Basi
cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM
GIOVANNA REZZONI
NOTE E
NOTIZIE - Anno VIII - 30 ottobre 2010.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica, e
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società
Nazionale di Neuroscienze.
[Tipologia del testo: SINTESI
DI UNA RELAZIONE]
(Prima
Parte)
Studi
recenti, confermando osservazioni e descrizioni nosografiche riportate nella
trattatistica psichiatrica della tradizione europea, non solo hanno verificato
l’esistenza di una condizione corrispondente alla diagnosi di psicopatia, categoria esclusa dal
Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM),
ma hanno cominciato ad individuare le basi biologiche di un deficit funzionale
che condiziona l’incapacità di provare emozioni, empatizzare, leggere segni
affettivi ed emotivi negli altri e, infine, imparare dai propri errori[1].
Giuseppe
Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, lo
scorso giovedì 28 ottobre ad un incontro con i soci di BM&L su questo
argomento, ha presentato una relazione dal titolo: “Psicopatia: stato funzionale,
fenotipo cerebrale o quadro nosografico in psichiatria?”. Di qui in avanti
riferirò di questa relazione riportando fedelmente, sia pure in forma
riassunta, il contenuto dell’esposizione del professore, del quale condivido le
opinioni che ho avuto il privilegio di ascoltare ed apprezzare negli anni della
mia formazione.
La
cultura popolare di lingua inglese negli ultimi decenni ha associato l’idea di
psicopatico ad immagini cinematografiche come quella di Jack Nicholson che
insegue con un’ascia la moglie e il figlio, nel film The Shining di Stanley Kubrick, o quella di Antony Hopkins con il
viso serrato in una maschera di contenzione ne Il silenzio degli innocenti, dove interpreta Hannibal Lecter, o
Hannibal the Cannibal, nato dalla fantasia di Thomas Harris. Personaggi
spaventosi, inquietanti e repellenti nell’atto di compiere o concepire crimini
efferati. Ma la realtà pone sotto gli occhi di psichiatri, criminologi e
ricercatori, un aspetto meno noto ma estremamente importante dello psicopatico:
nella maggior parte dei casi e per la maggior parte del tempo, lo psicopatico
appare corretto, garbato, socievole, affabile, ben disposto, interessato agli
altri, buon conversatore, divertente e perfino brillante, così da risultare
gradevole e suscitare sentimenti amorosi. In Italia abbiamo l’esempio di Angelo
Izzo, il brutale, efferato e recidivo omicida e stupratore del Circeo che,
nonostante la diffusione televisiva di alcuni suoi modi ed espressioni che
tradiscono un evidente disturbo mentale, è riuscito a conquistare la fiducia di
magistrati ed assistenti sociali, ed ha attratto una giornalista tanto da indurla
ad accettare di sposarlo.
Prendendo
le mosse dalle ragioni che hanno motivato questo aggiornamento, ossia il
riconoscimento di ben definite differenze fra il cervello degli psicopatici e
delle persone non affette - in particolare l’ipoevoluzione del sistema paralimbico - si deve notare che essere
portatori di un tale difetto non necessariamente vuol dire essere delinquenti;
tuttavia, quando le condotte criminali sono adottate dagli psicopatici, la
logica che le sottende diviene parte integrante del loro funzionamento psichico
ordinario e, anche se i comportamenti non sono materialmente posti in essere
per lungo tempo, in circostanze e stati mentali favorenti possono riemergere
come un fiume carsico. Pertanto, la conoscenza della reale esistenza di una
differenza così profonda nel modo di funzionare del cervello, dovrebbe indurre
a concepire e realizzare programmi di screening
e prevenzione, oltre che costituire un termine di confronto per la ricerca che
studia il ruolo delle componenti affettivo-emotive nella vita psichica umana.
L’esclusione
della psicopatia dal DSM, mai bene
motivata e giustificata sulla base di criteri scientifici, è grave non solo
perché questo catalogo di oltre 300 quadri diagnostici di interesse psichiatrico
è diventato una sorta di riferimento obbligato nella formulazione e non più solo nella comunicazione delle diagnosi, praticamente in tutte le nazioni più
sviluppate dei cinque continenti, ma anche perché nella maggior parte delle
scuole di psichiatria i criteri nosografici e diagnostici del manuale sono
diventati l’unico riferimento semeiotico, ossia l’unica cornice nella quale
concepire la dimensione medico-scientifica del disturbo mentale. Al punto che,
ormai, è consueto definire il DSM “la bibbia degli psichiatri”[2].
In tale repertorio diagnostico è presente il Disturbo Antisociale di Personalità [F60.2 corrispondente a 301.7
dell’ICD-10], una categoria diagnostica derivata da un prototipo incluso nella
nosografia classica fra le psicopatie, ma completamente rimodellata secondo
principi sociologici e legali statunitensi, in una prospettiva criminologica.
Due
fra i maggiori esperti di psicopatia, Kent Kiehl e Joshua Buckholtz, così si
esprimono circa l’esclusione della categoria dall’elenco dei disturbi del DSM:
“I creatori del DSM possono aver ritenuto che sarebbe stato troppo difficile
per il terapista medio fare un’accurata diagnosi: dopo tutto, è sicuro che gli
psicopatici mentono convincentemente durante le interviste”[3].
Ma poi precisano: “Qualunque sia la ragione, molti psichiatri ne hanno desunto
la falsa impressione che la psicopatia e il disturbo antisociale di personalità
siano la stessa cosa. Non lo sono. Il disturbo antisociale di personalità è
un’utile diagnosi quando l’interrogativo è relativo alla probabilità che una
persona si comporti male, ma non fa nulla per distinguere fra i criminali. Solo
una su cinque persone con disturbo antisociale di personalità è uno psicopatico.
Ma solitamente nei processi, gli esperti erroneamente asseriscono che quando un
imputato ha un disturbo antisociale di personalità, vuol dire che è uno
psicopatico, che a sua volta vuol dire che è probabile che rioffenda e non
dovrebbe essere rilasciato sulla parola.”[4].
Dunque,
applicando correttamente i criteri per la diagnosi di disturbo antisociale di
personalità, le corti penali di giustizia americane tendono ad errare per
eccesso. Al contrario, sembra che in Italia si commettano imperdonabili errori
per difetto, come nel caso di Angelo Izzo, la cui sintomatologia soddisfa
pienamente i criteri classici per la diagnosi di psicopatia e, dunque, alla
luce degli studi sulle basi biologiche di questa condizione, non gli si sarebbe
mai dovuta accordare fiducia come se si fosse trattato di una persona con un
cervello normale indotta a delinquere dalle circostanze, ma poi pentita della
propria condotta.
[continua]
L’autrice della nota ringrazia il presidente della Società
Nazionale di Neuroscienze che le ha consentito di apportare tagli alla sua
relazione, riassumendola nel presente testo.
[1] La descrizione
dello psicopatico come persona affetta da
un deficit funzionale che condiziona l’incapacità di provare emozioni, empatizzare,
leggere segni affettivi ed emotivi negli altri e, infine, imparare dai propri
errori, non è una definizione ma una indicazione operativa, a mio avviso
molto efficace, impiegata dal professor Perrella nel suo insegnamento della
semeiotica psichiatrica negli anni Ottanta.
[2] Bisogna dare merito a molti psichiatri italiani che hanno conservato e trasmesso, sia pure ciascuno con la propria angolazione prospettica e con il proprio paradigma culturale di riferimento, la lezione derivante dalla ricchezza e dalla profondità dei maggiori studi di osservazione del passato, che erano basati sull’esperienza e sulla rigorosa analisi della realtà fenomenica. In proposito, mi piace ricordare l’indipendenza di giudizio di Gaspare Vella e Massimilano Aragona, oltre che del compianto Nicola Lalli.
[3] Kent A. Kiehl & Joshua W.
Buckholtz, Inside the Mind of a Psychopath, p. 29, Sci. Am. MIND 21 (4), 22-29,
2010.
[4] Ibidem (traduzione dell’autore della relazione).