Basi
cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM
GIOVANNA REZZONI
NOTE E
NOTIZIE - Anno VIII - 11 dicembre 2010.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica, e
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società
Nazionale di Neuroscienze.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
(Settima
ed Ultima Parte)
La
sostanziale inefficacia del trattamento degli psicopatici sembra avere una
notevole eccezione in un programma impiegato da Michael Caldwell con
giovanissimi delinquenti considerati intrattabili.
Caldwell
lavora presso il Mendota Juvenile Treatment Center di Madison, nel Wisconsin,
dove usa una forma di terapia individuale intensiva battezzata “decompressione”
e finalizzata all’interruzione del circolo vizioso in cui la punizione per la
violazione delle leggi genera una maggiore spinta a delinquere. Il comportamento
aggressivo e lesivo dei ragazzi in trattamento, progressivamente si riduce fino
a consentire loro di partecipare ai programmi standard impiegati negli Stati
Uniti per la riabilitazione dei detenuti. Dati di assoluto rilievo sono stati
registrati in uno studio di comparazione fra un gruppo di oltre 150 giovani trattati
con la decompressione e un gruppo
equivalente che ha seguito i programmi di riabilitazione convenzionali. I
ragazzi sottoposti al nuovo metodo presso il Mendota Center hanno compiuto il
50% in meno dei crimini violenti perpetrati dai giovani trattati con i
programmi standard e, ciò che più conta, la differenza non è stata solo
quantitativa: i giovani partecipanti al programma convenzionale hanno ucciso 16
persone, mentre i ragazzi trattati da Caldwell non hanno commesso omicidi.
Si
comprende l’entusiasmo suscitato da questi risultati che, oltre a costituire
una buona notizia per la sicurezza sociale, prefigurano anche un enorme
risparmio di danaro pubblico; infatti, è stato calcolato che, a fronte dei
10.000 dollari spesi per il trattamento di una persona, se ne risparmiano
70.000 necessari per la sua custodia in carcere.
La
realtà positiva del Mendota Juvenile Treatment Center di Madison, non deve però
nutrire l’illusione di aver trovato la soluzione terapeutica alla psicopatia:
l’età estremamente giovane del campione trattato col metodo di Caldwell cosituisce
un caso particolare, rispetto al prevalere di psicopatici adulti, spesso
diagnosticati dopo una lunga carriera criminale e risultati inaccessibili al
trattamento o incapaci di miglioramenti comportamentali durevoli. Inoltre, gli
osservatori resi scettici dalle numerose esperienze pregresse, sollevano dubbi
sulla significatività del campione e, in particolare, sulla reale omogeneità
fra i correlati dei tratti rilevati nei giovani e quelli degli stessi tratti
espressi e rilevati negli psicopatici adulti. In ogni caso, l’esperienza del
Mendota Center supporta la convinzione della necessità e dell’efficacia di un
intervento precoce ma, allo stesso tempo, ripropone tutti i problemi relativi
al modo in cui si pone la diagnosi. Se è vero che la documentazione mediante neuroimaging di correlati morfologici,
fornendo la prova di una base neurobiologica delle manifestazioni
comportamentali ha costituito un progresso senza precedenti, è pur vero che
siamo ancora lontani dal poter disporre di reperti strumentali oggettivi e
diacritici sui quali fondare la diagnosi e, pertanto, l’individuazione
psichiatrica dei casi non segue procedure molto diverse da quelle del secolo
scorso ed è anche notevolmente limitata nell’efficacia dalla scomparsa – come
abbiamo visto – del disturbo dall’elenco del DSM e dalla sostituzione con una
categoria criminologica nella quale gli psicopatici non superano il 20% del
totale. Dunque, per proseguire nello studio sperimentale sulla natura dei
processi all’origine del disturbo[1]
e per concepire nuove terapie, si deve continuare a riferirsi a campioni di
persone identificate mediante liste di requisiti psicologici e tendenze comportamentali,
compilate in gran parte sulla base di elementi riconosciuti ed indicati come
significativi già il secolo scorso, ed integrate con elementi di dettaglio che
risultano utili soprattutto quando manchi una specifica esperienza.
Attualmente,
in genere, si impiega la Hare Psychopathy Checklist-Revised (HPC-R),
consistente in 20 criteri (caratteri
o requisiti), per ciascuno dei quali si può assegnare un punteggio variante da
0 a 2 (0, 1, 2), dove 0 rappresenta l’assenza della caratteristica e 2 la sua
piena espressione. Il punteggio massimo teorico è 40, ma si considera
psicopatico chi fa registrare un totale da 30 in su. Qui di seguito riportiamo
una traduzione italiana della checklist:
COMPORTAMENTO ANTISOCIALE
1. Bisogno di stimolazione e tendenza ad annoiarsi
2. Stile di vita parassitico
3. Scarso
controllo del comportamento
4. Promiscuità sessuale
5. Mancanza di scopi realistici di lungo termine
6. Impulsività
7. Irresponsabilità
8. Problemi comportamentali precoci
9. Delinquenza giovanile
10. Violazione dei patti o della parola data
TRATTI EMOZIONALI/INTERPERSONALI
11. Disinvoltura e fascino superficiale
12. Senso grandioso dell’autostima
13. Impiego patologico della menzogna
14. Tendenza a raggirare e manipolare
15. Mancanza di rimorso o senso di colpa
16. Superficialità dell’affetto
17. Insensibilità e mancanza di empatia
18. Incapacità di accettare la responsabilità delle
proprie azioni
ALTRI FATTORI
19. Commettere una vasta gamma di reati
20. Avere molti rapporti coniugali di breve durata.
La
validità della HPC-R sembra confermata dal fatto che le persone impiegate negli
USA per la taratura presentano, in media, un punteggio intorno a 4, mentre gli
psicopatici conclamati vanno sempre oltre i 30 punti. Si devono tuttavia notare
dei limiti, in parte riconducibili ai difetti comuni a tutti i tentativi di
misura di oggetti psichici non bene conosciuti, in parte specificamente
attribuibili al difetto di conoscenza di ciò che realmente rende diversa la
mente dello psicopatico da quella della maggior parte delle altre persone.
Negli adolescenti e nei giovani dai venti ai trent’anni è infatti comune
registrare punteggi molto alti e, talvolta, superiori al limite patologico;
nella maggior parte dei casi si tratta di stili di vita premiati e rinforzati
dagli effetti prodotti nell’ambiente relazionale dei coetanei, quali il capo
con atteggiamenti da bullo, il seduttore che si comporta da simpatica canaglia,
l’irresponsabile che conquista le simpatie degli altri mostrandosi sempre
disponibile, innamorato o sinceramente ammirato di coloro che sfrutta e da cui
dipende psicologicamente. Questo esito evidenzia, a mio avviso, due precisi
limiti della HPC-R: eccessivo peso allo stile comportamentale, che può
dipendere in modo decisivo dalle influenze ambientali, e mancanza di una stima
qualitativa con gradazione di importanza dei tratti nel loro valore di sintomo.
A questo secondo limite si potrebbe porre
rimedio, se vi fosse una migliore conoscenza dell’eziopatogenesi, con
l’adozione di un paradigma che la psichiatria ha preso a prestito con profitto
dalla medicina generale: l’individuazione di criteri maggiori, fra i quali includere elementi fondamentali per
la caratterizzazione o addirittura imprescindibili per porre diagnosi, e criteri minori, considerati accessori e
non necessari individualmente, ma solo nel loro insieme per completare il
quadro sindromico.
Le
osservazioni sulla HPC-R ci riportano alla questione nodale: la necessità di approfondire
la natura neurobiologica e psicologica della psicopatia per avere riferimenti più
specifici e certi. Questa esigenza si avverte ancor più se si leggono i
resoconti dei lavori che prescindono da una categoria diagnostica che
corrisponda alla descrizione psichiatrica classica dello psicopatico. Ad
esempio, studi epidemiologici recenti confermano, fra le altre, una nozione
nota da tempo, ossia il bassissimo numero di donne che sarebbero colpite dal
disturbo; il motivo non si conosce e, fra le ipotesi avanzate, vi è il legame
con il cromosoma Y[2], anche se i
dati sono insufficienti. Ma in questi studi, in genere, la diagnosi viene posta
in seguito ad accertamenti criminologici e, nella maggior parte dei casi, è
fusa o confusa con il disturbo
antisociale di personalità e, dunque, non si può escludere che le donne portatrici
del fenotipo cerebrale della psicopatia, essendo per ragioni socioculturali più
raramente indotte ai gravi delitti contro la persona che portano in carcere gli
uomini, più spesso sfuggano al rilievo diagnostico.
La
necessità di affrontare in modo decisivo questo stato di fatto, inaccettabile
se si pensa ai progressi compiuti dalle neuroscienze sperimentali in questi
ultimi venti anni, ha indotto Kent Kiehl a concepire un progetto ambizioso, ma
quanto mai necessario, che ha ottenuto l’approvazione e il finanziamento dei
National Institutes of Mental Health (NIMH) e Drug Abuse (NIDA) e della John D.
& Catherine T. MacArthur Foundation. Il programma, che avrà un costo di
molti milioni di dollari, prevede la raccolta esaustiva di dati genetici,
immagini cerebrali e dettagliate storie di casi relative a 1000 psicopatici. Il
materiale sarà impiegato per costituire una banca-dati consultabile secondo
vari criteri, concepiti per andare incontro alle esigenze di ricercatori e
clinici.
Allo
scopo di facilitare l’esecuzione di studi tomografici mediante risonanza
magnetica nucleare in persone detenute, Kiehl ha partecipato alla realizzazione
di un apparecchio portatile (MRI portable
scanner)[3].
Le
premesse sembrano ottime, per poter scrivere una nuova pagina di sapere
neuroscientifico dalla quale derivino certezze che consentano di aiutare le
persone portatrici di questi tratti e, soprattutto, donare maggiore sicurezza e
serenità a tutte le comunità umane.
L’autrice della nota ringrazia il presidente della Società Nazionale
di Neuroscienze che le ha consentito di apportare tagli alla sua relazione,
riassunta nel presente testo.
[1] Si è scelto di proposito di non affrontare il problema relativo alla correttezza dell’inclusione della psicopatia nel novero delle condizioni patologiche facendone argomento di pertinenza medica, perché la ratio che fonda le obiezioni che sono state mosse, potrebbe ben valere per una parte rilevante dei quadri che compongono l’attuale nosografia psichiatrica, e ci avrebbe portato inevitabilmente a ripercorrere i percorsi tematici degli annosi dibattiti sulla medicalizzazione della devianza, esulando dai limiti della relazione e dal contesto tematico in cui è stata presentata [Nota del Relatore].
[2] Ricordiamo che nel Novecento si fece strada l’ipotesi di un cromosoma Y più lungo negli psicopatici e negli psicotici violenti, ma già nel 1978 uno studio francese ne mostrò l’infondatezza: Bénézech M., Noel B., Mouget A., Human Genetics 41 (2): 211-216, 1978.
[3] Si veda sull’argomento Note e Notizie 22-11-08 La risonanza magnetica nucleare portatile.