aumento della sua funzione
inibitoria del nucleo subtalamico. Il corpo
di Luys ha una funzione prevalentemente eccitatoria su nuclei che
effettuano il loro controllo mediante inibizione, dunque l’inibizione del
nucleo subtalamico da parte di GPe causata dalla degenerazione, si traduce in
una eccitazione conseguente alla perdita della funzione inibitoria a valle.
In altri termini, normalmente si ha questo schema
funzionale:
neostriato — inibisce
→ GPe — inibisce → nucleo subtalamico — eccita → sostanza nera parte reticolata (SNr) e GPi — inibisce → VA/VL
del talamo — eccita → corteccia cerebrale.
Nella corea di Huntington si determina questa alterazione:
neostriato ― non inibisce → GPe ― aumenta l’inibizione
→ nucleo
subtalamico ― non eccita più
→ sostanza nera
parte reticolata (SNr) e GPi ― non inibisce più → VA/VL del talamo ― aumenta
l’eccitazione → corteccia
cerebrale.
Al termine di questa successione di eventi si ha un aumento
dell’eccitazione talamocorticale con ipercinesia dovuta all’incremento
dell’attività della corteccia all’origine dei movimenti intenzionali.
I
limiti anche temporali di questa relazione, non mi consentono di proporre una
rassegna dettagliata di tutti gli studi che, nel solco dell’esperienza avviata
quattro anni fa da Gammon Earhart e Madeleine Hackney, hanno dimostrato
l’efficacia della danza, ma anche di altre forme di disciplina motoria, quali
il Tai Chi, nel trattamento di condizioni dovute a una patologia neurodegenerativa
invalidante; pertanto invito tutti coloro che siano interessati, a costituire
un gruppo di studio che consenta tale dettaglio ed approfondimento, anche allo
scopo di esplorare possibilità non ancora sottoposte al vaglio sperimentale.
[1] Si veda in Siegel, Albers,
Brady, Price, Basic Neurochemistry,
p. 771, Academic Press, 2006, e Harper P. S., Human Genetics 89, 365-376,
1992.
[2] La parte che segue in corpo minore è stata proposta in power point ed è tratta da G. Perrella, Appunti di Neurochimica, BM&L, Firenze, 2006, cui si rimanda per una trattazione più completa dell’argomento.