Danza terapeutica nel Parkinson e in altre malattie neurodegenerative   

 

 

A cura di LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno IX - 02 aprile 2011.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione “note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori neuroscientifici selezionati dallo staff dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti alla Commissione Scientifica, e notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società Nazionale di Neuroscienze.

 

 

[Tipologia del testo: SINTESI DI UNA RELAZIONE]

 

 

Il testo qui presentato è la sintesi della trascrizione di una relazione tenuta dal Presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, Giuseppe Perrella, nel quadro di una sessione di aggiornamento del gruppo di studio di BM&L sulla neurofisiologia del movimento, giovedì 24 marzo 2011, ad un incontro dal titolo: “Le basi neurali della danza e dei suoi effetti sul movimento patologico”. L’inizio dello studio di questo argomento risale al settembre 2008 (si veda la nota: Note e Notizie 13-09-08 BM&L e la neurofisiologia della danza).

 

(Prima Parte)

 

Fece scalpore, nel dicembre 2007, la pubblicazione di uno studio condotto da Gammon Earhart e Madeleine Hackney[1], che dimostrava per la prima volta l’efficacia del tango nel ridurre la rigidità cerea e migliorare l’equilibrio e l’esecuzione dei movimenti in persone ammalate di malattia di Parkinson ad uno stadio non avanzato. Gli effetti di 20 lezioni pratiche del celebre ballo argentino su volontari affetti dalla malattia neurodegenerativa, furono comparati con quelli ottenuti da un uguale numero di sessioni di esercizi riabilitativi standard su pazienti che fungevano da gruppo di controllo: complessivamente presero parte all’esperimento diciannove parkinsoniani di età avanzata.

Le valutazioni, condotte una settimana prima ed una settimana dopo la fine della sperimentazione, furono effettuate mediante l’impiego della UPDRS (Unified Parkinsons’s Disease Rating Scale) e, per la valutazione dell’equilibrio, della “Berg Balance Scale”. Anche se alla UPDRS tutti i partecipanti avevano fatto registrare un miglioramento, risultò che coloro che avevano praticato il tango avevano più di rado arresti motori, presentavano maggiore fluidità nei movimenti e risultati decisamente migliori al test “Timed Up and Go”, una prova impiegata per individuare i pazienti a rischio di caduta. Alla “Berg Balance Scale”, solo i volontari esercitati con i passi di danza avevano fatto rilevare notevoli progressi, mentre il gruppo di controllo non aveva ottenuto alcun miglioramento con il trattamento standard[2].

Ho scelto di prendere le mosse da questo lavoro perché, come ebbi già modo di dire nel 2008, la prima dimostrazione scientifica dell’utilità di un ballo nel trattamento di una malattia neurodegenerativa così diffusa e invalidante, ha fatto definitivamente uscire lo studio delle basi neurali della danza dalla nicchia delle curiosità di interesse elitario per farlo entrare, a pieno diritto, nel novero delle aree di ricerca neuroscientifica di generale interesse biomedico.

È nota, ai soci che partecipano a questo incontro, la mia ipotesi sull’origine della danza nella realtà umana e sulla filogenesi delle sue basi neurali, con la dettagliata descrizione del ruolo dei generatori centrali di movimento; perciò non vi dedicherò altro tempo in questa sede, e mi limiterò a ricordare che, se il nucleo originario è costituito dall’esigenza di esprimere uno stato d’animo, cui corrisponde un assetto funzionale dell’intero organismo, la radice psiconeurosomatica della danza è quanto di più fisiologico e naturale si possa concepire. È probabile che, dall’era dei primitivi ad oggi, nel corso di millenni di evoluzione culturale umana, si sia andati dall’impiego individuale immediatamente espressivo, a quello rituale di gruppo, simbolico-comunicativo, mistico-magico, erotico, religioso e, infine, propriamente artistico. È anche probabile che non si sia avuto uno sviluppo diacronico lineare secondo la successione che ho appena proposto, e che, già nelle società primitive, le diverse caratteristiche e funzioni, pur in forme poco evolute, siano coesistite con maggiore o minore espressione di ciascuna. È ragionevole supporre che l’aspetto legato alla riflessione umana sulla rappresentazione del movimento, all’invenzione di forme e configurazioni gradevoli o efficaci, al suo apprendimento ed insegnamento, abbia avuto un peso sempre maggiore, nascondendo alla coscienza collettiva l’origine naturale della danza, così come l’abito nasconde il corpo.

Se, come credo, le manifestazioni dinamiche di quello che i Greci chiamavano schema, ossia il corpo in azione rappresentato dai quattro arti in movimento, sono originate da un’esigenza espressiva, le forme artistiche che, pur condizionando tempi, tipi e configurazioni gestuali secondo un disegno cognitivo-cosciente, assecondano questa espressione, sono in grado di slatentizzare patterns neurofisiologici di lunga storia evolutiva e, pertanto, di grande potere fisiologico.

Molti anni fa ho dimostrato che è possibile, in alcune importanti funzioni neuropsichiche, riconoscere un’evoluzione sviluppata secondo due piani: uno comune a tutte le specie, che fornisce una struttura di processi di base, ed uno verosimilmente legato al rapido sviluppo del neoencefalo dei primati con l’enorme espansione della neocorteccia umana e delle sue funzioni attuate mediante il collegamento con ogni altra parte dell’encefalo, incluso il cervelletto. Ad esempio, a processi automatici di base che consentono di stimare la numerosità per pochi elementi ad un solo rilievo percettivo, ossia “a colpo d’occhio”, così come fanno uccelli e quadrupedi, si sono aggiunte facoltà di numerazione e calcolo che ci hanno consentito di sviluppare l’aritmetica e tutta la matematica. Allo stesso modo, si può fare l’esempio del linguaggio verbale, che ha strutture elementari comuni con il canto degli uccelli e le espressioni vocali di tante altre specie animali, alle quali si è aggiunto il sostrato neurale della neurofisiologia del pensiero e della cognizione simbolica astratta.

Formulai l’ipotesi dell’esistenza di due piani evolutivi per spiegare le caratteristiche delle funzioni presiedute dall’encefalo umano, quando ero studente, fra gli anni Settanta ed Ottanta, proprio a proposito del movimento. In quegli anni si parlava molto della capacità innata dei lattanti di non annegare se immersi in acqua; capacità che nella fase successiva di sviluppo si perde, tanto che ciascuno di noi deve imparare a nuotare o, per meglio dire, a galleggiare, per non andare a fondo. In questo caso è perciò possibile e necessario l’intervento di processi coscienti, appartenenti al livello evolutivo specifico del cervello umano, per consentire un apprendimento che, successivamente, sarà proceduralizzato, divenendo nuovamente automatico. Ritenni che, in questa manifestazione dell’ontogenesi che ricapitola la filogenesi, vi fosse un esempio significativo dell’esistenza dei due piani evolutivi, e definii il primo generale ed il secondo speciale. Il secondo, per manifestarsi, deve inibire il primo, che in tal modo sarà tenuto sotto controllo, secondo la regola aurea dell’encefalizzazione, termine con il quale si indica l’assunzione del controllo delle funzioni di centri sottocorticali da parte dei sistemi neuronici posti anatomicamente più in alto e, in genere, filogeneticamente più recenti[3].

Dunque, la danza, la cui origine antropologica è oggetto di interessanti studi ai quali rimando tutti coloro che siano interessati all’argomento, prima di essere il prodotto dell’ingegno umano come le lingue, la scrittura, il disegno, il gioco, e tante altre forme di attività che sono insieme motorie e simboliche, è conseguenza di facoltà, quali la risposta psicomotoria alla musica e la disposizione al movimento ritmico, che appaiono spesso come esigenze funzionali alle quali siamo predisposti. Inoltre, la danza, nel suo particolare rapporto con la musica, col ritmo e con gli affetti espansivi, si distingue anche dall’attività umana che, per molti versi, le è più prossima, ossia lo sport[4].

La maggior parte degli studiosi considera la sensibilità psicomotoria umana al ritmo e alle melodie, una novità evoluzionistica: sembra che non vi siano esempi in altre specie animali realmente comparabili con la nostra tendenza a reagire a tempo di musica[5], battendo un piede sul pavimento, percuotendo oggetti con le mani, oscillando o ondeggiando nell’intera persona o in parti del corpo, spesso in un automatismo inconsapevole. Se questi segni sono indicativi di abilità potenziali del singolo, la danza così come noi la conosciamo, nelle sue varianti che vanno dalla classica alle numerose espressioni contemporanee ed etniche, fino al ballo da sala, si propone come un’esperienza ed un esercizio di elevata coordinazione interpersonale, che può giungere fino alle superbe espressioni coreografiche dei corpi di ballo che costituiscono l’esempio più elevato di pratica di gruppo sincronizzata.

La ricerca neuroscientifica non si è occupata molto della danza fino a tempi recenti, quando è stato possibile lo studio per immagini del cervello in funzione. Le nuove metodiche ed un ampio repertorio di riferimenti normali e patologici, hanno consentito uno studio estensivo e proficuo dell’encefalo di ballerini professionisti e dilettanti, fornendo elementi molto significativi per poter rispondere a domande quali: in che modo il cervello gestisce gli spostamenti nello spazio durante la danza? In che modo scandisce i passi? Quali processi ci consentono di imparare serie complesse di movimenti organizzati in configurazioni estetiche, diverse dalla comuni azioni finalizzate?

 

[continua]

 

A cura di Lorenzo L. Borgia

BM&L-02 aprile 2011

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Gammon  M. Earhart e Madeleine E. Hackney, della Washington University School of Medicine in St. Louis, sono attualmente considerati fra i massimi esperti del settore.

[2] Hackney M. E., et al. Effects of tango on functional mobility in Parkinson’s disease: a preliminary study. J. Neurol. Phys. Ther. 31 (4): 173-179, 2007.

[3] Il concetto di encefalizzazione costituisce un’ipersemplificazione con una certa efficacia schematica e didattica, ma a ragione abbandonato da molti, perché sembra suggerire una differenza evolutivo-funzionale di parti dell’encefalo fra loro, idea che risente delle impostazioni teoriche localizzazioniste che si sono rivelate inesatte. La mia concezione dell’evoluzione della mente si basa proprio su riflessioni relative al funzionamento dell’encefalo come insieme e dell’intero organismo come unità.

[4] In realtà, esistono discipline sportive come la ginnastica artistica, il nuoto sincronizzato, il pattinaggio artistico, che da un punto di vista neurofunzionale ed estetico appartengono di fatto alla categoria della danza.

[5] Esula dai limiti di questa trattazione un approfondimento sulla sensibilità al ritmo tipicamente umana; qui mi limito a ricordare che la capacità di imitare ed apprendere sequenze ritmiche viene impiegata in protocolli di valutazione diagnostica dello sviluppo psicomotorio e cognitivo-strumentale in età evolutiva.