Basi
cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM
GIOVANNA REZZONI
NOTE E
NOTIZIE - Anno VIII - 4 dicembre 2010.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica, e
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società
Nazionale di Neuroscienze.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
(Sesta
Parte)
Ha
fatto scalpore alcuni anni fa la pubblicazione di un dato sconfortante: la
psicoterapia peggiorava le condotte delinquenziali aumentando il numero dei
crimini commessi. Persone psicopatiche detenute per reati penali ed incluse in
programmi di rieducazione sociale, erano sottoposte a trattamento psicologico e
seguite nel tempo per verificare l’efficacia della cura. Il loro monitoraggio
era paragonato a quello di gruppi equivalenti di detenuti psicopatici non trattati
in alcun modo[1]. Il rilievo
di questo risultato è evidente: non si tratta della semplice registrazione di
un insuccesso, ma del riscontro di un peggioramento nelle condotte criminali.
Kiehl
e Buckholtz, analizzando i più importanti di questi studi, individuano la causa
dell’esito negativo nella forma del trattamento: la psicoterapia di gruppo. L’ascolto
da parte di ciascuno delle debolezze, dei limiti, della vulnerabilità, ma anche
semplicemente delle dinamiche psicologiche dei partecipanti al gruppo, non è
una buona strategia -osservano i due studiosi- perché è notoria la capacità e
la tendenza degli psicopatici ad apprendere e sfruttare le debolezze altrui[2].
In altri termini, l’esperienza di gruppo costituirebbe un apprendimento
psicologico in grado di esercitare un effetto di incentivo, percepito dagli
psicopatici come una provocazione, una sorta di tentazione a sperimentare nuove
possibilità di compiere azioni efficaci in danno di altri.
Riguardo
agli effetti negativi della terapia di gruppo, si potrebbero aggiungere altre
ragioni, come il rafforzamento delle componenti psicologiche dell’identità
criminale (uno dei pochi, se non l’unico elemento che accomuna i partecipanti
al gruppo), l’apprendimento di know-how
attinente alle strategie impiegate da ciascuno nella propria vita di relazione,
che spesso è tutt’uno con l’attività delinquenziale, o anche il crearsi, nel
rapporto del singolo con il gruppo, di un riferimento microsociale ispirato ad
una sorta di “normalità amorale” che accomuna tutti i partecipanti.
Fra
gli altri tipi di trattamento psicologico, vi sono quelli con una decisa
impronta pedagogico-didattica che, se non hanno fatto registrare reali peggioramenti
nelle condotte criminali, non possono nemmeno vantare un bilancio positivo. Le
sessioni di tali tipi di terapia prevedono l’impiego -in forme che vanno dalla
conferenza al colloquio didattico- di materiali volti ad istruire circa
comportamenti umanamente desiderabili, socialmente virtuosi e legalmente
corretti. Un motivo di fallimento di questi programmi è stato ravvisato nella
difficoltà di comprendere e ritenere idee astratte[3].
Ma non si può trascurare che in queste terapie non si punta ad un modellamento
affettivo-emotivo e che, in generale, senza un’esperienza psicologica di
cambiamento interiore e di arricchimento nello spettro delle reazioni, si ottiene
ben poco in psicoterapia. Più specificamente, si è osservato che gli
psicopatici non divengono responsabili perché non riescono a comprendere il
concetto di responsabilità.
A
nostro avviso, nella maggior parte dei casi, le cose non stanno esattamente
così: le persone affette da psicopatia comprendono concettualmente cosa voglia
dire assumersi la responsabilità di qualcosa o di qualcuno, ma non riescono a provare il senso di responsabilità
e, dunque, non sentono l’istintività affettiva che costituisce la radice umana
di quella catena di legami personali e vincoli sociali che crea la trama di
solidarietà su cui si fondano i consessi sociali[4].
I
risultati negativi della maggior parte dei trattamenti rivolti a psicopatici
autori di reati, hanno indotto una parte considerevole degli psicoterapeuti a
ritenere la condizione intrattabile[5].
La dichiarazione di intrattabilità, anche se non condivisa da tutti, congiunta
con l’eliminazione della psicopatia dalla nosografia più seguita, inevitabilmente
ci riporta ai tempi in cui questo quadro fenomenologico divenne “sindrome
medica” e alle ragioni di tale medicalizzazione, per una breve riflessione
sulla fondatezza del presunto venir meno di tali motivi.
Si
può risalire fino ai due pionieri della Psichiatria, Pinel ed Esquirol, che si
resero conto di un funzionamento mentale diverso da quello della media normale
e, in particolare, avvertirono una diversità nel modo spontaneo di sentire di
queste persone nelle circostanze più comuni, e ritennero che questa
particolarità consistesse in una sorta di anomalia
congenita dell’istinto.
Pinel
coniò la definizione “Mania senza delirio”[6]
nel 1809, mentre Esquirol, qualche tempo dopo, provò ad includere nella
definizione il riferimento all’istinto malato: “Monomania istintiva” o
“Monomania impulsiva”, per sottolineare la presenza di impulsi improvvisi[7].
Nella maggior parte degli psichiatri del XIX secolo era presente la convinzione
che in queste persone vi fosse un modo diverso di sentire e, conseguentemente,
una diversa tendenza ad agire fin dalla nascita, e che tale condizione
configurasse una follia, intesa come devianza dalla costituzione di fondo
normale. Morel la chiamò “Follia dei degenerati”, Pritchard (1835), “Moral
Insanity”, forse seguendo gli autori tedeschi dello stesso periodo che la
definivano “Moralistiche krankheiten”. L’idea che questa devianza fosse
totalmente da ascriversi a fattori presenti alla nascita, fu avversata da
Falret in Francia e da Griesinger in Germania, ma prevalse a lungo, soprattutto
in Francia: Magnan, Dupré, Delmas e Fleury (inizio del XX secolo) descrissero
una serie di temperamenti e caratteri congenitamente anormali, i “perversi
costituzionali”. Su questa stessa linea interpretativa, il grande nosografista
Kraepelin introdusse la categoria della “personalità psicopatica” fra le
malattie mentali; Kurt Schneider nel 1923 compì la trattazione di questa
sindrome sempre nel solco dell’etiologia congenita.
L’avvento
delle teorie psicoanalitiche nella ricerca psichiatrica e gli studi
psico-sociologici, facilitarono la valorizzazione del ruolo dell’ambiente nella
formazione di queste personalità e, negli ultimi decenni, il peso attribuito
all’ambiente è andato progressivamente crescendo. Alcuni autori, nella seconda
metà del Novecento, prediligendo il rilievo di uno squilibrio nella personalità
psicopatica fra la propria persona e il proprio destino, proposero per questi
pazienti la definizione di “squilibrati”.
Dunque,
all’inizio della medicalizzazione della follia, per dirla con Foucault, la
psicopatia era vista come un difetto congenito del cervello e, in quanto tale,
assimilabile ad una malattia congenita; nelle epoche seguenti, sebbene si fosse
data sempre più importanza al contributo dei fattori ambientali, soprattutto
perché gli studi su gemelli monozigoti[8]
non davano il 100% di concordanza, la presenza di un difetto alla nascita non
era più messa in dubbio da nessuna delle grandi scuole di psichiatria.
Il
progressivo abbandono di un approfondito studio di osservazione dei pazienti,
sostituito da un inquadramento diagnostico quasi esclusivamente mirato a
verificare la corrispondenza delle manifestazioni emergenti con quelle
necessarie a far rientrare la persona in una casella nosografica alla quale si
associa un indirizzo di trattamento[9],
ha fatto quasi scomparire il nucleo di conoscenza
per esperienza di quel modo particolare di essere, in cui insensibilità,
incapacità di empatia, impulsività, freddo raziocinio ed apparente stupidità,
stanno insieme. La mancanza di esperienza diretta e personale di psicologi e
psichiatri ha portato alla banalizzazione degli elementi descrittivi della
nosografia classica ed al prevalere della riflessione sugli argomenti
interpretativi legati alle costruzioni teoriche delle singole scuole[10].
Per questo, con il venir meno del consenso circa la plausibilità delle tesi più
accreditate sull’origine della personalità psicopatica, si è anche messa in
dubbio l’esistenza di una specifica realtà mentale preesistente uno stile di
comportamento indotto dall’ambiente.
Le
correnti psicoanalitiche più prossime all’insegnamento freudiano, indicavano la
prima causa in una carenza narcisistica precoce, reale come nella psicosi, ma
differente nella formula[11],
individuando poi nei comportamenti della madre e del padre le concause che
avrebbero definitivamente forgiato la personalità psicopatica. Le
interpretazioni derivate dalle teorie di Melanie Klein postulavano, invece, una
debolezza estrema dell’Io e un Super-Io primario riflettente una “proiezione
perpetua dell’aggressività del mondo esterno” con “impossibilità della
mentalizzazione dovuta all’assenza di conflitto interiorizzato”[12].
Il
sistematico riscontro dell’infondatezza di queste cause su campioni
considerevolmente numerosi, accanto al discredito per le ipotesi biologiche, ha
indotto ad eliminare il concetto di psicopatia dalla classificazione degli
psichiatri americani e, conseguentemente, dal novero dei disturbi riconosciuti
dalla comunità psichiatrica internazionale. Con un’espressione cara agli autori
di lingua inglese, si può dire che si è buttato
via il bambino con l’acqua sporca del bagno.
[continua]
L’autrice della nota ringrazia il presidente della Società
Nazionale di Neuroscienze che le ha consentito di apportare tagli alla sua
relazione, riassunta nel presente testo.
[1] Kent A. Kiehl & Joshua W.
Buckholtz, op. cit., p. 28.
[2] Kent A. Kiehl & Joshua W.
Buckholtz, op. cit., ibidem.
[3] Kent A. Kiehl & Joshua W.
Buckholtz, op. cit., ibidem.
[4] E’ interessante notare che solo una parte di questi vincoli affettivi trova corrispondenza nelle forme legali (legami di parentela riconosciuti), mentre in molti casi si creano sentimenti di empatia, simpatia, solidarietà, tenerezza o pietà umana, che contribuiscono a generare obblighi interiori, nei confronti di persone alle quali non si è legati da rapporti di consanguineità o di altro genere formalmente riconosciuto.
[5] Sia la dichiarazione di intrattabilità che la scomparsa della diagnosi di psicopatia dal DSM possono interpretarsi come un’espulsione dal territorio della ragione medica, per una sorta di “crisi di rigetto” di un corpo estraneo che non sembra riconducibile al paradigma dei disturbi che affliggono le persone come malattie dalle quali si vuol guarire.
[6] Ricordiamo che il termine “mania”, che attualmente si riferisce alle forme di psicosi caratterizzate da eccitazione, tachipsichismo, tachilalia, estroversione, iperespressività, ecc., era a quel tempo sinonimo di disturbo mentale.
[7] Si vedano le trattazioni classiche di storia della psichiatria, per un resoconto sintetico, anche relativo ai riferimenti successivi, si veda Henry Ey, P. Bernard, Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 385, Masson, Milano 1983.
[8] Celebre lo studio di Lange del 1926, che aveva trovato perfetta concordanza in cinque coppie di gemelli su sette.
[9] In altri termini, ci si comporta come se si fosse in presenza di una patologia internistica, che la clinica medica ha ben definito sulla base della conoscenza della patologia generale del processo ed ha abbinato ad un trattamento farmacologico specifico ed efficace.
[10] Con ciò intendendo soprattutto le varie scuole psicoanalitiche e di psichiatria psicodinamica, la fenomenologia, la psichiatria di ispirazione biologica a quel tempo fortemente improntata al determinismo genico e, per questo, scarsamente seguita.
[11] Si veda in Henry Ey, P. Bernard, Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 397, Masson, Milano 1983.
[12] Henry Ey, P. Bernard, Ch. Brisset, Op. cit., p. 398.